SOCIETÀ

Amazon alla prova dei diritti dei lavoratori

Amazon alle prese con i sindacati. Ovvero l’azienda simbolo del business del ventunesimo secolo costretta a confrontarsi con organizzazioni che affondano le radici nella prima rivoluzione industriale. Succede negli Stati Uniti, dove dopo un tentativo fallito nel 2014 le unions cercano nuovamente di stabilirsi in uno dei centri logistici del secondo più grande datore di lavoro del Paese (oltre 800 mila dipendenti in costante turnover). Lunedì 29 marzo presso l’enorme magazzino di Bessemer, vicino a Birmingham in Alabama, si è chiusa la votazione con cui 5.800 lavoratori si sono pronunciati sulla possibilità di introdurre una rappresentanza sindacale all’interno del BHM1: questo il nome del deposito aperto appena un anno fa.

Non si tratta di un passaggio da poco ed entrambe le parti dimostrano di averlo capito bene. Da un lato c’è la Rwdsu, sindacato da oltre 80 anni attivo nel settore commercio, dall’altro l’azienda di Seattle che usa tutte le strategie a disposizione, con l’aiuto di un’agenzia specializzata nel contrastare le organizzazioni dei lavoratori (eh sì, negli Usa esistono anche queste realtà, così come quelle che operano da consulenti dei sindacati). Qualcuno parla di pressioni da parte della dirigenza sugli impiegati e addirittura sulle autorità locali per un cambio della viabilità, in modo da sfavorire gli assembramenti e la comunicazione tra i lavoratori all’uscita dai turni, ma l’aggressiva campagna di Amazon si concentra soprattutto sul portafoglio. “Hey, perché pagare quasi 500 dollari di quote sindacali? – è scritto sul sito predisposto dall’azienda – Ti diamo salari elevati, assistenza sanitaria, cure dentali e oculistiche, un comitato per la sicurezza e procedure di ricorso. Se vince il sì, ti toglieranno i contributi direttamente dallo stipendio”. Il messaggio conclusivo è: “Vota adesso e vota NO”.

In realtà molti lavoratori hanno qualche dubbio che ad Amazon si stia poi così tanto bene. Come è noto, nella distribuzione del lavoro e degli incentivi gioca un ruolo essenziale il costante tracciamento digitale dei dipendenti: se vai in bagno, fai una piccola pausa o semplicemente scambi un saluto con un collega – lamentano alcuni dipendenti – le tue statistiche peggiorano e possono arrivare i richiami, mettendo a rischio il rinnovo del contratto. Inoltre durante l’ultimo anno di pandemia Amazon ha fatto affari d’oro, rendendo il fondatore Jeff Bezos l’uomo più ricco del mondo con un patrimonio di circa 70 miliardi di dollari: quanta parte di questa pioggia di denaro, si chiedono in molti, tornerà ai lavoratori in termini di benefici economici e benessere lavorativo? Alle critiche il colosso del commercio on line risponde di aver aumentato già nel 2018 la paga minima a 15 dollari orari, supportandone addirittura l’estensione a livello federale. Un occhiolino alla nuova amministrazione democratica, che però non intenerisce più di tanto Joe Biden: “Mettiamo le cose in chiaro: non spetta a me decidere se una persona deve unirsi a un sindacato, ma nemmeno alle imprese – ha detto il neopresidente in un video diffuso via Twitter –. Spetta solo ai lavoratori, punto e basta”.

La mossa del presidente è ovviamente appoggiata dalla sinistra del partito democratico, ma non solo. “Amazon negli ultimi anni ha fatto guerra ai valori della classe lavoratrice americana”, ha scritto il senatore Marco Rubio: non può quindi aspettarsi alcun sostegno nemmeno dall’opposizione repubblicana al Congresso. Intanto anche star di Hollywood e dello sport appoggiano il referendum, ma la questione principale è se prima o poi la vicenda riuscirà a fare breccia anche nell’attenzione del grande pubblico dei consumatori, a cui l’azienda guarda da sempre con grande attenzione. “Si tratta di un tema molto importante anche dal punto di vista della comunicazione – spiega Marco Bettiol, docente di management all’università di Padova –. Oggi viene messa in discussione non solo la reputazione dell’azienda ma anche il suo modello di funzionamento. Sarà interessante capire quali saranno le ripercussioni sull’opinione dei consumatori, che poi siamo noi”.

