SOCIETÀ

Perché ricordare la tragedia della talidomide

Tra la fine degli anni ’50 e i primi ’60 del secolo scorso si registrarono, in diversi paesi del mondo, migliaia di casi di neonati malformati: gambe e braccia, mani e piedi inesistenti o gravemente deformi; in alcuni casi, persino difetti nella formazione di occhi, orecchie e organi interni. Molti di questi bambini presentavano, già alla nascita, una compromissione delle funzioni vitali troppo estesa per consentire la sopravvivenza; molti, invece, sono stati i sopravvissuti a questa tragedia.

La causa? Non motivi naturali, ma un farmaco: la talidomide. Sintetizzato nel 1953, il farmaco fu commercializzato sotto diversi nomi a partire dal 1957, dapprima ad opera della casa farmaceutica tedesca Chemie Grünenthal e poi da altre aziende di varia nazionalità. Dotato di proprietà sedative, antiemetiche, ipnotiche, proprio negli anni della sua diffusione su larga scala fu pratica abbastanza diffusa, da parte di medici e farmacisti, consigliarne il consumo alle donne che, durante le prime settimane di gravidanza, soffrivano di nausee mattutine e di insonnia.

La conseguenza di questa ‘leggerezza’ fu una tragedia di portata internazionale, che obbligò la comunità medica ad interrogarsi sulle modalità di utilizzo e sulle pratiche di sicurezza a cui i farmaci resi disponibili per la popolazione dovevano essere sottoposti. Prima del ‘caso talidomide’, infatti, non esisteva alcun protocollo, nazionale o internazionale, che regolamentasse i controlli farmacologici da attuare prima e dopo l’immissione dei prodotti farmaceutici nel mercato. Fu proprio questa vicenda a velocizzare la creazione di un programma internazionale di farmacovigilanza, così da rendere obbligatori i controlli fino a quel momento applicati soltanto da pochi operatori particolarmente scrupolosi.

Scoprire la correlazione tra quell’insolito aumento di nascite anomale e l’ingestione di talidomide non fu un processo semplice. Tra i primi a sollevare dubbi sull’opportunità di distribuire su larga scala questo farmaco fu la farmacologa canadese Frances Kelsey, impiegata alla Food and Drug Administration statunitense, l’organo deputato a vagliare la sicurezza dei farmaci prima della loro immissione in commercio.

Fu proprio Kelsey, infatti, a valutare la richiesta di introdurre sul mercato americano Contergan, nome commerciale della molecola di proprietà dell’azienda tedesca. I problemi riscontrati da Kelsey riguardavano, tra le altre cose, la qualità dei trial clinici condotti dai produttori nel 1956, in vista della commercializzazione: il prodotto era stato testato – con superficialità – soltanto su animali non gravidi, e la dichiarazione di atossicità e non pericolosità mancava di solide basi scientifiche. Sulla scorta di tale analisi, la farmacologa decise di rifiutare la richiesta: è probabile che questa decisione abbia salvato migliaia di bambini statunitensi dalla focomelia o da disabilità ancora più gravi.

Non andò alla stessa maniera in Europa e in diverse altre nazioni, dove per anni il farmaco venne prescritto con leggerezza, nonostante alcuni medici già sollevassero dubbi sulla sicurezza del suo utilizzo. I suoi effetti teratogeni interessarono – secondo le stime ufficiali, di cui oggi è certa l’incompletezza – tra gli 8.000 e i 10.000 bambini nel mondo.

Anche in Italia si consumò la stessa tragedia – seppur silenziosamente. Giulio Maccacaro, medico e curatore della collana “Medicina e Potere” edita da Feltrinelli, ripercorse la vicenda internazionale della talidomide in occasione della comparsa in italiano di un volume sul tema, dal titolo “Il talidomide e il potere dell’industria farmaceutica” (Henning Sjoström e Robert Nilsson, 1973), ponendosi una domanda fino a quel momento rimasta sostanzialmente inespressa: “E in Italia?”.

“[…] non mi sembra dubbio che la salute pubblica è stata sacrificata al vantaggio del capitate privato, che la pena e l'infermità dell'uomo sono state pagate all'avidità e all'arroganza di un potere: quello dell'industria farmaceutica. Giulio Maccacaro

E in Italia?

Dai dati di un Report dell’American Pharmaceutical Association, citati da Maccacaro nella sua Prefazione, emerge come molto plausibile l’ipotesi che, in Italia, la tragedia legata all’assunzione di talidomide in gravidanza abbia coinvolto un numero molto alto di persone – ben più alto di quello riportato nelle stime ufficiali. Dei trentaquattro farmaci contenenti talidomide commercializzati in Europa, ben dieci erano italiani; erano italiane anche sette delle sedici aziende europee che produssero questo genere di farmaci a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta.

In Italia, inoltre – denunciava Maccacaro – si verificò un’altra sconcertante contingenza: né il governo né il ministro della salute intervennero tempestivamente per bloccare la produzione e la distribuzione di un farmaco di cui, tra il 1960 e il 1961, era ormai chiara la teratogenicità. La questione era addirittura approdata sulla ben nota rivista medica The Lancet, che nel dicembre 1961 aveva pubblicato una lettera nella quale il ginecologo australiano William McBride segnalava la diretta correlazione tra l’anomalo aumento (dal consueto 1-5% al 20%) di neonati focomelici o amelici e l’assunzione materna, durante il cosiddetto “periodo critico” della gravidanza, di farmaci contenenti talidomide. Nel 1961 anche un pediatra tedesco, Widukind Lenz, era giunto alle stesse conclusioni e aveva allertato la comunità scientifica.

