Un manifesto elettorale in Germania. Foto: Reuters
Anche il terzo round delle elezioni statali in Germania (la Repubblica federale è divisa in 16 Stati-Regione) rischia di finire come i due turni precedenti, in Turingia e Sassonia, dove i nazionalisti di Alternative für Deutschland hanno riportato risultati clamorosi, segnando la prima vittoria di un partito politico di estrema destra in un’elezione dal 1945, dalla fine del regime nazista. E l’onda nera potrebbe ora travolgere il Brandeburgo, storica roccaforte dei socialdemocratici: gli ultimi sondaggi danno anche qui i neonazisti di AfD in testa con il 28% delle preferenze, seguiti dall’Spd con il 24%, la Cdu con il 15% e la nuova formazione populista di sinistra BSW (Bündnis Sahra Wagenknecht) con il 13%. Inutile dire che il governo del cancelliere Olaf Scholz assiste con estrema preoccupazione all’esito del voto, che potrebbe ulteriormente indebolire il suo già sfibrato governo (una coalizione “semaforo” nata alla fine del 2021 con i Verdi e i Liberali di FDP), alle prese da un lato con una profonda crisi economica (la Germania sta sfiorando la recessione, con l’aumento dei prezzi dell’energia che sta mettendo in ginocchio le industrie) e dall’altro con una altrettanto profonda crisi d’identità, di autorevolezza, di consenso, di prospettive. Perché la politica, in fin dei conti, è una questione di risposte: se non arrivano, se c’è delusione, gli elettori si rivolgono altrove. E più la delusione è forte, più l’altrove diventa ampio. Una fiducia vincolata ai risultati. E nelle prime due elezioni statali la bocciatura, per i partiti che compongono la coalizione di governo Scholz, è arrivata sonora: i Socialdemocratici hanno racimolato la miseria del 6% in Turingia e il 7% in Sassonia. I Liberali non hanno nemmeno superato la soglia di sbarramento, fissata al 5%. I Verdi l’hanno passata di un soffio soltanto in Sassonia. «I risultati in Sassonia e Turingia sono preoccupanti», aveva commentato a caldo Scholz. «Il nostro Paese non può e non deve abituarsi a questo. Alternative für Deutschland sta danneggiando la Germania. Sta indebolendo l’economia, dividendo la società e rovinando la nostra reputazione». Salvo poi tentare di “scippare” alla destra il suo più emblematico cavallo di battaglia (e nervo scoperto per tutta l’Unione Europea): la lotta all’immigrazione clandestina. «Dobbiamo essere in grado di scegliere chi viene in Germania», ha ribadito con enfasi la scorsa settimana il cancelliere tedesco in un discorso al Bundestag. «Siamo un Paese che dà protezione e l’apertura al mondo è necessaria, ma questo non significa che chiunque voglia possa entrare». Scholz, per dare un senso pratico alle sue parole, ha anche disposto il ripristino dei controlli alle frontiere con i 9 stati confinanti, di fatto in violazione dell’accordo di libera circolazione nell’area Schengen, irritando non poco le nazioni vicine (soprattutto Polonia e Austria) e la stessa Unione Europea, ricevendo invece il plauso dai governi che più spingono per la chiusura delle frontiere, come il premier ungherese Orban, o come il governo italiano. Intanto la Germania sta intensificando le firme di numerosi “accordi di migrazioni” (l’ultimo è di domenica scorsa, con l’Uzbekistan) per rendere più facile per i lavoratori qualificati arrivare in Germania per lavorare, mentre in cambio quei paesi (Kenya, India, Marocco, Georgia, Colombia) s’impegnano a riprendersi i loro cittadini immigrati irregolari, espulsi perché privi del permesso di soggiorno. , Trattative sono in corso con Moldova, Kirghizistan, Filippine e Ghana. Secondo il quotidiano tedesco Bild sarebbero inoltre in corso “negoziati riservati con l’Uzbekistan per vedere se il paese dell’Asia centrale può aiutare la Germania con le deportazioni in Afghanistan”.
