CULTURA

Naufraghi senza volto: l'intervista a Cristina Cattaneo

“La notte del 3 ottobre 2013, intorno alle 4.30, un’imbarcazione si rovesciò al largo dell’Isola dei Conigli, a Lampedusa. Portava un carico di circa 400 persone, quasi tutte di origine eritrea. Furono recuperati 366 cadaveri. Le vittime dei barconi non erano certo una novità, ma questo disastro scosse le coscienze più di tutti gli altri casi. Da qui nacque l’operazione ‘Mare Nostrum’, e da lì si iniziò, seppur molto lentamente, a pensare ai loro morti come ai nostri”. E da qui inizia anche il lavoro di Cristina Cattaneo, docente di Medicina legale all’Università di Milano e direttrice del laboratorio di antropologia e odontologia forense Labanof: restituire un nome, una storia e una dignità a tutti quei morti che il mare ci ha dato e continua a restituirci. È questa la grande “crociata” che Cattaneo ha fatto sua e che racconta nelle 192 pagine di ‘Naufraghi senza volto’, edito nel 2018 da Raffaello Cortina Editore e oggi finalista del Premio Letterario Galileo per la divulgazione scientifica.

“Con la morte di mio padre (ottobre del 2013), per la prima volta ho sentito dentro di me tutto il vuoto che si porta dietro ciò con cui ho a che fare tutti i giorni: la morte” – scrive l’autrice. E proprio questo sentimento, così simile all’angoscia e allo strazio di chi non ha certezza, di tutti quei parenti che cercano disperatamente di sapere qualcosa di padri, figli, fratelli di cui non hanno potuto onorare il corpo e che non hanno potuto seppellire, ha contribuito a rendere questo immenso lavoro, parte integrante della vita di questa donna.

Di fronte a un aereo che precipita, un treno che deraglia o uno tsunami che si abbatte su un’isola, sono tantissimi gli specialisti che si offrono per partecipare alle attività medico legali. “Per questo rimasi scioccata quando mi accorsi che, per le tragedie dei barconi pieni zeppi di migranti dall’Africa e dal Medio Oriente, morti e sepolti senza un nome, nessuno della comunità forense batteva ciglio”. Una mancanza spiegabile anche, secondo l’autrice, nella difficoltà economica e soprattutto tecnica di gestire “una grande, enorme tragedia diluita nel tempo e nello spazio”. Secondo l’Organizzazione mondiale della migrazioni, i migranti morti in mare attraversando il Mediterraneo sono stati 3782 nel 2015, 5143 nel 2016, 3139 nel 2017 e 2275 nel 2018 anche se nessuno conosce davvero il numero dei cadaveri che ancora oggi giacciono sul fondo del mare o il numero di imbarcazioni affondate in quelle acque. Per ogni morte avvenuta in mare, la legge prevede che vi sia un paese e una procura competente a decidere sul corpo; secondo l’Oim, fino al 2018, di tutti i decessi avvenuti nel Mediterraneo, più della metà è stata presa in carico dal nostro Paese dove centinaia di questi cadaveri sono rimasti senza nome.

Su queste premesse ha preso il via il lavoro della dottoressa, del suo staff (e di molti altri). Un lavoro lungo, difficile, prezioso che è riuscito, non senza sforzi, a dare grandi risultati. Nel tentativo di dare un nome a questi morti e restituirli ai loro cari, Cattaneo e la sua squadra sono passati attraverso centinaia di foto e documenti, corpi, cicatrici, abiti, tatuaggi, oggetti personali; ma anche attraverso tante voci, quelle di parenti, amici, conoscenti arrivati da tutta Europa alla ricerca di risposte ciascuno con il proprio carico di ricordi ed emozioni.

Intervista di Daniele Mont D'Arpizio. Montaggio: Tommaso Rocchi

Le prime indagini si sono focalizzate sui naufragi del 3 e dell’11ottobre del 2013 avvenuti nelle acque del Mediterraneo rispetto ai quali, combinando tecniche di antropologia, odontologia, analisi del dna, autopsie ed esami di vario tipo, sono state effettuate diverse identificazioni. Ma fu il naufragio del 18 aprile 2015, con quasi mille migranti morti, a cambiare il senso di questo lavoro. Non solo per i drammatici numeri che questo evento portava con sé ma anche per lo “squarcio di umanità che seppe aprire – scrive Cattaneo - in un Paese che, già impegnato nella difficile gestione di migliaia di migranti vivi, è stato l’unico a trattare quei mille morti come verrebbero trattati mille morti europei”. Per la prima volta istituzioni diverse, che quasi non si conoscevano, si sono unite per una causa pressoché ignota e per certi versi impopolare: recuperare i corpi, analizzarli, seppellirli e trovarne i parenti. Una cosa mai accaduta prima in nessun altro paese.

528 vittime sottoposte ad autopsia, oltre duemila ossa e 325 crani repertoriati e alcuni corpi seppelliti in alcuni cimiteri siciliani. È questo il bilancio finale di un’operazione imponente e di non facile gestione, ma di grande valore umano e sociale che ha iniziato a dare i primi riscontri proprio mentre l’autrice era al lavoro sulle pagine di questo volume. E anche in questo caso, si è trattato di un’operazione che ha attraversato storie e ricordi. Il sacchettino con la terra del proprio paese stretto da un nastrino alla maglia di un giovane poco più che ventenne, la pagella cucita all’interno della giacca di un ragazzino del Mali di circa 14 anni, il portafoglio contenente un passaporto, la tessera di una biblioteca locale, una carta dello studente, il certificato di donatore del sangue nelle tasche di un giovane del Gambia. Ma anche magliette e pantaloncini con il logo della Juventus, bigliettini, libri, spazzolini, dolcetti e brioches inzuppati d’acqua, “il contenuto della valigie dei nostri ragazzi”. E poi un corano, un rosario buddhista, una croce ortodossa, “più eloquente di qualunque discorso contro il razzismo” – commenta Cattaneo.

Ma c’è anche un bilancio personale, quello che deriva da un’esperienza difficile e profondamente umana: “Credo che, come tecnici o scienziati forensi, abbiamo, o abbiamo avuto, l’enorme responsabilità di dimostrare che il problema c’è, e che esiste una grave mancanza che rasenta la violazione dei diritti umani, a causa della quale abbiamo sentito l’obbligo di intervenire per far vedere come il problema possa essere risolto” – conclude l’autrice.

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