SOCIETÀ

L’acqua radioattiva di Fukushima deve preoccupare davvero?

A 10 anni dal disastro non si smorza l’inquietudine intorno alla centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi. Stavolta l’attenzione si concentra sulla questione dell’acqua contaminata, quella che cioè è venuta in contatto con il materiale radioattivo all’interno dei reattori. Nel corso degli anni si sono infatti accumulate circa 1,25 milioni di tonnellate – si è continuato ad utilizzare l’acqua per il raffreddamento, questa inoltre continua in parte a penetrare dalla falda sottostante – che attualmente sono stoccate in oltre mille depositi via via dislocati intorno all’impianto.

Lo spazio disponibile è però attualmente in via di esaurimento, quindi sia le autorità che la Tepco (Tokyo Electric Power Company, proprietaria della centrale e responsabile della bonifica) negli ultimi anni hanno iniziato a ventilare sempre più spesso la possibilità che l’acqua potesse essere rilasciata nell’ambiente, finché nei giorni scorsi è stato annunciato che sarà scaricata gradualmente in mare. La decisione, nonostante sia stata approvata dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA) delle Nazioni Unite, ha subito scatenato reazioni in tutto il mondo ai più diversi livelli. Greenpeace parla apertamente di “violazione dei diritti umani e del diritto marittimo”, mentre alla protesta della Cina – tradizionale avversario di Tokyo nell’area – si sono aggiunti anche governi alleati come Corea del Sud e Taiwan. C’è inoltre la preoccupazione dei pescatori giapponesi, che si sentono danneggiati da un decennio di esposizione mediatica indesiderata.

Dall’altra parte si controbatte che i rischi per la salute delle persone e dell’ecosistema sono limitati, se non addirittura inesistenti. Innanzitutto perché l’acqua di cui si parla è infatti già stata trattata con un pionieristico procedimento di filtraggio che trattiene la maggior parte degli elementi radiottivi più pericolosi, a partire dal cesio-137. Tra quelli che però sfuggono rimane soprattutto il trizio, un isotopo dell’idrogeno (ha due neutroni anziché uno solo) che, legato all’ossigeno in modo da formare la cosiddetta “acqua superpesante” (THO invece di H2O), diventa praticamente indistinguibile e inseparabile dall’acqua normale. Si tratta di un elemento dalla debole radioattività, già sfruttata industrialmente per costruire lampadine e orologi, che non riesce a oltrepassare nemmeno la pelle umana ma che può invece entrare ed accumularsi nell’organismo attraverso l’apparato digerente.

Di versare le acque in mare si parla almeno dal 2013: certo la tempistica e la strategia di comunicazione scelte dal governo giapponese sono abbastanza tafazziane, a soli 100 giorni da quelle che sono state definite Olimpiadi zombie”. A parlare è Marco Casolino, fisico, primo ricercatore presso l’Infn e docente all’università di Roma Tor Vergata. Esperto di radiazioni e collaboratore del centro di ricerca Riken, Casolino era in Giappone nel 2011 durante i giorni del disastro di Fukushima e ha partecipato alle indagini sulle fuoriuscite radioattive.

Recentemente lo studioso ha dedicato un articolo alla questione, in cui con una serie di operazioni prova a dare un’idea dell’impatto dello sversamento sugli equilibri ambientali dell’Oceano Pacifico, il quale contiene circa 660 milioni di chilometri cubi di acqua, poco più della metà di tutti gli oceani messi insieme. Il dato di base è che il mare possiede già di per sé una certa radioattività per la presenza di isotopi come potassio-40 e carbonio-14, e questa sarebbe aumentata in maniera solo infinitesimale (nell’ordine dei decimi di milionesimo) dallo sversamento: purché questo ovviamente venga eseguito a regola d’arte, ovvero gradualmente e in più punti tramite l’ausilio di navi, tenendo conto della profondità e delle correnti.

Il video mandato in onda sulle tv giapponesi

Un’alterazione quasi omeopatica, peraltro in linea con quanto accade già senza clamori in altre centrali nucleari disseminate nel mondo, che non dovrebbe mutare sensibilmente gli equilibri ambientali. Proprio la diluizione del trizio, scrive Casolino in un altro articolo, è anzi la migliore garanzia contro la sua pericolosità. È infatti pericoloso anche mantenere la situazione attuale, come invece chiederebbe Greenpeace, nella speranza che il decadimento naturale della radioattività (che nel trizio si dimezza ogni 12 anni) contribuisca perlomeno a mitigare il problema. Attualmente infatti i depositi di acqua contaminata sono esposti alle intemperie e soprattutto a fenomeni naturali estremi come uragani e terremoti (che in Giappone non mancano, come è noto).

Questo ovviamente non significa che le preoccupazioni ambientali siano del tutto ingiustificate: la fiducia dei giapponesi, tradizionalmente ossequiosi nei confronti dell’autorità, è già stata messa a dura prova dalla condotta dei politici e della Tepco. Da questo punto di vista la strategia scelta per comunicare la decisione – con tanto di scelta di una mascotte – appare ingenua se non addirittura autolesionistica. C’è infine il timore atavico verso la radioattività, particolarmente forte in Giappone – unico Paese al mondo ad aver sperimentato gli effetti di esplosioni atomiche sulla popolazione. Un mito negativo che continua ad aleggiare nell’immaginario collettivo nipponico: da Godzilla ad Akira, il manga/anime concepito dal genio di Katsuhiro Otomo. Il quale, guarda caso, è ambientato proprio in una Tokyo che attende i giochi olimpici…

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