La chiesa di Santa Sofia a Kyiv minacciata durante la guerra
Il 27 febbraio 2022, il quarto giorno della guerra tra Russia e Ucraina, l’esercito invasore è arrivato a Ivankiv, una città circa ottanta chilometri a nord di Kyiv. Tra le conseguenze dei combattimenti va contato anche un incendio che ha distrutto il locale museo che, tra le altre cose, aveva in esposizione 25 dipinti di Maria Prymachenko, indicata dall’UNESCO come artista dell’anno nel 2009, a un secolo dalla nascita.
Qualche giorno dopo, a mano a mano che le battaglie si avvicinavano alla capitale hanno cominciato a circolare le minacce per la cattedrale di Santa Sofia, la principale chiesa ortodossa di Kyiv e del paese, costruita nell’XI secolo e dal 1990 iscritta nell’elenco dei siti Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. Dell’inizio di marzo è il danneggiamento del Memoriale dell’Olocausto di Babyn Yar, nella capitale, mentre più recente è il bombardamento del teatro di Mariupol. È chiaro che più il conflitto continua, oltre a salire il conto delle perdite in vite umane, aumenta il patrimonio culturale danneggiato o distrutto.
La cattedrale di Santa Sofia. Foto: Marco Boscolo
Il peso della distruzione
Che si tratti di una scelta deliberata o meno, colpire i simboli di una cultura significa dire a quel popolo “questo non è più il tuo posto”. È la considerazione di Marie Louise Stig Sørensen, archeologa dell’Università di Cambridge, nel Regno Unito, e co-curatrice di un volume del 2015 intitolato War and Cultural Heritage che indagava le conseguenze dei conflitti armati sui monumenti. “L’impatto sul patrimonio culturale materiale è un attacco all’identità culturale”, spiega, “perché è attraverso gli edifici storici, i monumenti e i simboli che una comunità costruisce il proprio senso di appartenenza a un luogo”.
“ L’impatto della guerra sul patrimonio culturale materiale è un attacco all’identità culturale Marie Louise Stig Sørensen
Questa dinamica è chiara guardando quello che è successo nei Balcani durante le guerre degli anni Novanta del secolo scorso. “Le moschee sono state attaccate deliberatamente, non come effetto collaterale dei conflitti”, racconta Sørensen. L’intento era tra l’altro colpire i segni più evidenti della presenza musulmana nella regione. “Quando pensiamo all’identità culturale ci riferiamo a una catena che ci porta indietro nel tempo”. È un complesso di fatti storici, eventi culturali, opere d’arte e molto altro che ci portiamo dietro quando diciamo “sono italiana: significa pensare a quella stessa cultura che ha prodotto, per esempio, Leonardo da Vinci”.
La scomparsa fisica di questi simboli materiali della cultura ha un effetto a lungo termine sull’identità della nazione. Questo succede “perché la storia che raccontiamo non è mai neutra: abbiamo scelto di privilegiare questo o quell’aspetto per legittimare il nostro presente”, spiega Sørensen. È in parte il motivo per cui in questa guerra tra Ucraina e Russia assistiamo alla diffusione di narrazioni storiche contrastanti, come se si trattasse di due “usi” differenti della storia stessa.
Quantificare i danni
Questa idea di provare a cancellare la cultura preesistente per installarne una di nuova si è vista benissimo in Iraq con la guerra all’ISIS. Se ne è occupato Massimo Vidale, archeologo del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Padova e membro del consiglio di ISMEO, l’Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l'Oriente che ha sede a Roma e si occupa, tra l’altro, di studiare i siti archeologici danneggiati dai conflitti. Qualche anno fa ci aveva raccontato la situazione poco dopo aver visitato il sito di Ninive, una città del nord della Mesopotamia, oggi Iraq, non lontana da Mosul, che fu anche capitale del regno assiro.
