SOCIETÀ
Under the surface: chi ci rimette se non c'è acqua, o se ce n'è troppa?
Imbarcazioni in secca per la mancanza di acqua nel Po presso Torricella, Parma, nella primavera del 2022 (Foto: Michele Lapini)
La strada corre proprio sotto l’argine, che sembra incombere sul piatto paesaggio circostante come fosse una piccola collina. Ca’ Mora, Polesinello, Gnocca, Oca Marina: ogni pochi chilometri attraversiamo un borgo dal nome che sa di romanzo fantasy un po’ ironico. A Cassella lasciamo la via principale per raggiungere un edificio a due piani, circondato dai campi coltivati: è la sede della Società Agricola Moretto, azienda specializzata nella produzione di riso nel delta del Po. Ci accoglie Elisa Moretto, che rappresenta la terza generazione della famiglia che si occupa dell’azienda. “Siamo nati nel 1950, quando vennero assegnati a mio nonno i primi sei ettari di terra e la casa che c’è ancora qui a fianco”, racconta mentre il telefono dell’ufficio continua a squillare. Ordini da evadere, visite guidate da organizzare, piccole questioni familiari da risolvere: Elisa è piena di energia e si capisce che ne riversa gran parte nel far funzionare al meglio l’attività.
Una risaia ancora parzialmente allagata all’Isola della Donzella. I campi sono allagati per la semina, asciugati per permettere alle piantine di radicarsi bene e nuovamente allagati fino alla raccolta, che di solito si fa in ottobre (Foto: Marco Boscolo)
La Società Agricola Moretto si trova sull’Isola della Donzella, una vera e propria isola di oltre 10 mila ettari nel comune di Porto Tolle, in provincia di Rovigo. Ѐ un territorio che semplicemente poco più di un secolo fa non esisteva: tutta la zona che dall’asse Rovigo-Ferrara comprende il delta del Po e arriva all’Adriatico era una distesa di paludi, zone umide, lagune. Ѐ stata l’opera di bonifica che ha permesso di creare nuovi terreni per l’agricoltura e di assegnarli a veri e propri coloni come il nonno di Elisa Moretto. Tutto grazie alle idrovore, che continuano a lavorare incessantemente da allora, e a quegli argini imponenti: qui siamo circa 3 metri sotto il livello del mare. Oggi l’azienda possiede 72 ettari e dal 1988 ha iniziato a coltivare il riso, una delle specialità della zona.
Le tubazioni degli impianti di sollevamento dell’acqua all’Isola della Donzella con, sullo sfondo, l’argine sul Po della Donzella (Foto: Marco Boscolo)
Il paradosso delle aree bonificate è che, nonostante si tratti di aree originariamente umide, non c’è acqua dolce. Lo spiega bene anche un podcast intitolato I fantasmi della bassa che racconta la vita dei braccianti nelle zone bonificate del ferrarese tra il 1870 e il 1922: l’acquedotto è arrivato solo nel secondo dopoguerra e la risorsa fondamentale per l’agricoltura è l’acqua del Po. Cosa succede, però, quando una siccità intensa come quella del 2022 la metta in discussione? “Acqua dolce non ce n'era più”, racconta Elisa e nella sua voce si sente ancora la preoccupazione di allora, come se avesse lasciato un’impronta.
Quando il Po si è asciugato per la mancanza delle piogge di cui abbiamo discusso nell’articolo precedente di Under the Surface, l’acqua salata è risalita lungo i diversi rami del fiume, anche per diverse decine di chilometri. Ѐ il fenomeno del cuneo salino, che abbiamo affrontato in un articolo qui su Il Bo Live proprio in quei mesi. Era una situazione difficile, anche per una coltura come il riso che, ci spiega Elisa Moretto, “ha un’alta tolleranza rispetto alla salinità dell’acqua”. Il risultato è stata una drastica diminuzione del raccolto. “Considerate che noi in media produciamo 3600 quintali di riso l’anno: quell’anno ne abbiamo fatti 920, un quarto”.
