SOCIETÀ

Unione Europea e governo cercano regole solo per chi fugge e immigra

L’Unione sta animatamente discutendo il prossimo Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo. I tempi saranno lunghi. La Commissione ha finalmente elaborato una proposta concreta e dettagliata, passeranno mesi (forse anni) prima che diventi operativo un sistema unitario di ingresso. Il processo è partito dalla comunicazione del 23 settembre 2020 della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, che fissa anche la tabella di marcia fino alla primavera 2021 e promette pure di affrontare in futuro, prima o poi, il fenomeno migratorio nel suo complesso. Per ora, tutto si concentra su asilo e rimpatri, considerati come “i processi chiave”, e dunque sulle procedure più efficienti per garantire responsabilità reciproche e tentare così di ripristinare la fiducia tra gli Stati membri (ora venuta a mancare) e di fornire nel contempo certezze ai richiedenti, anche di non poter entrare evidentemente. Il Regolamento di Dublino sembra che non vada bene più a nessuno, eppure stenta a emergere un’alternativa seria e condivisa. Al 3 ottobre la nuova proposta non ha ricevuto grandi consensi, sono arrivate critiche di segno opposto, sia dal mondo associativo che si occupa di accoglienza che dagli Stati che non vogliono accogliere proprio nessuno. Tanto meno hanno avuto successo o consenso europeo le politiche nazionali dei porti chiusi e delle prove di forza per la redistribuzione (come nei casi Diciotti e Gregoretti), pur avendo causato naufragi e disastri, disagi e insicurezza.

Il governo e presto il parlamento italiano stanno animatamente discutendo un testo di decreto in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, nonché in materia di diritto penale, che sostituisca (in tutto o in parte) i due decreti già convertiti in legge durante questa legislatura, quando erano diverse la maggioranza parlamentare e il ministro dell’interno, arbitrariamente definiti con il sostantivo sicurezza. Sembra che ci sarà una stretta in Consiglio dei ministri proprio fra il 3 e il 5 ottobre, nei giorni in cui ricorre il settimo anniversario del naufragio a poche miglia dal porto di Lampedusa, che provocò la morte di almeno 368 donne uomini bambini, e inizia l’udienza preliminare sul divieto di sbarco ad Augusta, ritenuto da molti irregolare, imposto dal ministro dell’interno ai 135 migranti che erano a bordo della nave della Guardia Costiera italiana Gregoretti nel luglio 2019. Passeranno comunque poi due mesi prima del voto parlamentare di conversione su un testo identico in entrambi i rami del Parlamento e ulteriori mesi prima che l’eventuale nuovo sistema adottato diventi operativo per tutte le istituzioni nazionali, regionali e locali coinvolte. Intanto, continueranno purtroppo le morti nel Mediterraneo.

L’animata discussione in corso è caratterizzata da alcuni vizi di sostanza e di forma, ne segnalo tre. Le regole da rivedere non riguardano i flussi migratori nel loro insieme. Si è scelto di concentrare l’attenzione soltanto su una piccola parte delle immigrazioni forzate verso l’Europa e l’Italia. Implicitamente si ritiene che gli unici che avrebbero forse possibilità di ingresso sono i “perseguitati” per le note ragioni previste dalla Convenzione Onu di Ginevra: coloro che risiedono in un paese terribilmente attraversato dalla guerra civile (come la Siria) o discriminati in patria con motivazioni connesse alle opinioni politiche, alla “razza”, alla religione, all’identità personale (e sessuale). In questa condizioni si trovano nel 2019 meno di 30 milioni di persone, secondo l’annuale rapporto dello specifico Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr), ne abbiamo più volte commentato i dati. La maggior parte di loro hanno lo status di refugees già da un decennio, assistiti già riconosciuti o in attesa di riconoscimento nei paesi limitrofi, in campi profughi, in centri di accoglienza, senza alcuna prospettiva di inserimento sociale, spesso apolidi. Secondo quello stesso rapporto nel 2019 ve ne erano altri 50 milioni egualmente definibili profughi, interni e internazionali, con identico diritto all’assistenza, senza alcuna possibilità di riconoscimento di status. Se anche si volesse davvero accelerare e semplificare le procedure per l’asilo, Unione Europea e governi nazionali sarebbero ancora molto lontani dall’aver seriamente affrontato l’urgenza di prevenire, limitare, gestire le migrazioni forzate contemporanee. 

In nessuna epoca in nessun paese le uniche immigrazioni sono mai state solo quelle forzate. Se nel 2019 nel mondo vi erano circa 80 milioni di migranti forzati, il numero di donne e uomini residenti da almeno un anno in un luogo diverso (rispetto al proprio nel passato) erano circa un miliardo, un quarto migranti internazionali. La proporzione fra emigrazioni (e poi immigrazioni) un poco più libere ed emigrazioni (e poi, immigrazioni) forzate è più di 90 a meno di 10. Non è una novità, nella storia moderna e contemporanea è sempre stato così. E probabilmente era all’incirca così anche prima, da migliaia di anni a questa parte. La pandemia Covid-19 sta certamente riducendo movimenti e migrazioni fisiche nel 2020. Tuttavia, pure in prospettiva, gli equilibri demografici, economici, culturali, lavorativi e sociali di ogni nazione dipendono dai flussi più liberi, in uscita e in ingresso. Da troppo tempo, l’Europa e l’Italia non affrontano in modo serio e coordinato le procedure per un’immigrazione ordinata, regolare, organizzata, attivando servizi e mercati (del lavoro, innanzitutto) che sarebbero poi forse anche utili per chi ha ottenuto l’asilo politico. 