Anche da quella missione ora è arrivata la pubblicazione scientifica, che racconta lo stato delle costruzioni dopo il conflitto tra ISIS e la Coalizione che la contrastava. Grazie ai rilevamenti satellitari e all’uso dei droni è stato possibile provare a identificare e quantificare il danno. “Abbiamo individuato postazioni di contraerea costruite direttamente dentro le mura”, racconta Vidale. Le antiche mura di Ninive erano lunghe 12 chilometri e in alcuni punti alte fino a 30 metri. In alcune zone dentro il sito archeologico si sono individuate case recenti, costruite senza rispettare gli edifici più antichi. In altri punti, sempre dentro il sito archeologico, sono evidenti i segni delle ruspe. Durante il periodo in cui Saddam Hussein era al potere, Ninive era stata sistemata al meglio per accogliere i turisti. Ma il turismo, in particolare quello rivolto alle classi medie, è un’istituzione contro la quale l’ISIS ha sempre lottato.
Eppure Ninive è un sito fortunato. Era stato fortificato dall’ISIS, ma poi il conflitto vero e proprio si è svolto altrove. “Preservare il sito archeologico è forse stata una preoccupazione della Coalizione”, racconta Vidale. Ciononostante, i danni del tentativo di cancellare il patrimonio più antico sono enormi. Durante il conflitto l’ISIS ha utilizzato questa presunta ritrosia degli occidentali a proprio vantaggio, nascondendosi spesso dentro alle chiese cristiane. Oppure usando per tre anni un altro sito archeologico, Hatra 80 chilometri a sud di Mosul, come centro di addestramento. “Si tratta di una città abbandonata dai cristiani nel 240 d.C.”, spiega. “Per fortuna ci sono ancora 16 torri in piedi, ma sono sparite 20 statue”. Oltre a eliminare il materiale bellico rimasto - nel caso di Hatra, 200 tonnellate, comprese delle bombe inesplose - le cooperazioni come quella a cui partecipa Vidale identificano gli interventi necessari e stabiliscono un laboratorio di restauro sul posto, permettendo poco alla volta che i siti escano dalla lista di quelli minacciati.
Ninive, novembre 2018: in alto veduta di uno dei cosiddetti ‘granai’ scavati dall'ISIS, dove è evidente l'accumulo di rifiuti; al centro e in basso) due immagini della sezione ovest che mostra la complessità della stratigrafia archeologica rimossa
Il peso degli altri
Le attività di recupero dei siti colpiti dai conflitti sono spesso finanziate da istituzioni occidentali: fondazioni, governi, enti sovranazionali. È punto di partenza importante per capire che anche la ricostruzione modifica il senso della storia del patrimonio culturale. Per esempio, l’Italia si è già offerta per voce del ministro Dario Franceschini di ricostruire il teatro di Mariupol. “È una di quelle affermazioni che servono più a chi le fa per dire qualcosa di sé", commenta Sørensen. Un’operazione di comunicazione, in cui il governo italiano mostra di tenere alla cultura, di aiutare un paese colpito dalla guerra a sostenere un’idea di cultura perché vicina alla propria.
Anche Vidale racconta di come la fondazione Aliph abbia già annunciato diversi interventi in Ucraina. Aliph è una organizzazione con sede in Svizzera che ha come missione proteggere il patrimonio culturale nelle aree di conflitto e anche dopo la fine della guerra, come si legge sul loro sito. Il primo punto del loro manifesto è che la loro missione è una “risposta alla barbarie”. Finanziare un loro progetto e aderire al loro manifesto significa prendere una posizione nei confronti di un conflitto, e quindi della storia.
La ricostruzione, infatti, “non è totalmente neutrale”, chiarisce Sørensen. Dopo una prima ondata di interventi necessari alle infrastrutture, ci si dedica agli edifici simbolici, ma “spesso modificandone leggermente la funzione e la destinazione” e quindi intervenendo sul senso che hanno nei confronti della cultura locale. Ma anche se fossero ricostruiti esattamente nello stesso posto, esattamente identici a prima, “porterebbero comunque le ferite mentali e psicologiche causate dal conflitto”: per quelle non ci sono interventi di restauro efficaci.