Alle immediate preoccupazioni per la riduzione della produzione del 2022 si aggiungevano anche le paure per l’anno successivo. Se l’acqua salata arriva nelle risaie e poi evapora lascia a terra il sale, che rende inutilizzabile i campi per una nuova semina: il sale “brucia” il terreno. Per questo motivo, riuscire ad allagare le risaie con l’acqua dolce non era necessario solamente per provare a seminare, ma per garantire che il terreno sarebbe stato coltivabile l’anno successivo. Per questo motivo, Elisa e la sua famiglia hanno deciso di investire in pompe che permettessero di far comunque arrivare un po’ di acqua. “Ci siamo dati un po’ una mano tra agricoltori”, ci racconta, “perché comunque nella valle più in là, magari c’era un po’ di acqua. Quindi con le pompe è stata portata in un bacino e poi da lì, sempre con le pompe, siamo riusciti a portarla sui nostri terreni”. Una condivisione virtuosa di una risorsa che in quel momento era scarsa e preziosissima.
Un silenzio assordante
La siccità del 2022 è stata sicuramente un evento che ha segnato profondamente questo territorio. L’esperienza di Elena Moretto e della sua azienda ci confermano quello che dicono anche i dati dell’ISPRA di cui abbiamo parlato nell’episodio precedente di Under the surface: in passato le siccità estreme e le scarsità di acqua così importanti erano più rare. Ai tempi del nonno e del padre, “erano periodi brevi, che riuscivamo a gestire”, ci racconta. La siccità del 2022 è stata lunga e grave. Se per la loro azienda i Moretto si sono attivati con iniziative che hanno tamponato la situazione, nel medio-lungo periodo la prospettiva è diversa e la paura riaffiora nella voce. “Dopo che ti sei scottata con l’acqua calda, hai paura dell’acqua fredda”, dice Moretto recitando un detto popolare.
La verità è che affrontare il problema delle trasformazioni dei regimi e delle disponibilità d’acqua dovute al cambiamento del clima richiede risorse al di sopra di quelle di una singola azienda. “Anche prendere una risaia, scavarla e trasformarla in vasca non è una cosa che si riesce a fare come singola azienda”. Non è solo un problema di risorse economiche o di burocrazia da evadere, ma “dovrebbe intervenire chi è sopra di noi”, cioè chi gestisce il territorio nel suo insieme, spiega Moretto, mettendo in campo una strategia a largo raggio “che possa tutelare la produzione agricola del Delta del Po”. E questa, conclude amaramente, “è una discussione che qui non c’è”. La sensazione che si sente addosso è che “nel momento in cui è rientrata l’emergenza, questo tipo di discorsi siano stati messi da parte”.
Uno dei canali di irrigazione che corrono a fianco delle strade nel paesaggio fortemente antropizzato dell’Isola della Donzella (Foto: Marco Boscolo)
Sotto il livello del mare è anche la maggior parte dei terreni sotto il Consorzio di Tutela del Riso del Delta del Po Igp, un’organizzazione che raggruppa una trentina di aziende e copre oltre 15 mila ettari nelle province di Rovigo e Ferrara. In questo vasto pezzo di terra produttiva, “non ho coscienza che siano stati fatti degli interventi per immagazzinare l’acqua”, dice Adriano Zanella, presidente del Consorzio. Lo riusciamo a raggiungere al telefono, tra i suoi molti impegni. Oltre alle attività legate al Consorzio, infatti, ha un’azienda risicola a Jolanda di Savoia, cittadina fondata nel 1903 proprio nei territori delle Bonifiche Ferraresi. A domanda precisa, se il Consorzio è stato mai interpellato dal nuovo Commissario straordinario per la siccità, la risposta è secca: “No, non siamo stati interpellati e non è arrivata nessuna comunicazione”.
Zanella sottolinea anche un altro aspetto importante per la produzione del riso. Anche intervenire con la creazione di bacini per l’immagazzinamento dell’acqua non è la soluzione ideale. “L’acqua nei canali e nei bacini si riscalda”, spiega, “soprattutto quando ce n’è poca” per via della siccità. Utilizzare quest’acqua più calda per allagare le risaie “è controproducente per quanto riguarda la resa del riso stesso”, chiosa Zanella, che ricorda come le piante di riso rendano meglio con acqua più fresca, “più ossigenata e che dunque ossigena meglio il terreno”.