Il Reichstag a Berlino. Foto: Reuters
Il patto segreto sulla “remigrazione”
Ma la questione immigrati resta, comunque, il punto centrale nella politica proposta da Alternative für Deutschland (e in generale dalle destre estreme, non soltanto in Germania). All’inizio di quest’anno la rete di giornalismo investigativo Correctiv aveva svelato che il 25 novembre del 2023 s’era svolto un incontro segreto in un albergo alla periferia di Potsdam, la capitale regionale del Brandeburgo, al quale avevano partecipato esponenti dell’estrema destra radicale tedesca (politici di alto rango dell’AfD, neonazisti, imprenditori “simpatizzanti”), nel quale si sarebbe discusso, tra l’altro, della necessità di procedere alla deportazione di richiedenti asilo e di cittadini tedeschi di origine straniera con l’applicazione del concetto di “remigrazione” (il ritorno forzato degli stranieri nei loro paesi d’origine). Dunque chiunque non abbia il colore della pelle “giusto”, o la “giusta” origine, o non sia adeguatamente “integrato”. «Hanno pianificato niente di meno che l’espulsione di milioni di persone dalla Germania», si legge nel reportage di Correctiv. «Un piano razzista per l’espulsione delle persone con un background migratorio, compresi i cittadini tedeschi. Ciò che si sta progettando è un attacco all’esistenza delle persone. E non è altro che un attacco alla Costituzione della Repubblica Federale». Sempre nel corso di quell’incontro il principale oratore, Martin Sellner, un suprematista bianco, leader storico del Movimento austriaco degli Identitari (IBÖ, Identitäre Bewegung Österreich) e principale teorico della “remigrazione” (nel marzo di quest’anno l’estremista è stato espulso dalla Germania, con divieto d’ingresso per tre anni), aveva teorizzato la creazione di uno “stato modello” in Nord Africa che avrebbe potuto ospitare fino a due milioni di invididui: «Allora sì che avresti un posto dove spostare le persone», aveva concluso Sellner. Un’idea che non si discosta poi molto da quella concepita dai nazisti nel 1940, quando il governo progettò di deportare quattro milioni di ebrei europei in Madagascar.
Il cancelliere Scholz sa bene che la questione è estremamente seria. E perciò sia in Turingia sia in Sassonia (e con ogni probabilità avverrà anche in Brandeburgo) ha invitato i partiti a non stringere coalizioni con gli estremisti di destra. Il “cordone sanitario” per ora tiene e difficilmente AfD riuscirà a mettere piede in uno dei governi locali. Ma con il suo oltre 30% di preferenze, e dunque di seggi nei parlamenti statali, ottenuti finora nei Länder (32 seggi su 88 in Turingia), l’AfD ha conquistato quella che in tedesco viene chiamata“Sperrminoritaet”, una “minoranza di blocco”, che è la facoltà di bloccare, appunto, le leggi che richiedono l’approvazione di due terzi dei legislatori (le modifiche costituzionali, l’elezione del presidente e dei giudici della Corte costituzionale della Turingia, l’elezione del presidente e del vice della Corte dei conti). In Sassonia Afd ha 40 seggi su 120: appena sotto la soglia di un terzo. Domenica sera sapremo cosa accadrà in Brandeburgo. Scriveva al proposito, pochi giorni fa, Verfassungsblog, un forum giornalistico e accademico di dibattito su eventi di attualità politica in Germania: «La minoranza di blocco può portare la democrazia liberale a un dilemma. Le maggioranze dei due terzi sono in realtà un meccanismo protettivo. L'obiettivo è quello di evitare che i partiti di governo – specialmente quelli che utilizzano la strategia autoritario-populista – siano semplicemente in grado di governare da soli. I partiti devono essere abilitati e costretti a un compromesso politico, soprattutto quando si tratta di grandi questioni, come gli emendamenti alla costituzione. Questo meccanismo di protezione è buono e giusto. Ma con la minoranza di blocco, ha anche un lato negativo che i partiti autoritari-populisti possono usare per sé stessi. Laddove si suppone che la costruzione del consenso rafforzi la cultura democratica, può essere indebolita da blocchi permanenti. Oppure si abusa della minoranza di blocco come mezzo per esercitare pressione, con il partito autoritario-populista che subordina l’approvazione necessaria a condizioni e ricatta di fatto gli altri partiti. Viktor Orbán è un buon esempio in questo senso».
Il pessimismo degli economisti tedeschi
Intanto gli economisti tedeschi leggono con preoccupazione i successi elettorali degli estremisti di destra. Con l’Ifo Institute che ha condotto una ricerca interpellando 185 professori di economia e chiedendo loro quale sarà, o potrebbe essere, l’impatto economico delle affermazioni di Alternative für Deutschland e dell’altro partito populista e sovranista, di estrema sinistra, Bündnis Sahra Wagenknecht. Ebbene, il 67% degli intervistati prevede un impatto negativo sullo sviluppo economico (per la Turingia la percentuale dei giudizi negativi sale al 74%). Secondo Niklas Potrafke, direttore del Centro Ifo per la finanza pubblica e la politica economica, «la popolarità dei partiti radicali danneggerà gravemente la posizione economica, al punto che dovrebbe essere un campanello d’allarme per la popolazione».
