SOCIETÀ

Alleati e Shoah: ambiguità e silenzi

Gli alleati cominciarono a ricevere le prime notizie circa la persecuzione nei confronti degli ebrei tra il 1940 e il 1941, in particolare tramite il governo polacco in esilio a Londra che manteneva contatti con il territorio occupato; queste informazioni sarebbero divenute più chiare e dettagliate tra il 1942 e il 1943. In generale vi fu la tendenza a prestare fede solo in maniera limitata a tali notizie, a volte in mala fede a causa di radicati pregiudizi antisemiti, in altri casi perché i responsabili alleati si mostrarono distratti dagli eventi bellici e preoccupati soprattutto dei propri militari e delle proprie popolazioni. Persino però in coloro che si mostravano sensibili alla persecuzione contro gli ebrei per molto tempo sembrò persistere un sentimento di incredulità riguardo l’enormità dei fatti riferiti. Significativa è la testimonianza rilasciata anni più tardi dallo storico inglese Hugh Trevor Roper, operante durante il conflitto nei servizi segreti britannici. Ha scritto Trevor Roper: “Ricordo bene il momento in cui per la prima volta vidi la prova – un frammento di prova – circa lo sterminio degli ebrei. Una prova esplicita, fattuale, documentata. Ma era possibile prestarvi fede? Tra l’arrivo di una prova e il credere nelle sue conclusioni esiste un divario psicologico; e in tempo di guerra quando ogni cosa è incerta – quando l’ostilità fa nascere la passione e la passione è sfruttata dalla propaganda – è prudente sospendere il giudizio. Ricordo che io stesso sospesi il mio giudizio e solo gradualmente, molti mesi dopo, trassi da quella terribile prova la conclusione che ne discendeva”. Altrettanto importante è quanto scritto dall’intellettuale di origine ungherese Arthur Koestler, che durante il conflitto lavorò per il Ministero inglese dell’Informazione: “Da tre anni tenevo conferenze alle truppe (alleate) e il loro atteggiamento era sempre lo stesso. Non credevano ai campi di concentramento, non credevano ai bambini affamati in Grecia, alle fucilazioni di massa di ostaggi in Francia, alle fosse comuni in Polonia; non avevano mai sentito parlare di Lidice, di Treblinka o di Belzec: potevi convincerli per un’ora, dopo di che si scuotevano, la loro autodifesa mentale cominciava ad agire e in una settimana l’incredulità tornava a prevalere come un riflesso temporaneamente attenuato da uno shock”.

Quanto alla possibilità che gli Alleati mettessero in opera qualche iniziativa per contrastare l’attuazione della “soluzione finale”, è probabile che quando ci si rese conto dell’enormità di ciò che stava avvenendo non molto potesse essere fatto per ragioni oggettive di natura militare. Nonostante questo va notato come non fu neppure compiuto alcun serio tentativo in tale direzione, ad esempio bombardando le linee ferroviarie che conducevano ad Auschwitz, mentre in effetti si procedette a colpire gli impianti industriali situati nei pressi del lager. È d’altronde innegabile che un’azione incisiva avrebbe potuto portare a salvare migliaia di ebrei nelle fasi iniziali del conflitto: a maggior ragione nella seconda metà degli anni ’30, quando migliaia di ebrei furono costretti a lasciare la Germania e l’Austria e il loro rifugiarsi in nazioni quali la Francia o la Cecoslovacchia avrebbe solo ritardato la loro deportazione verso i campi di concentramento. Ma questa opzione si era scontrata, da un lato, con l’isolazionismo americano e con la politica di chiusura dei flussi migratori, dall’altro con la determinazione britannica a impedire il trasferimento di numeri consistenti di ebrei nel Mandato della Palestina.

La “Shoah” e lo scarso impegno, o se si preferisce l’incapacità degli anglo-americani nell’attuare una qualsiasi efficace azione mirante a salvare gli ebrei europei dallo sterminio avrebbero avuto importanti conseguenze nell’immediato dopoguerra. Per gli ebrei sopravvissuti, come è ovvio con eccezioni a seconda delle realtà dei vari Paesi europei, il periodo immediatamente successivo alla fine delle ostilità non fu esente da ulteriori vicende drammatiche: per molti di loro non vi era più un luogo ove ritornare e in alcuni casi i sentimenti antisemiti non erano scomparsi. Noto è l’episodio del pogrom anti-ebraico avvenuto nel luglio del 1946 nella cittadina di Kielce in Polonia, dove più di 40 ebrei sopravvissuti all’olocausto vennero uccisi da elementi della popolazione locale. La persecuzione nazista e questa difficile realtà del dopoguerra convinsero migliaia di ebrei che in Europa non vi fosse più speranza di vita e che quindi l’unica soluzione fosse il trasferimento in Palestina al fine di creare una patria ebraica. Il nuovo flusso migratorio si scontrò con l’ostilità della Gran Bretagna e le organizzazioni ebraiche in loco diedero avvio a una sanguinosa guerriglia contro le forze britanniche, conflitto che si aggiungeva agli scontri con la popolazione araba. L’azione contro militari inglesi da parte di gruppi armati ebraici si tradussero anche in episodi di particolare violenza come l’attentato al King David Hotel di Gerusalemme e l’uccisione di due soldati inglesi catturati, quale rappresaglia per l’impiccagione di alcuni militanti sionisti da parte britannica. L’uccisione dei due militi provocò in Gran Bretagna violente manifestazioni contro la comunità ebraica inglese. Nel frattempo l’Organizzazione delle Nazioni Unite cercava di elaborare un piano di partizione del mandato in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo, che venne però respinto dalla parte araba. Alla fine, come è noto, Londra decise di abbandonare il mandato in una situazione di caos e di violenza, mentre i leader della comunità ebraica davano origine allo Stato di Israele. Fra i governi che riconobbero immediatamente il nuovo Stato vi fu l’amministrazione americana. Il Presidente Truman, succeduto a Roosevelt nel 1945, ignorò i suggerimenti in senso contrario del Dipartimento di Stato, preoccupato per le reazioni dei Paesi arabi, con cui gli Stati Uniti ritenevano di dover mantenere buoni rapporti nel quadro della nascente guerra fredda e degli interessi economici legati allo sfruttamento delle risorse petrolifere presenti in alcuni di loro. È probabile che su Truman, che stava affrontando una difficile campagna elettorale, influisse la volontà di ottenere il consenso della comunità ebraica americana; non va però trascurato che sin dall’inizio del conflitto il neopresidente aveva espresso sentimenti di comprensione nei confronti degli ebrei perseguitati dal nazismo e che forse la sua decisione di riconoscere Israele fu anche una sorta di “riparazione” per quanto le democrazie occidentali non avevano fatto per impedire l’olocausto.

Per molti ebrei europei sopravvissuti alla “Shoah” la scelta della creazione di un proprio Stato in Palestina divenne così l’unica speranza, l’unico ideale in cui credere a cui si aggiunse la determinazione a non voler più subire passivamente e a non dipendere dalla buona disposizione di altri.

(Estratto dalla Lectio Magistralis in occasione della giornata della memoria 2021)           

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