SCIENZA E RICERCA

Evoluzione vegetale. Ricostruire il passato per agire nel presente

Uno studio su Nature plants esplora l’origine delle piante terrestri a partire da nuovi importanti dati genetici. La ricerca, pubblicata con la prima firma di Peter Schafran, ricercatore al Boyce Thompson Institute, si basa sulla mappatura del genoma completo di dieci antocerote. Questi organismi vegetali non particolarmente “carismatici” e poco appariscenti possono passare facilmente inosservati, sebbene giochino un ruolo chiave nella storia dell’evoluzione delle piante. Ne abbiamo parlato con la professoressa Anna Maria Mercuri, docente di filogenesi vegetale all’università degli studi di Modena e Reggio Emilia.

“Le prime piante comparse sul pianeta erano acquatiche”, spiega la docente. “La fuoriuscita dall’acqua è avvenuta circa 480-450 milioni di anni fa, quando i primi organismi autotrofi (in grado, cioè, di trarre il proprio nutrimento da sostanze inorganiche) si sono trovati casualmente all’aria aperta, nelle zone di transizione tra terra e acqua. Possiamo immaginare che molti di essi non siano riusciti a sopravvivere in questo nuovo ambiente; altri, invece, ovvero quelli particolarmente resistenti alla disidratazione, si sono via via trasformati e adattati a vivere fuori dall’acqua”.

I principali tratti che hanno costituito un vantaggio evolutivo per i primi organismi vegetali sulla terra, spiega la professoressa, erano la capacità di compiere la fotosintesi e l’essere dotate di un rivestimento esterno in grado di proteggerle dalla disidratazione e dai raggi solari. “Questi requisiti essenziali per le piante terrestri si trovavano già “in potenza” nel codice genetico dei primi organismi acquatici”, sottolinea Mercuri. “Paragonando il DNA degli organismi algali (soprattutto delle alghe verdi) a quelli delle piante terrestri, si è scoperta infatti una straordinaria coincidenza genetica. Ciò significa che la potenzialità di trasformarsi in piante terrestri era già insita nei primi organismi acquatici che si differenziarono sulla terra”.

“Ben presto avvenne una suddivisione fondamentale, quella tra briofite e tracheofite”, continua la professoressa. “Le briofite, all’interno delle quali è possibile distinguere tre divisioni (o phyla) – i muschi, le epatiche e le antocerote – sono organismi vegetali di piccole dimensioni e molto legati all’acqua per il loro ciclo riproduttivo. Le tracheofite, invece, che comprendono le felci, le gimnosperme (le piante con seme) e le angiosperme (in grado di produrre fiori e frutti), sono dotate di tessuti vascolari che consentono loro di raggiungere dimensioni maggiori e di dipendere meno dalla presenza dell’acqua”.

Come spiega Mercuri, un’altra differenza fondamentale tra briofite e tracheofite riguarda i meccanismi riproduttivi. Tutte le piante hanno un ciclo vitale in cui si alternano due generazioni, quella aploide, che dà origine ai gameti – che si muovono attraverso l’acqua – e quella diploide, anche detta sporofito, che produce le spore – le quali vengono trasportate dall’aria.

“Nelle briofite, la generazione prevalente è quella aploide”, continua la professoressa. “La fase diploide è molto limitata, soprattutto nei muschi e nelle epatiche. Le antocerote, invece, rappresentano un caso particolare perché sono dotate di alcune caratteristiche intermedie tra le altre briofite e le tracheofite. Sebbene anch'esse abbiano come generazione prevalente quella aploide, il loro sporofito, che ha la forma di un cornetto dalla punta marrone e la base verde, è più longevo e sviluppato, perché continua a crescere costantemente finché la pianta è in vita. Sullo sporofito delle antocerote sono inoltre presenti gli stomi, strutture complesse che regolano gli scambi gassosi”.