La situazione economica in Germania è realmente drammatica, scivolata in una crisi strutturale così profonda da non riuscire a vedere una via d’uscita, nonostante gli ampi surplus di bilancio dello Stato e un export commerciale ancora solido. Secondo i dati dell’Ufficio federale di statistica Destatis, a luglio la produzione industriale tedesca ha subito un tonfo del 2,4% sul mese precedente (quasi cinque volte superiore a quello previsto dagli analisti) e del 5,3% su base annua. Mentre il colosso dell’auto Volkswagen, per la prima volta, non ha escluso la possibilità di procedere alla chiusura di stabilimenti, con licenziamenti annessi (si parla di 15mila persone). La Bundesverband der Deutschen Industrie (Bdi), la Confindustria tedesca, ha ammonito che il 20% del valore industriale tedesco è a rischio e che, di conseguenza, bisognerebbe investire 1,4 trilioni di euro entro il 2030 per rafforzare la propria base industriale e rimanere competitiva nel mercato globale. E forse, anche alla luce di questi dati, potrebbe essere stato un po’ frettoloso il netto “no” di Berlino alla presentazione del piano Draghi. Scrive Henrik Müller, professore di giornalismo di politica economica presso l’Università Tecnica di Dortmund: «L’economia tedesca è stagnante da quattro anni e mezzo. Il prodotto nazionale è al livello della fine del 2019, se si esclude l’inflazione. Da allora la produzione economica pro capite è addirittura leggermente diminuita. La Repubblica Federale di Germania non ha mai vissuto anni così magri dai suoi anni di fondazione. E non sembra che le cose cambieranno presto. Perché non c’è nessuno in grado di dare una scossa a questa società, di indicare un percorso comprensibile verso un buon futuro. Nella situazione attuale, le élite della politica e degli affari sono messe in discussione come non lo sono state per molto tempo. Si tratta di stabilire la rotta, della prosperità delle generazioni future, della stabilità del paese, del nostro ruolo in Europa e nel mondo. Invece, tutti sono infastiditi l’uno dall’altro. Il semaforo del governo lampeggia all’impazzata nella confusione. Il più grande Stato membro è diventato un peso per il resto dell’Unione Europea, una zavorra che trascina verso il basso il resto del continente».
Intanto continua ad aumentare la sfiducia dell’elettorato verso l’attuale cancelliere, che già lo scorso dicembre era stato bocciato dall’82% degli intervistati. «Olaf Scholz è diventato un peso per l’SPD», ha sentenziato il politologo Albrecht von Lucke. «E lo stato disastroso della coalizione dipende in gran parte dalla sua mancanza di leadership». La profezia di von Lucke è che la coalizione-semaforo possa andare in frantumi proprio dopo le elezioni in Brandeburgo, domenica prossima, 22 settembre, con il Liberali quotati appena tra l’1 e il 2%. «Il cancelliere non può più ricucire questa frattura all’interno della coalizione», sostiene ancora il politologo. «E se Olaf Scholz non è in grado di dare a questo paese la leadership che ha promesso, questo è un altro punto a favore di AfD».
Il vuoto di governo da una parte, e dall’altra l’avanzata prepotente, soprattutto in quegli stati che appartenevano alla Germania Est (il che lascia intravedere nuove-antiche divisioni), degli estremisti nazionalisti di Alternative für Deutschland, portatori di un mix tra populismo, rabbia e razzismo, che pur privi di qualsiasi rimedio in tema di economia continuano ad agitare lo spettro della lotta contro una “società diversificata", definendo la migrazione “la madre di tutte le crisi”: ai comizi di Björn Höcke, leader dell’AfD in Turingia, che si è prestato con entusiasmo a fare da megafono al concetto di remigrazione, e che nel 2017 aveva sostenuto che “Hitler non è stato il male assoluto”, le folle oramai gridano abitualmente “deportazione, deportazione”. E l’alleanza degli estremisti di destra “Pegida” (acronimo di Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes, patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente, molto attiva su Telegram), fondata dieci anni fa, appare oggi più viva e dinamica che mai.