Quando 196 Paesi del mondo hanno firmato il Global Biodiversity Framework (GBF), la comunità di coloro che si occupano di conservazione nel mondo naturale ha festeggiato un traguardo storico. Quell’accordo era storico non tanto perché non avesse precedenti – ricordiamo, tra tutti, il Piano strategico per la biodiversità 2011-2020, i cui 20 obiettivi (noti come Aichi Targets) sono stati clamorosamente mancati – quanto perché, rispetto ai precedenti, conteneva importanti elementi di novità.
Tra queste, è particolarmente importante l’estesa e consapevole inclusione delle comunità indigene nei processi di conservazione della natura. Nel testo della Convenzione ratificata a Montréal (Canada) a fine 2022, si fa riferimento al ruolo e ai diritti delle comunità indigene in ben 7 dei 23 articoli, a sottolineare come la comunità scientifica e i decisori politici abbiano finalmente riconosciuto la centralità che le popolazioni indigene rivestono nella tutela della biodiversità. Secondo una stima, le popolazioni indigene rappresentano solo il 5% dell’intera popolazione umana, occupano (e gestiscono in modo quasi sempre sostenibile) il 22% delle terre emerse non ghiacciate, nelle quali vive ben l’80% della biodiversità conosciuta. Di questa le popolazioni indigene sanno prendersi cura, instaurando un rapporto non predatorio con gli ecosistemi locali e con i loro abitanti non umani.
Tuttavia, ancora oggi la gestione della biodiversità e gli interventi di conservazione sono quasi esclusivamente appannaggio del Nord globale, e le pratiche di conservazione mantengono ancora il retaggio di una visione economicistica e manageriale del mondo naturale, in cui le esigenze delle popolazioni che vivono nei luoghi ad alta biodiversità e le ricadute sociali degli interventi di conservazione non vengono adeguatamente considerate.
Come afferma Eleanor Milner-Gulland, conservazionista e docente all’università di Oxford, in un editoriale pubblicato sulla rivista scientifica PLOS Biology, questo approccio è ormai obsoleto e deve essere ripensato: «È il momento – recita il titolo dell’articolo – che i conservazionisti difendano la giustizia sociale».
Il punto fondamentale è che oggi, a circa un anno e mezzo dall’entrata in vigore del GBF, le infrastrutture economiche e di investimento per la natura (il termine sintetico usato in ambito internazionale per riferirsi a tutti gli interventi di protezione e ripristino del mondo naturale è “Nature Positive”) sono ancora in fase di realizzazione. È dunque ancora possibile costruirle in modo che tengano conto anche dei principi di giustizia sociale, e che l’ineguaglianza che finora ha contraddistinto la gestione della crisi ambientale (tanto in ambito climatico quanto rispetto alla biodiversità) non divenga un aspetto radicato nelle politiche di tutela della biodiversità.
Uno dei nodi centrali della realizzazione dei 4 goals e 23 targets di cui consta il GBF riguarda i finanziamenti: senza soldi, infatti, i progetti di conservazione e ripristino della natura – come il famoso “30 by 30” – saranno impossibili da realizzare. E, secondo uno schema già verificatosi nell’ambito delle politiche per il clima, anche in questo caso vale il principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”: i Paesi che sorgono nelle regioni con i tassi più alti di biodiversità (principalmente concentrati nelle aree tropicali del pianeta) sono anche i più poveri e vulnerabili, quelli con meno risorse per proteggere il loro patrimonio naturale e, non da ultimo, quelli che meno hanno contribuito all’attuale crisi della biodiversità. «Le responsabilità per gli impatti sulla biodiversità sono distribuite in modo ineguale, sia nel passato che nel presente, e dunque i Paesi ricchi devono sostenere l’onere maggiore per la riduzione di questi impatti», sostiene la docente.
Per questo motivo, sottolinea Milner-Gulland, è importante che la progettazione delle strategie di recupero della biodiversità non trascuri le interazioni tra gli obiettivi di protezione della biodiversità, stabilizzazione del clima e promozione dello sviluppo umano. Non è raro, infatti, che le diverse strategie messe in atto per raggiungere questi obiettivi siano in conflitto le une con le altre: sono moltissimi i casi di violazione dei diritti umani (spesso ai danni di popolazioni indigene e comunità locali) per via dell’attuazione di progetti di conservazione, come ad esempio l’istituzione di aree protette integrali. «Le valutazioni degli impatti sociali non possono concentrarsi soltanto sul benessere materiale o sulla preservazione dei mezzi di sussistenza, ma devono tenere in considerazione quel che è concettualmente importante per le popolazioni coinvolte e il modo in cui gli interventi concentrati sulla protezione della biodiversità si possono ripercuotere su di loro».
Le pratiche di conservazione, come dicevamo, sono gestite quasi esclusivamente da ricercatori del Nord globale (e dunque contengono inevitabilmente i bias del retroterra culturale e del contesto sociale da cui questi ricercatori provengono) e, nonostante diversi esempi positivi, non è ancora così diffusa la pratica di coinvolgere attivamente le popolazioni locali nei progetti di tutela e ripristino della biodiversità. Questo deve cambiare – o meglio, come afferma Milner-Gulland, «le dinamiche di potere devono essere invertite».
Perché le pratiche di conservazione incorporino i basilari principi di giustizia sociale, è importante che si mettano in atto alcune accortezze, tra cui Eleanor Milner-Gulland individua, ad esempio:
- assicurare che il rispetto dei diritti umani sia un obbligo legale;
- far sì che si attui una giustizia non soltanto distributiva (cioè a valle degli interventi), ma anche in termini di riconoscimento e di procedura (cioè “a monte”, già nella progettazione degli interventi stessi);
- far sì che le popolazioni possano esprimere da sole le proprie esigenze e difendere i propri diritti;
- valorizzare pratiche di protezione della biodiversità che possano essere attuate direttamente dalle popolazioni locali, piuttosto che imporre priorità conservazionistiche calate dall’alto e che spesso non tengono conto del contesto specifico.
Simili accorgimenti rallenterebbero, almeno in una prima fase, l’attuazione delle strategie di conservazione, perché coinvolgere i diversi attori, ascoltare le diverse istanze e, soprattutto, tutelare i diritti di tutti richiede tempo. Ma i benefici sarebbero molteplici: ad esempio, questo approccio permetterebbe di ridurre la diffidenza delle popolazioni indigene e delle comunità locali verso i conservazionisti, giustificata dalle “ferite” del passato.
Come afferma ancora Milner-Gulland, «la giustizia sociale e planetaria possono (e devono) convergere, ma perché questo avvenga è necessario che alcuni di coloro che oggi detengono potere e privilegi rinuncino, almeno in parte, ad essi».