SOCIETÀ

Non ci sono europei senza se e senza ma. E per gli altri continenti?

Emozione, festa, gioia. Gli italiani primi fra gli europei, evviva! La 16° edizione del campionato europeo di calcio Uefa, 55 squadre partecipanti, 24 nella fase finale, si è chiusa domenica 11 luglio notte con la meritata vittoria della squadra italiana. Tutti in ginocchio a testimoniare BlackLivesMatter prima del fischio d’inizio, uno a uno in 120 minuti, abbiamo prevalso ai rigori: risa e pianti, abbracci ed esultanze, fuochi d’artificio e clacson alle stelle, Coppa in alto in campo e presidente Mattarella in tribuna, ci sta. La finale si è svolta nello stadio di Wembley, a Londra capitale di uno stato che non fa parte della transitoria unione che gli europei si sono dati, l’Unione Europea. In finale ha giocato la squadra dell’Inghilterra, che è solo una delle nazionali della nazione della Brexit, il Regno Unito ha partecipato al campionato con più squadre (fra l’altro pare che gran parte degli appassionati scozzesi, gallesi e irlandesi abbiamo tifato Italia con noi).

Ai nomi di un contesto non sempre corrispondono cose paragonabili, l’identità istituzionale è altra cosa dall’identità biologica, genetica e geografica. I sapiens comunitari del pianeta si sono dati l’Organizzazione delle Nazioni Unite, ma la dimensione istituzionale per stati non è l’unica, la pur ottima Onu appare come un’innaturale approssimazione. Noi abbiamo tifato Italia, ogni persona ha in genere tifato per lo stato di cui è cittadino. Noi abbiamo fatto bene, anche gli altri europei, con passione e rispetto ciascuno appoggia la propria identità di territorio, legge e lingua. E pur tuttavia lo Stato nazionale non è la stessa cosa per ogni umano (nemmeno i territori, le leggi e le lingue).

L’identità istituzionale è altra cosa dall’identità biologica, genetica e geografica

Fra 192 e 194 sono gli Stati indipendenti che possono ratificare accordi ONU; sono però almeno 205 i comitati olimpici “nazionali” parti del Comitato Olimpico Internazionale, quello delle prossime Olimpiadi di Tokyo, peraltro ancora intitolate al 2020; sono 223 le “nazioni” o i territori rispetto ai quali calcolare emigrazioni, immigrazioni e saldi di popolazione (con i periodici censimenti mondiali); sono almeno 268 le entità geografiche biologiche in qualche modo autonome e popolabili; sono almeno 63 le dipendenze e le aree a speciale sovranità associate in qualche modo a nove degli stati (Francia, Inghilterra, USA, Australia, ecc.); sono molteplici le terre e i popoli in attesa di stati (Palestina, Western Sahara) o d’incerta definizione (Taiwan, due arcipelaghi disabitati, l’antartico); sono almeno 350 i gruppi “nazionali” stateless che chiedono spazio e parole nell’ordine internazionale considerandosi come separate “nazioni”. E si potrebbe continuare, per esempio con i confini fra quegli spazi e quelle comunità; presunti, invocati, lottati; confini terrestri fra le “nazioni” giustificati da guerre vinte e perse dagli stati, conflittuali, diversissimi nel passato anche recente (a proposito anche di storia delle emigrazioni e immigrazioni); confini “nazionali” marini paragonabili ai terrestri forse solo nei tratti costieri (per quanto sempre più estesi, 12 miglia marine, più altre dodici talvolta, più le aree economicamente riservate). Attestiamoci sull’ONU, consapevoli della relatività. E parliamo degli abitanti di ogni ecosistema. Tutti meticci, ovunque in ogni continente e in ogni stato, da decine di migliaia di anni.

Tutti meticci, ovunque in ogni continente e in ogni stato, da decine di migliaia di anni

Il grande scienziato genetista Guido Barbujani (Adria, Rovigo, 1955) ha insegnato a New York e Londra, a Padova e Bologna, ora a Ferrara; da 45 anni studia e lavora pure sperimentalmente sul DNA; con chiarezza e completezza ha provato a tradurre la genetica delle popolazioni europee per noi principianti concittadini: ecco Europei senza se e senza ma. Storie di neandertaliani e di immigrati, Bompiani Giunti, Milano Firenze, 2021 (nuova edizione, prima edizione 2008), pag. 318 euro 13. Il volume uscì con successo circa tredici anni fa e viene ripubblicato a metà 2021 in edizione economica; il fatto è che non è bastato dargli una sistemata; sono cambiati sia i dati scientifici che il contesto europeo; l’autore ha finito per aggiornarlo in larga parte e proprio per riscriverne tre quarti. La struttura è restata la stessa, ma datazioni teorie ipotesi citazioni esempi approfondimenti hanno dovuto tener conto dell’accelerata evoluzione degli studi.