Sperimentare per salvaguardare l’acqua
Sprecare meno risorse è un obiettivo che Zanella si è dato nella sua azienda. Da qualche anno sta collaborando con Acqua Campus, il centro di ricerca e sviluppo messo in piedi dal Consorzio del Canale Emiliano Romagnolo (CER) per studiare tecniche e tecnologie per far rendere al massimo l’acqua che il canale preleva dal Po. Qui vale la pena allontanarsi per un attimo dal delta del Po e risalire il corso del grande fiume fino a Bondeno, da dove si dirama verso sud il primo tratto del CER. L’acqua del fiume è prelevata da enormi pompe e viene poi distribuita lungo i 165 chilometri del canale, soprattutto per irrigare i campi, dal ferrarese fino a Rimini e oltre.
L’idea che ha portato al CER è antica: se ne parlava già nel XVII secolo. Ma è nel Secondo dopoguerra che diventa realtà, proprio in concomitanza con il definitivo sviluppo dei territori bonificati. L’acqua del CER serve a rifornire soprattutto la Romagna, un territorio caratterizzato da fiumi con regimi torrentizi che spesso d’estate, quando c’è maggior richiesta dai campi, sono secchi. “Negli ultimi anni abbiamo superato i 300 milioni di metri cubi di acqua distribuiti ai nostri consorziati”, spiega Michele Marini, ingegnere in forza al CER. Si tratta di un incremento significativo, che testimonia la carenza di acqua degli ultimi anni, “perché fino a dieci anni fa non arrivavamo a 200 milioni”.
Al CER ovviamente studiano tutte le modalità possibili per garantire questo servizio a un territorio che nel frattempo ha sviluppato un’agricoltura di forte impatto economico e dalle esigenze idriche importanti che devono essere soddisfatte. C’è il progetto IRRINET, che fornisce gratuitamente a tutti gli agricoltori un servizio informativo quotidiano con indicazioni personalizzate della quantità di acqua da utilizzare per garantire la massima resa dei singoli campi e della singola coltura. È un progetto che è stato inizialmente messo a disposizione dei consorziati dell’Emilia-Romagna, ma che nella sua evoluzione IRRIFRAME è disponibile per chiunque, anche in altri territori.
Dettaglio delle chiuse degli impianti di gestione delle acque sull’Isola della Donzella sullo sfondo di una risaia (Foto: Marco Boscolo)
E c’è anche l’attività di ricerca di Acqua Campus citata anche da Zanella. La sua azienda è una di quelle in cui si sta sperimentando un sistema per l’automazione dell’apertura e della chiusura delle paratie dei canali di irrigazione. Finora, nella maggior parte dei casi, queste operazioni vengono condotte a mano, utilizzando dei meccanismi che alcuni operatori devono azionare sulla chiusa direttamente in loco. Nella versione sperimentale, questa operazione sarà automatizzata, gestibile da remoto e regolata anche da sensori che valutino la quantità di acqua presente per esempio in un risaia e le condizioni meteo.
Una trasformazione colturale
L’arrivo dell’acqua del CER nel secondo dopoguerra ha segnato profondamente l’agricoltura romagnola. “La disponibilità di acqua di alta qualità come quella fornita dal CER è stato un fattore”, spiega Domenico Solimando, Capo Settore Studi e Ricerche Agronomiche del Consorzio e uno dei responsabili di Acqua Campus. “Ma ci sono state anche ragioni di mercato, come per esempio la convenienza economica di determinate colture rispetto ad altre”. Si tratta, però, di colture che “spesso, anche se non sempre, hanno bisogno di più acqua e quindi sono più idroesigenti”. La minore disponibilità di acqua dovuta a minori precipitazioni degli ultimi anni, sottolinea Solimando, ha avuto un impatto soprattutto nella distribuzione nel tempo: lunghi momenti secchi e piogge concentrate. “Non mi riferisco all'alluvione dell'anno scorso, però ci sono eventi estremi: cade molta acqua, ma in periodi ristretti e quindi l'ambiente non è in grado di assimilarla e di assorbirla”.
