SOCIETÀ

Il Mozambico in ginocchio dopo il tifone Idai

Si fanno ogni giorno più drammatici i numeri che raccontano la devastazione lasciata dalla furia del tifone Idai che tra il 14 e il 15 marzo scorso ha colpito l’Africa sud-orientale causando gravissimi danni e migliaia di morti e feriti tra Mozambico, Madagascar, Zimbabwe, Sudafrica e Malawi. 

Secondo i dati forniti dall’organizzazione sanitaria Medici con l’Africa Cuamm, solo in Mozambico, tra i paesi più devastati, Idai ha colpito con grande violenza la provincia di Sofala, in particolare la città di Beira (500.00 abitanti), il distretto di Dondo (185.000 abitanti), il distretto di Nyamatanga (175.000 abitanti)  e il distretto di Busi (180.000 abitanti). “Le cifre ufficiali, ad oggi – spiega Giovanni Putoto, medico Cuamm responsabile della programmazione e in Mozambico proprio in questi giorni -  sono molto pesanti: 495 le vittime conteggiate, moltissimi i corpi ancora dispersi nelle paludi e negli acquitrini, 60.000 le abitazioni danneggiate, 150.000 gli sfollati in gran parte donne e bambini, 500.000 gli ettari di terreno inondato e irrecuperabile per la prossima semina. Anche le strade e i ponti sono danneggiati e a Busi ci si arriva solo in elicottero o in barca attraverso il fiume”.

Ma anche il Malawi conta i suoi 56 morti e così lo Zimbawe con oltre 200 persone decedute; tutte cifre destinate a salire secondo l’Ocha (The United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs).

A niente sono serviti gli argini e i canali di drenaggio realizzati a Beira, negli scorsi anni per proteggerla dall’innalzamento delle acque provocato dal riscaldamento globale. Le temperature dell’Ocenano indiano meridionale crescono sempre più velocemente e, mentre l’acqua si riscalda, aumenta l’area in cui temperature favorevoli causano la formazione di cicloni tropicali.

E Beira, città portuale e considerata una delle più esposte a questo tipo di fenomeno, ha pagato le spese più alte.

Le emergenze più impellenti – continua Putoto – ora sono il cibo, l’acqua potabile e i servizi sanitari. La gente ha fame e chiede da mangiare. Quello che era immagazzinato in casa o è stato spazzato via dal ciclone o è diventato marcio a causa dell’allagamento. Sono iniziate le distribuzioni dei kit alimentari ma sono insufficienti. La pressione sociale è elevata e ci sono stati episodi di assalti a magazzini e negozi. Le popolazioni più bisognose sono quelle che si trovano nelle zone più interne e isolate, le più difficili da raggiungere. Il cibo, in questi casi, viene lanciato dagli elicotteri. Il rischio più immediato, quindi, è il peggioramento su larga scala della malnutrizione infantile con un aumento dei casi di malnutrizione severa acuta che se complicata mette a repentaglio la vita.

Intere aree – prosegue -  sono state sommerse dall’acqua (400 mm di acqua precipitati in un giorno). In queste condizioni il rischio delle epidemie è elevato ed è diventato realtà: sono stati diagnosticati i primi casi di colera e sono in aumento esponenziale le diarree e gli attacchi di malaria nei bambini, emergenze per cui sono in fase di allestimento centri di trattamento specifici. È prevista a breve anche una campagna di vaccinazione anticolerica su larga scala accompagnata da attività di sensibilizzazione della popolazione circa l’uso dell’acqua, l’igiene personale e ambientale”.

Il Cuamm, organizzazione non governativa che opera in Africa in campo sanitario, è presente in Mozambico dal 1978 e qui gestisce attività legate a diversi ambiti della salute: dalla mortalità materno infantile, al contrasto di Hiv/Aids, al sostegno alla formazione e molto altro ancora.

“In Mozambico ora, Medici con l’Africa Cuamm ha deciso di muoversi su due piani: l’aiuto umanitario e quello sanitario – conclude Putoto. Sono oltre 150 le unità famigliari che abbiamo assistito finora con cibo e materiale edile per il rifacimento del tetto; molte di queste hanno persone ammalate in casa che seguiamo da tempo. Li abbiamo rintracciati grazie alle associazioni locali come Kuplusmussana (mamme sieropositive all’Hiv che sostengono altre mamme); Anandjra (giovani che si occupano di fare prevenzione all’Hiv e di accompagnare gli adolescenti Hiv positivi); AGS (altro gruppo di giovani impegnati a “togliere” i loro coetanei dalle dipendenze) che hanno messo a disposizione 150 attivisti comunitari.

Si tratta di persone selezionate, formate, provviste di un kit per l’emergenza igienica, mandate nelle comunità per la prevenzione delle epidemie, l’assistenza alle donne gravide e ai bambini, l’identificazione dei piccoli malnutriti e il riferimento dei malati ai centri sanitari funzionanti. Circa gli interventi sanitari, ci stiamo concentrando, invece, sulle emergenze ostetriche e pediatriche. Abbiamo messo a disposizione quattro ambulanze e un team di 12 ostetriche locali per sostenere le attività ostetriche e neonatali nei  sette centri sanitari più importanti della città di Beira (14.000 parti l’anno) rafforzando il sistema di riferimento delle complicanze ostetriche all’ospedale centrale di Beira. Qui, nel reparto di pediatria lavorano due nostre giovani colleghe, una neonatologa e una specializzanda in pediatria dell’Università di Padova, che aiutano il personale sanitario locale in questo momento critico.

In prospettiva, si punterà a rafforzare il sistema sanitario: ricostruendo le strutture danneggiate (circa, l’80%); riavviando i servizi ordinari, quelli della maternità e  dell’infanzia, quelli nutrizionali e quelli delle malattie croniche; sviluppando le risorse umane locali con la formazione e l’università. È quanto si stava facendo prima dell’arrivo del ciclone Idai con i progetti sulla neonatologia a Beira, Dondo e Nyamatanga, l’assistenza agli adolescenti Hiv positivi e ai malati cronici, il supporto alla Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica. Tutto questo deve essere ripreso, riorganizzato e rilanciato. C’è un grandissimo lavoro da fare e i bisogni che ci stanno di fronte richiedono solidarietà concreta. Non c’è dignità senza futuro”.

 

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