La sostanziale ipotesi viene ampiamente confermata, suffragata dall’evidenza scientifica: da milioni di anni siamo in continuo spostamento di qua e di là; è essenziale continuare a ricostruire queste migrazioni e i fenomeni per cui certe popolazioni si sono fuse con altre; nessun popolo ha mai avuto radici pure e univoche; i “veri” europei ci sono forse stati ed erano i neandertaliani, estintisi in seguito a un fenomeno migratorio (sapiens) dall’Africa; non c’è più, da nessuna parte, da millenni (e anche qui ora), qualcuno che si possa chiamare veramente europeo, senza se e senza ma. Il senso del volume viene giustificato con l’ausilio non solo della genetica. Le prime impronte di forme umane fuori dall’Africa risalgono a quasi due milioni di anni fa, da almeno un milione Homo heidelbergensis cammina anche in Asia e in Europa, da oltre 300 mila anni in Europa sopravvivono e si riproducono anche i Neandertal, i Sapiens da quasi 50 mila anni.

Nessuno può dire con sicurezza cosa sia successo nel periodo in cui si dividevano lo stesso continente quelle due specie umane (accanto ad altre), i Neandertal e i nostri antenati (di entrambe vi è da allora traccia nel genoma dei residenti europei), a volte così vicini da potersi guardare da versanti opposti di una valle. Circa 40 mila anni fa siamo rimasti soli. Nella migliore delle ipotesi gli “altri” si sono estinti non per volontaria causa nostra, nella peggiore li abbiamo spinti noi a estinguersi (più o meno direttamente). A quel tempo gli immigrati eravamo tutti noi, gli europei di una volta oggi non ci sono più. Prima e dopo di noi il clima è cambiato più e più volte nel continente a nord del Mediterraneo. I Neandertal, per esempio, hanno attraversato due grandi ere glaciali, Riss e Würm: seppero abituarsi a stare al ghiacciato, all’arso e in cangianti situazioni differenti. Vale davvero la pena di conoscerli più da vicino, non così diversi da noi, all’aperto e a tavola, con le loro tecnologie musiche parole bigiotterie cosmesi. Un certo strabismo è opportuno, si può e si deve apprezzare la loro unicità, tanto più che nelle nostre cellule sapiens abbiamo scoperto tracce leggibili delle migrazioni e delle genealogie delle specie precedenti e, soprattutto, noi europei (tutti neri fino a circa 10 mila anni fa) di quelle neandertal.

Da qualunque fattore dipenda la nostra facoltà del linguaggio, questo fattore si è evoluto in qualche antenato comune. Se l’uomo è animale parlante, i neandertaliani non erano meno uomini di noi.  L’eredità genetica dell’altra specie sopravvive in noi contemporanei, escono di continuo nuovi studi che le attribuiscono caratteri che ci appaiono talvolta vantaggiosi, talvolta svantaggiosi. Sembra addirittura che abbia influenzato la reazione del nostro organismo all’infezione da SARS-CoV-2. Il gruppo di Svante Pääbo del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia mesi fa aveva individuato, in collaborazione con altri laboratori, un gene tramandato dai neandertaliani che aumenterebbe la suscettibilità e le probabilità di ammalarsi gravemente di Covid-19, mentre più recentemente ne ha individuati tre che aumenterebbero la resistenza e ridurrebbero il rischio.

