SOCIETÀ

L’Europa, tra terza dose e restrizioni, torna epicentro della pandemia

Già a inizio novembre l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) aveva avvertito che l’Europa era tornata ad essere l’epicentro mondiale della pandemia. Degli oltre 500.000 casi giornalieri che si registrano nel mondo, quasi la metà sono europei e lo sono anche più della metà dei decessi. Il vecchio continente in questi giorni registra il record di contagi da inizio pandemia, addirittura più di quanti non ne aveva a novembre 2020, a inizio del secondo lockdown. Secondo l'Oms in Europa si passano i 2 milioni di casi a settimana.

Nonostante il maggior numero di casi giornalieri si registri in Paesi ricchi dell’area occidentale come Germania (quasi 50.000), Regno Unito (oltre 40.000) e Olanda (più di 21.000), a preoccupare maggiormente sono i Paesi dell’est Europa. Qui infatti il tasso giornaliero di decessi, misurato per milione di abitanti, è nettamente più alto rispetto all’ovest, come si può notare da questo grafico.

Tasso di decessi e tasso di vaccinazione

Il dato sui nuovi contagi giornalieri infatti non è sempre affidabile, specialmente in Paesi in cui il sistema di tracciamento non è adeguatamente sviluppato. Paesi come la Bulgaria o la Romania ad esempio hanno riportato il 21 novembre meno di 3000 casi giornalieri.

Per comprendere la gravità con cui la pandemia sta colpendo è necessario guardare al tasso giornaliero di decessi per milione di abitanti. Questo numero è più di 20 in Bulgaria, 14 in Romania, 13,5 in Ungheria, quasi 15 in Croazia, oltre 15 in Ucraina. In Germania e in Regno Unito, dove si contano i numeri più alti di contagi giornalieri, è di poco sopra il 2. In Italia, Francia, Spagna e Portogallo resta sotto l’1.

La percentuale di popolazione vaccinata di ciascun Paese è il fattore che più di ogni altro determina la durezza con cui la cosiddetta quarta ondata colpisce. Come scrive il genetista dell’università di Trieste Marco Gerdol, sulla propria pagina Facebook, “Se dividessimo i Paesi dello spazio economico europeo in 4 fasce secondo la percentuale di popolazione vaccinata con due dosi (dati Ecdc) e valutassimo l'incidenza giornaliera dei decessi per Covid per milione di abitanti a partire dal primo luglio, questo sarebbe il risultato”.

I tassi di decessi maggiori si hanno proprio in quei Paesi in cui il tasso di vaccinazione è ancora basso. Secondo i dati dell’Ecdc, in Bulgaria è vaccinato il 26% della popolazione, in Romania meno del 40%, in Slovacchia circa il 47%, in Croazia il 50%, in Polonia meno del 55%, in Slovenia meno del 60%, in Ungheria circa il 60%. La Germania e l’Austria non vanno oltre il 70%, Italia, Francia e Spagna si avvicinano all’80%, meglio di tutti fa il Portogallo con quasi il 90% della popolazione vaccinata. Se si considera solo la popolazione vaccinabile al di sopra dei 12 anni, l’Italia è attorno all’85%.

I non vaccinati sono più a rischio

Il vaccino è quindi ancora l’argine di gran lunga più efficace contro l’ondata pandemica, sia da un punto di vista collettivo per la tenuta delle strutture sanitarie, sia da un punto di vista individuale. L’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) mostra che in Italia negli ultimi 30 giorni “il 51% delle ospedalizzazioni, il 64% dei ricoveri in terapia intensiva e il 45,3% dei decessi sono avvenuti tra coloro che non hanno ricevuto alcuna dose di vaccino”.

Per quanto riguarda invece i nuovi casi di infezione i non vaccinati hanno rappresentato il 40% dei casi totali negli ultimi 30 giorni. Tenendo conto che circa il 15% della popolazione italiana non è vaccinata, questi dati mostrano chiaramente che il rischio di contagiarsi, di venire ospedalizzato o di morire è di molto maggiore tra i non vaccinati rispetto ai vaccinati.

Restrizioni e proteste

Il timore che le infezioni tornino a salire fino a mettere pressione alle strutture sanitarie ha spinto diversi Paesi in Europa ad adottare nuove misure restrittive. In Belgio ad esempio è stato imposto di lavorare 4 giorni a settimana da casa. L’Austria, che conta 15.000 casi giornalieri su una popolazione di 9 milioni di abitanti (per un raffronto l’Italia ne ha meno di 10.000 su 60 milioni), ha scelto di entrare in lockdown da questa settimana per almeno 20 giorni. In Olanda sono state reintrodotte alcune misure restrittive per abbassare il numero di contagi giornaliero che ha superato quota 20.000 su una popolazione di 17 milioni di abitanti. Inoltre il governo ha proposto di limitare l’uso del Green Pass solo a coloro che sono vaccinati o guariti dall’infezione, escludendo coloro che prima potevano affidarsi al risultato negativo del tampone.

A Rotterdam, ma anche Bruxelles, a Vienna e in Svizzera, le nuove restrizioni hanno scatenato proteste, alcune delle quali sono esplose in sfoghi violenti. Anche in Italia si sta discutendo della possibilità di far usare il Green Pass, al di fuori dei luoghi di lavoro, solo a chi è vaccinato o è guarito dal Covid.