Siamo di fronte a un’altra testimonianza di un cambiamento profondo rispetto al ritmo che l’agricoltura ha potuto seguire fino a pochi decenni fa. Un cambiamento che, come ci ha raccontato Giulio Boccaletti nell’episodio precedente di Under the Surface, lega in maniera diretta la crisi idrica con la crisi climatica che stiamo vivendo. Ma dalla chiacchierata con Michele Marini e Domenico Solimando ci appare ancora più chiaro che la questione è sì ambientale ed ecologica, ma è soprattutto una questione politica: che tipo di sviluppo si sceglie per un territorio? Che tipo di interventi si fanno per tutelare chi lo abita?
A quest’ultima domanda, per esempio, il CER sta rispondendo con un progetto di abbassamento del punto di prelievo delle acque dal Po, un’opera tecnologicamente all’avanguardia che dovrebbe garantire un prelievo costante di acqua anche in futuro, con un eventuale livello del fiume abbassato. Una risposta tecnologica, quindi, ma che non tocca, e non può toccare, la scelta fatta a monte, quella sulla pianificazione del futuro agricolo di questa zona.
Dall’agricoltura alla pesca
Se come indicato da Boccaletti la risposta al problema nel suo complesso deve essere politica e non solo tecnoscientifica, ci sono attività che potrebbero essere salvaguardate almeno da una buona manutenzione del territorio e delle risorse idriche. Sia quelle sotterranee che quelle di superficie. C’è infatti chi l’acqua sotterranea non la usa, non la preleva, in un certo senso non la vede nemmeno. Ma che al tempo stesso dal delicato equilibrio di rapporti tra acque superficiali e sotterranee dipende per tutta la propria attività.
“Noi utilizziamo l’acqua che arriva dal Po nel delta e si incontra con quella del mare. Il nostro problema è che non sappiamo se quest’acqua sia pulita o se presenti qualche problematica, perché uno studio preciso sulle acque che entrano nel mare dal Po non c’è” Così esordisce Paolo Mancin, presidente del Consorzio delle Cooperative Pescatori del Polesine, una grande organizzazione che riunisce 14 cooperative e che, nei fatti, dà lavoro in concessione a oltre 1500 persone. Metà delle quali sono donne, specifica.
Ci troviamo a Porto Tolle, nella frazione di Scardovari. Siamo nella zona veneta del Parco del delta del Po, al primo piano del grande edificio che ospita la sede del consorzio. Entrando per errore dal retro, siamo passati dal punto di carico e scarico dove parcheggiano i grandi camion frigoriferi che trasportano le cozze e le vongole ai mercati. Un viavai che non fa subito capire il momento difficile che questo consorzio sta vivendo da un anno a questa parte.
Mancin, 60 anni vissuti tutti in queste zone, prima come agricoltore e poi come pescatore, ha un tono tra lo sconsolato e l’arrabbiato mentre ci parla. “Stiamo vivendo una crisi economica incredibile, principalmente dovuta al granchio blu. Ma è una crisi aggravata anche dai problemi relativi alle acque: le nostre sono acque lagunari, di transizione, all’incrocio tra quelle dolci del Po e quelle salmastre.” E queste acque, secondo quanto ci spiega, non sono sempre di buona qualità. In un consorzio che ha una certificazione di prodotto biologico, sia per le cozze che per le vongole, la qualità delle acque è una condizione necessaria per produrre. Da parte loro, aggiunge dunque, c’è da anni la richiesta di effettuare regolarmente opere di pulizia e manutenzione dei canali. Ma senza successo. Mancin attribuisce in parte la responsabilità anche ai vincoli associati all’esistenza del Parco. “Operare in un parco comporta dei vincoli, che sembra non abbiano impatto sull’economia locale. Ma non è così. La nostra pesca è sempre effettuata sul filo del rasoio nel rapporto con la natura.”