Il vizio formale più grave riguarda comunque proprio il diritto d’asilo. Su questa materia la Costituzione italiana è violata, poco conosciuta e niente rispettata. L’articolo 10 recita così: “L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (primo comma). La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici.” Il terzo comma prevede pertanto che esista una legge per fissare le condizioni del “diritto d’asilo”, indicando che potrebbe averne diritto l’immigrato in Italia tutte le volte che nel paese d’emigrazione non possa esercitare le stesse “libertà democratiche garantite” dalla nostra Costituzione. Questa legge non è mai stata approvata, nulla è in vigore a riguardo. Non è colpa degli attuali deputati, senatori, ministri. Tuttavia, se gli attuali ministri, senatori, deputati vogliono occuparsi di asilo e rimpatri prima dovrebbero discutere e approvare la legge sul diritto d’asilo. Altrimenti, possono solo conformarsi strettamente alla Convenzione Onu ratificata dall’Italia, che impone di esaminare caso per caso e individualmente ogni richiesta, nel territorio d’arrivo.

La questione della ripartizione dei rifugiati che richiedono il relativo status, degli altri profughi e di tutti i migranti, una volta garantiti l’esame personale e l’assistenza minima, avrebbe poi davvero bisogno di una politica immigratoria europea, al cui interno operare coordinamento e ripartizioni. Certo è che il sistema attuale per l’immigrazione e l’asilo in Europa non funziona. La proposta recente della Commissione propone un brutto teorico Burden Sharing per i rimpatri, non si parla più invece dei ricollocamenti obbligatori ipotizzati (giustamente) quattro anni fa (e nel 2017 dal parlamento europeo). Mi permetto di ricordare allora un altro schema di equilibrati intelligenti obblighi complessivi e reciproci adottato dall’Europa alla metà degli anni novanta, aggiornato meno di dieci anni fa. Negoziando, votando e firmando il Protocollo di Kyoto del dicembre 1997 la Comunità Europea si impegnò ad abbattere, nel periodo 2008-2012, le emissioni rispetto ai livelli del 1990 raggiungendo, appunto, un accordo sulla ripartizione degli oneri tra i vari Paesi membri (Burden Sharing Agreement). 

In un’Unione la solidarietà e la responsabilità non possono essere flessibili, solo reciproche. I 15 paesi dell’Unione Europea degli anni novanta si impegnarono a ridurre complessivamente le emissioni di gas serra dell’8% sotto il livello del 1990, ognuno assumendosi per sé una percentuale diversa dall’altro (qualcuno come il Portogallo poteva addirittura aumentarle, essendo meno sviluppato). Per l’Italia prevedeva una riduzione del 6,5%, che faceva “media” con le altre e garantiva il risultato finale. Nell'ambito di quell’impegno collettivo ciascuno Stato membro dell'UE-15 doveva cioè realizzare un proprio specifico obiettivo di taglio nazionale delle emissioni che, ai sensi del diritto comunitario, era vincolante. Quando nel 2009 fu fissato il famoso successivo obiettivo del 20/20/20 (20% di riduzione di gas serra, 20% di energia da rinnovabili, entrambi entro il 2020, ovvero ora), quel Burden Sharing fu modificato nelle quantità ma non nella struttura, anzi ne fu esteso l’ambito di applicazione. E ha funzionato.

Rimandiamo a una successiva occasione l’esame della proposta e delle alternative per il futuro Patto europeo e la valutazione di merito delle modifiche alla normativa italiana. Come sempre bisognerà esprimere un giudizio di fondo sull’impostazione istituzionale e sulla sostanza civile (per ora negativo), ma anche entrare nel dettaglio. Per esempio, a livello comunitario sembra che, per i ricollocamenti, si voglia finalmente tener conto dei familiari presenti in uno Stato membro allargando il concetto di famiglia anche ai fratelli, alle sorelle e alle famiglie che si sono costituite durante in viaggio verso l’Europa, mentre prima non era così. Tuttavia, la questione essenziale assente dall’attuale animata discussione è come davvero affrontare il fenomeno migratorio in tutti i versi e in tutti i significati. Non si può sapere prima quanti immigrati arriveranno, non si può sapere prima il numero di rifugiati e profughi, né la rotta precisa che seguiranno o il primo paese europeo d’ingresso. Tuttavia, si può decidere prima come tutta l’Europa democratica può convivere con la loro presenza, può rispettare i loro diritti e i propri principi di accoglienza e solidarietà, può metterli alla prova delle nostre regole e della nostra ricettività. Del resto, in Italia, in Europa e in ogni anfratto del mondo sono ormai in vigore da quasi due anni i due Global Compact, For Migration e On Refugees. Basterebbe leggerli. 

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