In questi anni abbiamo imparato ad amare gli incredibili servizi di Amazon senza porci troppo il problema della loro sostenibilità dal punto di vista ambientale e sociale – continua lo studioso –. Oggi che emerge una sorta di dark side, ci si può chiedere se il suo impatto sarà simile alla crisi che ad esempio ha coinvolto Nike qualche anno fa, a proposito dei palloni cuciti dai bambini. Allora lo scandalo fu grande e oggi soprattutto i grandi brand della moda sono molto più attenti alle condizioni di lavoro presso i loro fornitori: impongono il rispetto di una serie di protocolli perché sanno che su questo punto i consumatori sono molto più sensibili di un tempo”. Proprio Nike ad esempio ha aderito da tempo alla Fair Labor Association, organismo internazionale diretto a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori nel mondo, mentre dal punto di vista della sostenibilità ambientale l’azienda sportiva dichiara che il 75% dei suoi prodotti è fatto a partire dal recupero dei materiali dalle stesse sneaker usate. Oggi bisogna vedere se siamo di fronte all’inizio di un percorso del genere, ma molto appunto dipenderà dall’unica cosa che davvero interessa alle aziende: la risposta dei consumatori. “Qualità del servizio e sindacalizzazione dei lavoratori non sono antitetiche – conclude Bettiol –. Amazon si definisce per l’appunto una azienda customer centric: non dimentichiamo che il loro obiettivo è accontentarci. E in fondo tutti noi siamo a nostra volta lavoratori”.

Abbiamo imparato ad amare i servizi di Amazon senza porci il problema della loro sostenibilità ambientale e sociale Marco Bettiol

La partita che si sta giocando in effetti va molto al di là di un magazzino in Alabama: coinvolge tutti ed è destinata ad avere ripercussioni importanti anche sul nostro modo di vivere e di lavorare. Per le sue caratteristiche infatti Amazon è a metà strada tra new e old economy, internet e logistica, posti di lavoro pagati bene e la massa di posizioni low skilled. La logistica una volta era un comparto abbastanza specializzato e relativamente favorevole ai lavoratori: proprio il fenomeno del commercio su internet, con i nuovi canoni imposti proprio da Amazon, ha radicalmente rivoluzionato il settore, comportando tra le altre cose un aumento dei ritmi e la diminuzione degli stipendi in un mondo in cui tutti sono abituati ad avere consegne teoricamente gratis e in giornata. Da questo punto di vista proprio una progressiva sindacalizzazione del gigante di Seattle potrebbe essere un segnale non solo per tutto il settore commercio on line. Del resto anche nella Silicon Valley le unions iniziano faticosamente a farsi strada: è dell’anno scorso la notizia che, al termine di una lunga battaglia e proprio in seguito a una votazione analoga a quella appena conclusa, anche la piattaforma di crowdfunding Kickstarter ha dovuto ammettere una rappresentanza sindacale all’interno dell’azienda.

E in Europa? Nel vecchio continente la situazione è molto diversa: sindacati e lavoratori hanno maggiori tutele legali (in Italia ad esempio c'è lo Statuto dei lavoratori), c'è un tasso maggiore di sindacalizzazione e i lavoratori sono rappresentati da grosse confederazioni trasversali ai diversi settori economici, solitamente molto più potenti rispetto alle unions di stampo anglosassone. Eppure anche qui le difficoltà non mancano: così in occasione del black friday dello scorso novembre ci sono stati scioperi negli stabilimenti tedeschi di Amazon, mentre in Italia qualche giorno fa per la prima volta hanno incrociato le braccia gli appartenenti a tutta la filiera: dagli addetti agli hub e alle consegne ai driver, circa 30-40 mila lavoratori in tutta Italia. Un intero nuovo comparto che cerca un nuovo equilibrio tra aspettative sempre più alte dei consumatori e diritti dei lavoratori. In attesa anche che arrivi un segnale dall’Alabama, possibilmente positivo.

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