Il racconto di Mancin dipinge una situazione sempre alla ricerca di un equilibrio difficile. In questo ambiente complesso, basta che uno dei fattori in gioco non funzioni alla perfezione e il risultato è compromesso. La manutenzione degli arginelli nelle zone del delta per esempio è necessaria per evitare che ci sia un eccesso di acqua dolce che entra in laguna, com’è accaduto a maggio di quest’anno, causando una moria di vongole. Al contrario, nel 2022, l’anno della grande siccità, la laguna aveva un eccesso di salinità, perché come sappiamo e abbiamo raccontato nella prima puntata di questa serie, il rientro del cuneo salino del mare nel fiume è stato molto consistente. “È stata terribile la siccità, non c’era acqua in laguna, era sempre più salata e questo ha compromesso la produzione.”
Non ci sono molti margini di controllo, non c’è difesa, ma se alcuni fenomeni sono figli della crisi climatica globale, altri sottolinea Mancin, dipendono da una scelta, o meglio da una inazione, a livello della gestione del territorio. Mancin apre Google Earth sul suo computer e ci porta a navigare proprio lì, sopra il delta del Po. “Lo vedete quell’isolotto lì? Lì davanti all’uscita del ramo centrale del Po, quella che noi chiamiamo Busa dritta” indica una striscia di terra consistente e piuttosto estesa che si vede proprio davanti alla foce principale. “Ecco, quello è una sorta di tappo che non dovrebbe essere lì, e che prima non c’era. Si è formato negli ultimi 7-8 anni.” Lo confermiamo guardando assieme a Mancin le immagini dello stesso punto di più di dieci anni fa: si vede molto chiaramente che quella striscia si forma e si ingrossa dal 2013 in poi. “È naturale, il fiume fa il suo lavoro, porta a valle i detriti e tende ad accumularli. Oggi quell’isolotto è talmente esteso che ci è atterrato recentemente perfino un aereo da turismo, si è formata una spiaggia…“
Mancin sottolinea però che questa situazione non è affatto normale, quel tappo costituisce un pericolo. “Perché così il fiume lavora sui rami laterali, e alla fine, potrebbero esserci dei rischi per chi vive da quelle parti”. La denuncia è stata portata dai sindaci di questa zona davanti all’Autorità di bacino del Po, ma per ora non c’è stata alcuna risposta. Al tempo stesso, ci dice ancora Mancin, confermando quanto già detto dagli altri che abbiamo intervistato, non ci sono al momento azioni congiunte e coordinate di intervento, né sul piano delle ricerche né su quello delle strategie e dei piani di intervento e gestione, che li abbiano visti coinvolti.
Se le diverse autorità e istituzioni stanno proponendo piani di gestione delle acque e altre soluzioni ai problemi concreti che queste comunità stanno vivendo, loro non ne sono al corrente né tanto meno sono stati chiamati ad esprimersi e contribuire. “Noi sappiamo che l’ambiente del Delta non è semplice, lo capiamo. Ma quello che ci fa arrabbiare è che non ci sia nessun piano e nessuna azione”.
“ Visitare le zone umide quando il caldo eccessivo le fa evaporare ha un impatto negativo
Il rapporto tra le attività produttive e gli aspetti di protezione e conservazione ambientale è sempre abbastanza problematico. La scelta di costituire un parco in una zona altamente antropizzata, dove esistono e si praticano diverse attività produttive, non è in effetti mai del tutto indolore e gli interessi dei diversi attori in gioco non sempre vanno nella stessa direzione, mossi anche dalla paura, talvolta sinceramente comprensibile, di non poter eventualmente poi operare nel caso dell’insorgenza di problemi concreti.
Quanto sia difficile monitorare lo stato complessivo dell’ecosistema di un ambiente così ampio e diversificato come la foce del Po lo racconta, attraverso una ricerca molto corposa e strutturata Luca Alberghi, responsabile del Museo Natura, di proprietà del Comune di Ravenna, che si trova a Sant’Alberto di Ravenna. Ci arriviamo in una mattinata non proprio limpida di metà giugno. Il Museo è ospitato in una bella e ampia costruzione storica di mattoncini rossi e tende pure rosse, vicinissimo all’argine del fiume. In particolare, come ci spiega subito Alberghi, siamo a due passi dal dal cosiddetto Po di Primaro, il braccio più a sud del delta, l'alveo in cui oggi scorre il Reno e nel quale anticamente scorreva appunto il primo ramo del Po andando verso nord, da cui il nome.
