Uno dei temi sul tavolo della Cop28 di Dubai è l’implementazione del fondo loss and damage. Lo strumento finanziario pensato per risarcire - appunto - perdite e danni subiti dai paesi più fragili a causa della crisi climatica era stato istituito alla Cop precedente, quella tenutasi in Egitto a Sharm el-Sheikh nel 2022. Si è trattato di una decisione che comunque molti osservatori internazionali hanno definito storica perché riconosceva un principio di giustizia climatica: chi ha maggiori responsabilità perché ha emesso di più deve pagare in proporzione. Fino a oggi questo strumento, di cui Francesco Suman ha spiegato la genesi, è ancora un contenitore vuoto, ma che deve essere riempito soprattutto del denaro. La Cop28 si è aperta con l’annuncio di Al Jaber, il delegato emiratino per il clima, con un assegno di 100 milioni di dollari e la promessa dell’arrivo di altri: 51 milioni dal Regno Unito, 17,5 milioni di dollari dagli Stati Uniti e 10 milioni di dollari dal Giappone. Ancora poco, se si considera che secondo una ricerca del 2022 stimava in 2 miliardi di miliardi (2 trilioni) di dollari i danni provocati solamente dalle emissioni degli USA.
Proprio interrogandosi sul peso delle responsabilità dei paesi più ricchi e dei maggiori emettitori di gas climalteranti in atmosfera, Carbon Brief, un gruppo di giornalismo investigativo climatico sempre molto attento agli aspetti quantitativi della crisi climatica, ha realizzato una nuova stima cumulativa delle emissioni dal 1850 ai giorni nostri. La novità è che le emissioni dei paesi che sono stati colonie di imperi europei vengono attribuite ai precedenti colonizzatori e non più agli attuali stati. Per fare un esempio, quasi 30 miliardi di CO2-equivalenti attribuite all’Indonesia sono state spostate sul conto dei Paesi Bassi che ne controllavano il territorio fino all’indipendenza del 1945. Il risultato di questo spostamento “contabile” è che la posizione in classifica dell’ex colonizzatore olandese sale notevolmente tra i maggiori emettitori della storia. Nel computo totale, i Paesi Bassi non sono più responsabili dello 0,5% di tutte le emissioni, ma dell’1,4%: quasi il triplo. Andamenti simili si possono riscontrare per Regno Unito, Germania e Francia, per rimanere sui principali imperi coloniali del XIX-XX secolo.
Nel caso dell’analisi sul Regno Unito, il lavoro di Carbon Brief ripreso anche dal Guardian, ha preso in considerazione le emissioni di 46 paesi che sono stati colonia inglese. E il risultato è che il conto raddoppia. Quello francese, invece, diventa una volta e mezzo una volta prese in considerazione le ex colonie. Nel complesso, scrive Carbon Brief, le emissioni dei paesi dell’Unione Europea più quelle del Regno Unito (la vecchia EU a 28 paesi) il conto delle emissioni sale del 19%, piazzando il continente al secondo posto nella classifica dei maggiori emettitori negli ultimi due secoli.
Nella parte alta della classifica troviamo anche la Russia. Su quest’ultima vale la pena precisare che Carbon Brief ha ritenuto di attribuirle anche le emissioni delle ex-repubbliche sovietiche del periodo dell’URSS. L’argomentazione è che nonostante fossero stati federati, formalmente usciti dal dominio dell’impero dei Romanov, lo sfruttamento delle risorse naturali era comunque pianificato e gestito in modo centralizzato da Mosca.
Chi scende
Proprio le ex repubblica socialiste sovietiche dell’Ucraina e del Kazakistan sono tra i paesi che vedono scendere più considerevolmente il proprio conto di emissioni. L’Ucraina scende dal dodicesimo posto al trentacinquesimo, mentre il Kazakistan passa dalla diciannovesima alla quarantunesima. Ma gli effetti più interessanti sono quelli che riguardano la già citata Indonesia e le ex colonie britanniche. Ironicamente, vedendosi tolto un 15% di emissioni, l’India scivola dietro all’ex colonizzatore. Nonostante sia uno dei paesi in cui le emissioni sono aumentate di più negli ultimi anni, sotto la spinta di una popolazione e di un’economia in espansione. Per la già citata Indonesia e per l’interno continente africano il contributo complessivo scende, in entrambi i casi, del 24%. Nel caso dell’Africa, scrive Carbon Brief, il dato rende evidente quanto poco abbia contribuito finora al computo totale delle emissioni.