La crescita continua e la presenza degli stomi sono tratti distintivi delle antocerote, solitamente assenti nelle altre briofite, ma sempre presenti nelle tracheofite. Queste somiglianze sono particolarmente interessanti per gli studiosi di filogenesi vegetale, i quali cercano di capire, come spiega Mercuri, se esse “siano il risultato di una convergenza evolutiva (un caso in cui specie con percorsi evolutivi separati sviluppano lo stesso tratto indipendentemente, ndr) o se le antocerote rappresentino una tappa dell’evoluzione intermedia tra le altre briofite e le tracheofite”.

Queste premesse sono necessarie per capire il valore dello studio di Schafran e coautori. “Spesso gli alberi filogenetici contengono delle discrepanze”, spiega Mercuri. “Questo accade perché solitamente vengono esaminati solo alcuni gruppi di geni raccolti da specie caratterizzate da un’ampia diversità genetica. Attraverso l’utilizzo di sofisticate tecniche di elaborazione, gli autori di questo studio sono riusciti invece a mappare dieci genomi completi rappresentativi di tutte le famiglie di antocerote esistenti, ottenendo quindi un dataset prezioso, che sarà di riferimento per ricerche future.

È sorprendente, inoltre, come all’interno di questo phylum così circoscritto, che oggi comprende un numero di specie piuttosto limitato (circa trecento in tutto il mondo), sia stata osservata un’enorme diversità genetica. La divisione delle antocerote è caratterizzata infatti da una grande ricchezza in termini di potenzialità espressiva”. In altre parole, il corredo genetico di questi piccoli organismi contiene molti “assi nella manica” che nel corso dei milioni di anni si sono manifestati all’occorrenza, per rispondere a determinate sfide ambientali. “È come se questa divisione fosse dotata di un cestino pieno di informazioni e avesse la possibilità di esprimere di volta in volta la migliore a seconda delle condizioni esterne”, commenta Mercuri.

La ricerca sulle antocerote è importante anche nell’ottica della conservazione degli ecosistemi e della salvaguardia della biodiversità. “Queste piante, come altre briofite, hanno un genotipo plastico e dinamico”, prosegue la professoressa. “Ciò le rende particolarmente adatte per il fitorisanamento, per la ricolonizzazione di habitat degradati e il ripristino ambientale”.

Lo studio del mondo vegetale può insegnarci anche alcune importanti lezioni sull’adattamento. “Le piante hanno colonizzato tantissimi ambienti differenti, modificando la propria fisiologia”, afferma Mercuri. “Lo stesso vale per la specie Homo Sapiens, che nel corso dei millenni ha mostrato una notevole resilienza, riuscendo a conquistare molte diverse nicchie ecologiche. Le piante servono a ricordarci, quindi, che l’adattamento è possibile, ma richiede tempo: una risorsa che oggi stiamo perdendo. In passato, i mutamenti ambientali avvenivano lentamente e lasciavano quindi il tempo agli esseri viventi di adattarsi, ma l’accelerazione attuale dei cambiamenti climatici causata dall’attività umana mette a rischio questo equilibrio”.

Studiare l’evoluzione vegetale permette quindi non solo di capire il passato, ma anche di imparare a gestire il futuro. “Si tratta di un motivo in più per investire in questo tipo di ricerca, che soffre da decenni di carenza di fondi, nonostante un rinnovato interesse nei confronti della materia da parte di tanti giovani studenti e ricercatori”, commenta la professoressa Mercuri, che segnala infine l’importanza di un approccio multidisciplinare. “È fondamentale che le ricerche basate sull’analisi molecolare (come quella di Schafran e coautori) procedano di pari passo con gli studi paleontologici incentrati sullo studio delle spore fossili risalenti a centinaia di milioni di anni fa e ancora oggi rilevabili nei depositi antichi. Solo attraverso l’integrazione di diversi tipi di dati è possibile ricostruire l’evoluzione degli organismi vegetali, che non va considerata un processo astratto, bensì una storia complessa e dinamica, composta da luoghi, tempi, condizioni climatiche e ambienti in continua trasformazione”.

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