Alberghi, un appassionato ingegnere ambientale, ha condiviso con noi il report della ricerca, frutto di una serie di studi conoscitivi prodotti a fine 2023 dalla Cooperativa Atlantide, che ha in gestione il Museo e per la quale lui lavora. La ricerca, di cui Alberghi è co-autore assieme a colleghi con altre competenze specifiche, valuta la qualità e la consistenza dei servizi ecosistemici della zona della foce del Po a nord di Ravenna. Un lavoro corposo che fa anche una sorta di quantificazione economica del valore ecologico dei bacini di questa zona, per dare ai legislatori e al direttore del Parco strumenti utili a prendere decisioni sulla gestione di questi stessi ecosistemi. Insomma, in un certo senso, è proprio la ricerca che Mancin si augurava venisse fatta, per decidere quali siano le strategie più efficaci, anche dal punto di vista economico oltre che ambientale. Ma lo stesso Alberghi ammette che quando poi si arriva al momento dei calcoli spesso mancano i dati. “In particolare”, ci spiega, “mancano quelli del passato, anche se non sono disponibili nemmeno tutti i dati relativi alla situazione presente. In generale, nello studio di fiumi grandi che coinvolgono tanti ecosistemi interconnessi è difficilissimo creare algoritmi che riescano a considerare tutti i dati e gli aspetti di contesto.”
Al di là di ricerche così complesse, però, ci sono anche elementi molto concreti che dimostrano l’impatto dello stato di salute dell’ambiente, in questo caso quello delle acque, sulle attività del territorio. Anche quelle che tutti, qui, citano come le più favorite dall’esistenza del Parco, e cioè le attività turistiche. “Per noi, la presenza o meno dell'acqua nel fiume Reno, e quindi la siccità o la piena, implica che il traghetto che è qui a circa un chilometro da noi e che noi usiamo quotidianamente per portare i turisti in escursione, può chiudere. Succede dunque che dalla sera alla mattina scopriamo che non si può passare al di là del fiume e dobbiamo riprogrammare tutto.” Certo, non un danno immenso se confrontato con gli effetti di una siccità o un’inondazione sulle realtà produttive e sulla vita del territorio in termini di rischi a medio e lungo termine. Ma comunque una difficoltà a portare avanti un'attività che sta diventando sempre più richiesta, sempre più popolare, e che costituisce per questo territorio una valida forma di economia locale.
L’istituzione del Parco ha sollevato forti proteste. Non aiuta il fatto che questo sia un parco particolarmente complesso, che coinvolge nove comuni di un territorio ampio, includendo molti ambienti diversi, dalle zone umide alle pinete, ai corridoi ecologici lungo i fiumi fino alle parti più strettamente litoranee e marittime. Ci sono le città, le zone densamente abitate, quelle disabitate e quelle industriali, così come aree prettamente balneari come la costa romagnola. Soprattutto, è un parco nel quale la presenza umana risale a migliaia di anni fa e che ha visto molte trasformazioni del territorio anche pesanti, come le opere di bonifica, ed anche per questo ha la qualifica di MAB, man and the biosphere programme, riconosciuta dall’Unesco proprio a indicare l’intreccio della dimensione naturale con quella antropica, anche nelle sue dimensioni urbane e industriali. Infine, questo è un parco interregionale, tra Veneto ed Emilia-Romagna, e ha dunque diversi vertici non sempre con un orientamento politico unanime. E infatti per ora manca un'identità forte, anche se il progetto e l’ambizione di chi lo dirige è quella di renderlo riconoscibile e apprezzato come altre grandi zone umide europee, come ad esempio la Camargue, spesso indicata come riferimento di una realtà che ha trovato un modello di gestione che funziona.