La storia evolutiva delle specie umane non è lineare, negli stessi luoghi si sovrappongono identità di specie diverse, vi sono di continuo migrazioni, cambiamenti climatici, co-adattamenti, mescolanze. Sarebbe, in tal senso, indispensabile affrontare di petto una questione ancora accantonata anche nel bel volume di Barbujani. Mancano purtroppo una riflessione collettiva e una discussione teorica multidisciplinare sul significato antico e moderno delle migrazioni e del migrare (assente anche nel piccolo glossario finale del volume), sui differenti concetti storici e geografici di emigrazione e immigrazione (più usato il secondo per motivi contingenti, per quanto condivisibili), sui gradi animali e specificamente umani di necessità e libertà nel cambiare stabilmente (o stagionalmente) residenza in relazione alle altre specie e agli ecosistemi (mutevoli climaticamente), sulla complicata maturazione del connubio contemporaneo diritto di restare - libertà di migrare.

Resta la conclusione su noi sapiens europei, con tanti se e con tanti ma, visto che gli aborigeni di tutti erano africani, che tutti discendiamo da popolazioni fuoriuscite a più riprese dall’Africa tra 85 e 60mila anni fa. L’individuo umano sapiente è un mosaico genetico a sé stante: tutti noi europei abbiamo una qualche radice in più luoghi ed ecosistemi, tutti noi sapiens siamo un poco sradicati e molto me­ticci. Non esiste alcuna componente genetica fondamentale che per­metta di definire “razza” un particolare gruppo umano (qui ancora Barbujani). Da decine di millenni nessuno è propriamente un autoctono, lo stesso luogo è appar­tenuto prima ad altri umani (e ad altre specie). Esistono più fo­colai creativi per ognuna delle nostre capacità individuali; ogni identità ha incluso qualcosa di precedente e qualcosa che viene da altri, pur avendo poi un proprio grado di inclusione ed esclu­sione.

L’ipotizzata migrazione fondante forse non era la prima dei sapiens nei Nuovi Mondi, certamente non era la prima fra le specie del genere Homo in quegli ecosistemi. E non fu l’ultima. Vi sono stratificazioni e rimescolamenti di immigrati in molti ha­bitat umani paleolitici e di emigranti in molti gruppi umani pa­leolitici. Nel nostro genoma, siamo tutti africani. Camminando siamo arrivati in ogni continente e vi ci siamo spostati dentro (la loro conformazione non era esattamente identica all’attuale e l’altezza del livello dei mari è variata spesso), sopravvivendo in luoghi estremi, vivendo nicchie da superpredatori, generando sempre meno fra consanguinei. L’ausilio di tecniche (come il ro­tolamento e poi la ruota) e di animali risale ad alcune migliaia di anni fa per pochi gruppi umani, la navigazione nemmeno due secoli. Ciascuno dei mezzi di movimento costruisce anche il territorio e i confini della comu­nità. La capacità di spostarsi lontano (e di migrare, eventual­mente) configura lo spazio con un centro (dove si risiede) e una pluralità di direzioni verso cui allontanarsi. La specie umana sapiente rimescola la geografia e nomina il migrare: la radice del termine ‘migrare’ affonda appunto nell’andare oltre, i miti greci (da Ulisse a Icaro) ne sono solo una conseguenza.

Siamo tutti africani e, dunque, non ci sono neppure asiatici o australiani senza se e senza ma (i loro continenti hanno accolto sapiens prima dell’Europa). Nemmeno solo africani in realtà, ormai, a dire il vero. La specie è tutta ovunque meticcia. Nei millenni, da tutti i continenti verso ogni altro continente, sono andati e venuti gruppi e individui nati altrove, altrove a lungo residenti, co-evoluti attraverso migrazioni e mescolanze. I popoli sono sempre stati complesse miscele di gruppi con origini diverse. Anche l’ultimo continente popolato dai sapiens non ha americani senza se e senza ma: il processo di popolamento delle Americhe fra 35.000 (se non ancora più precoce) e 15.000 mila anni, all’inizio dal Nord ghiacciato verso Sud (a proposito, l’Argentina ha battuto il Brasile al Maracanà nella finale di Copa America) e poi da innumerevoli rivoli in ogni verso, fa fu ben più complesso di quanto si ritenesse in passato. Vi furono molti popoli antichi diversi, non uno solo, a contribuire all’ascendenza dei popoli indigeni. Sotto questo punto di vista, la ricorrente questione dei “nativi” è principalmente politico-culturale non assolutisticamente biologico-genetica. La scienza aiuta a chiarire tempi e modi, in genere sono gli invasori ad aver imposto le regole, giusto dunque salvaguardare insieme culture e identità “più” antiche, dovrebbe essere un principio “costituzionale”.

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