Nonostante la crescente attenzione internazionale, nel nostro Paese la talidomide venne messa al bando solo nel settembre 1962, con un ritardo di molti mesi rispetto ad altre nazioni (in Germania occidentale, Svezia e Gran Bretagna i prodotti farmaceutici contenenti talidomide furono ritirati tra novembre e dicembre del 1961).

Si trattò, dal punto di vista scientifico, politico e sanitario, di un’immane tragedia. Una tragedia che, a ben guardare, non appartiene soltanto al passato, ma ha ancora molto da insegnare. A differenza di altri Paesi, dove negli anni successivi si svolsero processi che accertarono la responsabilità delle case farmaceutiche e garantirono ai “talidomidici” il riconoscimento come parte lesa, in Italia questo passaggio ha tardato a realizzarsi. Solo nel 2009 (quasi cinquant’anni dopo l’accaduto), infatti, lo Stato italiano ha riconosciuto ufficialmente il diritto all’indennizzo «ai soggetti affetti da sindrome da talidomide, determinata dalla somministrazione dell’omonimo farmaco, nelle forme dell’amelia, dell’emimelia, della focomelia e della macromelia» (L. 24/12/2007, n. 244, art. 2 c. 363, poi corretta dalla L. 27/2/2009, n.14).

Nasce la farmacovigilanza

La triste vicenda legata alla talidomide rimane di grande attualità anche perché ha contribuito alla nascita e allo sviluppo di un valido sistema di farmacovigilanza a livello nazionale e internazionale. La presenza di un sistema di controllo scientifico indipendente avrebbe probabilmente evitato il consumarsi di quella tragedia, che – come è stato dimostrato – fu causata dall’indebita sottomissione del principio di precauzione alle leggi del mercato. Come aveva notato la dottoressa Kelsey, i trial clinici che avrebbero dovuto accertare la sicurezza del farmaco prima della sua distribuzione erano stati condotti in modo approssimativo. D’altronde, fu proprio il “caso talidomide” a generare un’ondata di preoccupazione nei confronti delle possibili reazioni avverse provocate da farmaci, e un conseguente innalzamento dell’attenzione scientifica in tale direzione. Negli anni che seguirono al ritiro dal commercio di farmaci come il Contergan, il Distaval e gli altri a base di talidomide, infatti, vi furono i primi interventi legislativi.

L’allora Comunità Economica Europea (CEE) emise nel 1965 una Direttiva (65/65 CEE, del 26 gennaio 1965) che, per la prima volta, stabiliva in modo chiaro e stringente i requisiti chimici, farmacologici e clinici a cui i prodotti farmaceutici dovevano rispondere per ottenere l’autorizzazione alla commercializzazione nella piena tutela della salute pubblica.

Fu il primo passo verso la creazione – e il riconoscimento legislativo – di una nuova disciplina: la farmacovigilanza, appunto. Questa, secondo la definizione dell’OMS, è “la disciplina e l’insieme di attività vòlte all’individuazione, valutazione e prevenzione di effetti avversi o altri problemi correlati all’utilizzo dei farmaci”. Come questa definizione suggerisce, la farmacovigilanza corrisponde, nei fatti, alla Fase IV del trial clinico, che viene avviata dopo che il farmaco abbia ricevuto l’Autorizzazione all’Immissione in Commercio (AIC) dall’autorità predisposta. Compito della farmacovigilanza è monitorare la possibile comparsa di effetti e reazioni avverse dei farmaci presenti sul mercato, valutando costantemente la loro sicurezza e il rapporto tra rischio ed efficacia.

Il sistema internazionale di farmacovigilanza è complesso e ramificato. L’OMS ne promuove la creazione nel 1968, istituendo il Programma per il Monitoraggio Internazionale dei Farmaci (WHO Programme for International Drug Monitoring, PIDM). Ad esso segue il Centro di Monitoraggio di Uppsala (Uppsala Monitoring Centre, UPC), creato dall’OMS nel 1971; ad oggi, vi aderiscono più di 170 nazioni. Vi sono poi altri organismi nazionali e sovranazionali deputati al controllo dei farmaci: l’EMA (Agenza Europea per i Medicinali), ad esempio, viene istituita nel 1995, e affiancata a partire dal 2001 da Eudravigilance, il database europeo per la gestione e l’analisi delle reazioni avverse. In Italia, la prima legge che regola la farmacovigilanza risale al 1987, e l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) nasce nel 2003, divenendo operativa a partire dall’anno successivo.

Il funzionamento di questa struttura dipende, in larga parte, dalla cooperazione: sono fondamentali, infatti, le segnalazioni spontanee di eventuali effetti o reazioni avverse da parte di medici e pazienti – proprio come accaduto nei primi anni ’60 con la talidomide, sui cui gravissimi effetti collaterali furono proprio alcuni medici a richiamare l’attenzione. È per questo che è importante – pur a distanza ormai di sessant’anni – ricordare la vicenda legata a quel farmaco e alle sue nefaste conseguenze. “Primum, non nocere” è uno dei principi cardine della medicina: è importante vegliare costantemente perché questa vocazione non sia snaturata.

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