Terza dose

Ma la prossima urgenza in termini di salute pubblica e prevenzione è ora la somministrazione della terza dose, o richiamo. Uno studio condotto in Israele su quasi 5 milioni di persone immunizzate con due dosi del vaccino Pfizer mostra infatti che l’immunità indotta cala dopo circa 5 mesi.

Altri studi sono stati compiuti in altri Paesi come il Regno Unito e su altri vaccini, ottenendo risultati analoghi, così riassunti dall’ultimo rapporto dell’Iss: a 6 mesi dalla somministrazione della seconda dose, la protezione contro l’infezione con sintomi lievi o asintomatica scende dal 79% al 55%. L’efficacia nel prevenire ospedalizzazione, terapia intensiva e decesso resta comunque elevata anche dopo 6 mesi, passando dal 95% all’82%.

Leggendo i dati, la somministrazione della terza dose servirebbe quindi a mantenere bassa la circolazione del virus, che potrebbe portare all’evoluzione di nuove varianti. Sarebbe dunque una strategia per “anticipare” le mosse del virus: dovremmo averlo capito ormai che prevenire è meglio che curare.

Tuttavia, andrebbe fatto un ragionamento allargando il campo di analisi: è più efficace puntare sul ciclo vaccinale completo di una piccola parte della popolazione mondiale, quella più ricca, lasciando metà della popolazione mondiale, quella più povera, sprovvista di qualsiasi vaccino? Oppure è meglio dare una minima protezione alla più ampia fetta possibile di popolazione mondiale? La risposta, nei fatti, è già stata data.

Altre soluzioni in arrivo contro il virus

Nel frattempo nuove armi per contrastare il coronavirus si stanno già stagliando all’orizzonte. La Food & Drug Administration statunitense ha approvato a fine ottobre l’uso emergenziale del vaccino Pfizer destinato ai bambini dai 5 agli 11 anni. Se anche l’autorità europea Ema dovesse approvarne la somministrazione, si amplierebbe la fetta di popolazione vaccinabile e si farebbe un importante passo avanti in termini di sicurezza sanitaria nelle scuole.

Pfizer ha anche richiesto all’Fda l’autorizzazione all’uso emergenziale di un farmaco antivirale da usare come trattamento contro Covid-19: Paxlovid il suo nome. Somministrato a pazienti non vaccinati poco dopo la comparsa dei sintomi dell’infezione, ha dimostrato nei trial clinici di poter ridurre notevolmente, ovvero dell’89%, la probabilità che il paziente venisse ospedalizzato o morisse.

Prima del farmaco Pfizer, la casa farmaceutica Merck aveva fatto richiesta all’Fda per l’autorizzazione all’uso emergenziale di un altra pillola antivirale, Molnupiravir, che però sarebbe un po’ meno performante: il rischio di ospedalizzazione o morte sarebbe ridotto del 50% secondo i trial clinici finora effettuati.

Origini del virus

Nel frattempo proseguono le indagini sull’origine di Sars-CoV-2. Nonostante l’ultimo rapporto dell’Oms in materia fosse esplicito nel dire che la spiegazione più plausibile sia quella dello spillover, ovvero del passaggio naturale del virus dall’animale all’uomo, i dati raccolti non sono stati sufficienti ad escludere a priori la possibilità di una fuoriuscita del virus da un laboratorio, quello dell’istituto di virologia di Wuhan il maggiore indiziato.

A maggio un gruppo di scienziati aveva pubblicato su Science una lettera in cui invitava i delegati dell’Oms a prendere in considerazione questa ipotesi. Tra i firmatari c’erano alcuni tra i più importanti virologi del mondo come Ralph Baric e Marc Lipsitch. C’era anche Michael Worobey, biologo evoluzionista dell’università dell’Arizona, che a settembre ha però dichiarato che quella lettera era “intrisa di tensioni politiche”.

Ora Michael Worobey ha pubblicato un suo lavoro su Science in cui mostrerebbe che ci sarebbero forti evidenze in favore del fatto che la pandemia da Covid-19 sia nata da uno spillover avvenuto nei mercati di animali vivi di Wuhan. La prima paziente identificabile sarebbe una venditrice di pesce di uno di questi mercati e la data della sua infezione risalirebbe all’8 dicembre 2019, qualche giorno prima rispetto a quanto riportato dalle indagini condotte dall’Oms. Worobey sembra anche sbilanciarsi verso quello che potrebbe sembrare un ospite intermedio: il cane procione (Nyctereutes procyonoides).

Jesse Bloom, un virologo del Fred Hutchinson Cancer Research Center, ha commentato sul New York Times che non è in disaccordo con le analisi fatte da Worobey, ma ha aggiunto che queste non possono stabilire in modo definitivo se il mercato di Wuhan sia l’effettiva origine della pandemia o solo il luogo in cui è esploso il primo grande focolaio. Non è però chiaro se a due anni di distanza si potrà ancora prelevare o accedere a dati che chiariscano questo ed altri dubbi sull’origine della pandemia.

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