SOCIETÀ

L’Africa contesa, tra autoritarismo e democrazia

Sette colpi di Stato negli ultimi due anni: in Africa il processo di democratizzazione segna il passo, mentre torna a soffiare il vento degli scontri tra potenze per il dominio del continente. È quanto si ricava dalla lettura di Sabbie mobili. L’Africa tra autoritarismo e democrazia, il libro da poco pubblicato per la Luiss University Press da Giuseppe Mistretta, attuale direttore per l’Africa Sub-Sahariana presso il ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

L’autore – forte della ventennale esperienza nell’area – analizza la situazione a 60 anni dalla decolonizzazione e a 30 dalla fine della guerra fredda, tracciando un ritratto a chiaroscuro: il fatto che nel giro di pochi mesi Mali, Ciad, Guinea, Burkina Faso e Sudan abbiano vissuto uno o addirittura due golpe militari (mentre un altro è fallito in Guinea Bissau) è infatti il sintomo di un malessere più profondo, che riaccende il dibattito sull’applicabilità della democrazia di stampo occidentale al di fuori del contesto originario. Se infatti dal 1950 al 2010 in Africa si sono verificati 169 tentativi di colpo di Stato, in un periodo caratterizzato da figure di dittatori sanguinari o di presidenti a vita o ereditari, è vero d’altra parte che negli ultimi anni ci sono stati significativi passi avanti verso la democrazia e il benessere.

Intervista di Daniele Mont D'Arpizio, montaggio di Barbara Paknazar

Per questo gli ultimi putsch nell’Africa occidentale e nel Sahel sembrano portare indietro l'orologio della storia, all’epoca di autocrati come Idi Amin Dada o Bokassa – commenta Giuseppe Mistretta nell’intervista a Il Bo Live –. Anche senza voler generalizzare c’è di che essere preoccupati: se prende piede il concetto che ad avere la meglio è l'uomo forte piuttosto che le istituzioni forti ci può essere un contagio, cosa per quanto possibile da evitare”. Nel libro si sottolinea come l’incapacità di alleviare la povertà di ampie fasce della popolazione, assieme all’inefficienza, alla corruzione delle classi dirigenti elette e ultimamente anche alla vulnerabilità di fronte al terrorismo jihadista stiano progressivamente erodendo la legittimazione dei governi costituzionali: ancora oggi seicento milioni di africani non hanno accesso all’elettricità, trecento sono ancora costretti in condizioni di analfabetismo mentre circa quattrocento sono privi di qualsiasi documento di identità.

Certo, ci sono anche esempi di come elezioni regolari e Stato di diritto abbiano stimolato e accompagnato sviluppo economico e crescita del benessere sociale: è il caso di Senegal, Zambia e Tanzania (che non hanno mai avuto colpi di Stato), ma anche Ghana, Kenya, Sud Africa, Botswana, Namibia e Angola. Negli ultimi tempi però il modello democratico appare in crisi di identità, mentre attori internazionali sempre più attivi in Africa come Cina e Russia (ma anche Turchia, che da poco ha aperto un’importante base militare a Mogadiscio, Arabia Saudita, Emirati e Qatar) vengono percepiti come ambasciatori di una concezione autoritaria e dirigista che a molti appare oggi vincente.

Se prende piede il concetto che ad avere la meglio è l'uomo forte piuttosto che le istituzioni ci può essere un contagio

“Il ritorno del dualismo tra democrazia e autoritarismo, che per certi versi riecheggia la Guerra Fredda, non segna in realtà un ritorno al passato – scrive di Nathalie Tocci nella prefazione di Sabbie mobili –; non appare verosimile una contrapposizione tra vasi sostanzialmente non-comunicanti: l’interdipendenza e la globalizzazione, seppur rimodulata, continuerà a definire le relazioni internazionali del Ventunesimo secolo (…) Al tempo stesso il nostro mondo ci racconta che altri sistemi politici di natura autoritaria possono rappresentare un’alternativa sostenuta e forse addirittura sostenibile nel tempo: contare sulla loro ineludibile disfatta sarebbe ingenuo”.

Oggi in Africa operano Paesi che hanno regole d’ingaggio differenti dalle nostre – continua Mistretta, già ambasciatore d’Italia in Angola (2009 – 2014) e in Etiopia (2014 – 2017) –; è chiaro ad esempio che i Paesi del Golfo nella loro espansione hanno anche un interesse religioso, mentre la Russia non si fa scrupoli a utilizzare i mercenari della Wagner. Questi governi non devono confrontarsi con opinioni pubbliche, lobbies, opposizioni e stampa libera, per questo possono agire in maniera più spregiudicata”.

I Paesi occidentali e in particolare l’Ue cercano intanto di affrancarsi dalla pesante eredità del colonialismo, come anche dalle conseguenze delle periodiche crisi politiche e diplomatiche sui migranti: “Nel vertice di Abidjan del 2017 tra Unione Europea e Unione Africana è stato definitivamente stabilito che quella tra Europa e Africa è una partnership paritaria e che lo sviluppo è l’unica vera alternativa ai flussi migratori senza controllo – puntualizza Mistretta –. Quanto al passato coloniale, esso ovviamente pesa ma non dovrebbe nemmeno essere un pretesto per giustificare da parte dei governi africani il mancato raggiungimento degli obiettivi di sviluppo”.

L’Europa a sua volta, secondo il diplomatico, deve fare la sua parte senza inseguire i concorrenti sul loro terreno ma promuovendo principi come il buongoverno, la partecipazione popolare e la formazione: “Già oggi l’Unione Europea rimane il principale partner dell’Africa con una mole di investimenti doppia rispetto alla Cina, circa 240 miliardi contro 120 ogni anno, come anche dal punto di vista dell’import-export. Da vecchio diplomatico dico però che l’Europa deve essere esportare soprattutto valori e principi”. Meglio, si spera, di quanto non sia avvenuto nei secoli scorsi.

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