Che cosa si calcola in questa classifica
Durante il periodo coloniale, le tipiche attività dei colonizzatori nei territori che amministravano era lo sfruttamento delle risorse naturali. Lo facevano sia disboscando le foreste per procurarsi legname, sia avviando e sfruttando attività minerarie e agricole. In termini più tecnici sono le emissioni legate all’uso del suolo, ai cambiamenti di uso del suolo e alla silvicoltura o LULUCF (dall’inglese “Land Use, Land-use change, and Forestry”). Il gruppo di investigazione di Carbon Brief ha cercato i dati per tutti i paesi colonizzatori nella letteratura scientifica sull’argomento, come dettagliatamente indicato nel paragrafo sulla metodologia pubblicato sul loro sito. Sotto il punto di vista della metodologia, quidi, il lavoro di Carbon Brief è estremamente solido (basato sulla ricerca scientifica sulla storia delle emissioni) e molto trasparente.
Una critica che potrebbe essere mossa è che nel caso di un paese come il Regno Unito la continuità istituzionale tra lo stato che ha conquistato l’India e quello attuale è evidente, non così si può dire in altri casi. Per esempio, la Germania colonizzatrice, quella che ha ospitato la famosa conferenza di Berlino del 1884 che ha spartito l’Africa tra gli imperi europei, può essere considerata la stessa di oggi? Potrebbe sembrare difficile, quindi, attribuire le emissioni della Germania imperiale di Otto von Bismarck alla repubblica attuale. Ma non è questo il punto del lavoro di Carbon Brief, che lo scrive fin dalla premessa del proprio lavoro. Il loro intento è di far emergere l’ineguaglianza delle conseguenze della crisi climatica e, quindi, la necessità di intervenire sul piano della giustizia climatica e sociale.
Altre prospettive sulla giustizia climatica e sociale
La classifica di Carbon Brief mette in evidenza come, anche nel caso di una mancata continuità istituzionale tra i paesi di ieri e quelli attuali, chi oggi vive in un paese ex colonizzatore sta comunque godendo i frutti delle emissioni di cui, è noto, pagano in maniera molto più alta le conseguenze i paesi più poveri. Spesso esattamente quelli che sono stati colonizzati e sfruttati dall’Occidente che adesso dovrebbe assumersi le proprie responsabilità di fronte a questi numeri.
C’è anche un altro asse lungo il quale si sviluppa un’ingiustizia climatica e sociale. Lo mette in luce il recente rapporto pubblicato da Oxfam, una organizzazione internazionale non governativa che si occupa della riduzione della povertà nel mondo. Secondo questi calcoli, che sono in linea con quanto dice la letteratura scientifica sull’argomento, nel 2019 l’1% più ricco degli abitanti del pianeta è stato responsabile del 16% delle emissioni climalteranti globali. In termini assoluti vuol dire che 77 milioni di persone hanno contribuito alle emissioni tanto quanto hanno fatto 5 miliardi delle persone più povere.
Anche nel caso del rapporto Oxfam c’è una chiave storica, più contenuta, che considera il periodo dal 1990 all’oggi. In questi 33 anni, l’1% più ricco del pianeta, sempre lo stesso gruppo di 77 milioni di persone, ha consumato il doppio del carbon budget di quanto abbia fatto la metà più povera dell’umanità. Il carbon budget è quella quantità di emissioni che secondo gli accordi internazionali sarebbero comunque cresciute rispetto all’era pre-industriale ma permettendoci di rimanere dentro all'obiettivo di un innalzamento delle temperature medie di 1 °C. In altre parole, chi già nel ‘90 emetteva molto e aveva a disposizione più risorse per ridurre il proprio impatto ha in realtà continuato a emettere molto più di quanto abbiano fatto i paesi più poveri, dove un aumento delle emissioni era comunque fisiologicamente sperato nel loro tentativo di uscire dalla povertà.