Rimane indubbio il fatto che il territorio del Parco e le sue attività, pur parlando di turismo dolce e non di massa, sono fortemente influenzate dall’acqua. Nel 2022, con la siccità, “abbiamo chiuso le attività perché non potevamo attraversare il fiume” continua Alberghi, “Molte delle nostre attività estive prevedono il passaggio sul traghetto, e abbiamo dunque dovuto cambiare le nostre proposte, spostandoci in altre sedi, portando le nostre biciclette e binocoli e tutto il necessario per fare birdwatching, proponendo escursioni nelle pinete ravennati, più ombrose e gestibili.” Anche se, aggiunge Alberghi, la zona in cui ci troviamo non ha visto i peggiori effetti della siccità, rispetto a quella a nord del fiume, dove invece era molto evidente. Qui nei decenni passati sono state fatte molte bonifiche e diversi impianti, il livello delle acque è tenuto alto in maniera indotta. “Certo”, conclude, “visitare le zone umide quando il caldo eccessivo le fa evaporare ha un impatto negativo quanto meno sulla percezione di chi viene qui, in larga parte turisti stranieri, che arrivano soprattutto dal nord Europa.” Ma anche l’alluvione ha avutp impatti forti sulle attività del museo. Nella primavera del 2023, il museo è stato risparmiato dalla piena, anche se spinti dalla paura e da quello che stava succedendo nelle zone contigue della Romagna, lui e i suoi collaboratori hanno lavorato freneticamente per spostare in poche ore tutti i materiali del museo al secondo piano. Ma sono state le attività didattiche a rimanere completamente chiuse dalla metà di maggio alla fine di giugno, una perdita netta anche per il bilancio del museo.
Attrezzature storiche nel Septem Maria Museum (Foto di Elisabetta Tola)
Un passato di grandi opere, un futuro incerto
Dalle finestre si vede il tratto di canale dove l’acqua è talmente ferma da sembrare un fermo-immagine. Nella grande sala occupata dalle turbine l’aria odora di antico e di storia. Siamo al Septem Maria Museum, un piccolo museo nel comune di Adria, in provincia di Rovigo, realizzato all’interno di un’idrovora costruita durante gli anni della bonifica. Alle pareti, foto di uomini nel fango fino alle ginocchia che scavano i canali per liberare la terra dall’acqua e creare nuovi campi da coltivare. Ma sono i motori e le tecnologie di inizio Novecento che hanno reso possibile trasformare fino in fondo questo territorio. Uno sforzo che ha visto la tecnica, la scienza e la pianificazione pubblica confrontarsi per costruire un’idea di futuro. Non importa se quel futuro oggi ci sembra ancora desiderabile o meno: troppo facile giudicare con il senno del poi.
Oggi sembra di essere a un bivio della storia simile a quello di cento e passa anni fa. Abbiamo conoscenze e capacità tecniche per provare risolvere i problemi: mettere in sicurezza argini e territori, valutare attentamente la qualità e la quantità di acqua dei bacini acquiferi, migliorare le tecniche di coltivazione, fare scelte in termini di consumi e mercato. Ma per immaginare il prossimo futuro, qui nel delta del Po come in tanti altri luoghi, serve il contributo determinante e coraggioso della politica. Che per ora, però, non si vede.
Credits
Il progetto di inchiesta "Under the Surface" è stato lanciato da Datadista e coordinato da Arena for Journalism in Europe. Si tratta di una collaborazione internazionale tra Le Monde (Francia), Datadista (Spagna), Reporters United (Grecia), De Standaard (Belgio), Dagbladet Information (Danimarca), Facta (Italia) e Investico (Paesi Bassi).
Il consorzio europeo è inoltre composto da: Zeynep Sentek, Jelena Prtorić, Sarah Pilz, Ine Renson, Maxie Eckert, Ana Tudela, Antonio Delgado, Raphaëlle Aubert, Myrto Boutsi, e Léa Sanchez.
Lo slider con le immagini satellitari di questo episodio è a cura di Benedetta Pagni.
La foto di apertura è di Michele Lapini, quelle nel testo sono di Marco Boscolo ed Elisabetta Tola.
Tutte le storie pubblicate, anche negli altri paesi, puoi trovarle su: europeanwaters.eu
Questo articolo e gli altri della serie de Il Bo Live, così come una parte del lavoro di altri colleghi europei come descritto nel sito in inglese e nella metodologia, sono supportati da una grant di Journalismfund Europe.
Le puntate precedenti di questa serie puoi trovarle qui:
Under the surface, o dello stato di salute dei bacini idrici sotterranei europei
Under the surface: la crisi idrica del Po e il futuro che l’aspetta