SCIENZA E RICERCA
Amazzonia: sul rilascio di anidride carbonica il degrado forestale incide più della deforestazione
In Brasile, nell’ultimo decennio, la foresta amazzonica ha rilasciato più anidride carbonica di quanta ne abbia assorbito: dal 2010 al 2019, il bacino amazzonico brasiliano ha emesso 16,6 miliardi di tonnellate di CO2, mentre ne ha assorbite 13,9 miliardi. Ciò significa che l’Amazzonia ha perso parte della sua biomassa e, stando ai risultati di uno studio pubblicato recentemente su Nature Climate Change, questo è dovuto molto più al degrado forestale – determinato sia dall'attività umana che dal cambiamento climatico – che alla deforestazione. Proprio per questo, osservano i ricercatori, il degrado delle foreste dovrebbe diventare una priorità nelle politiche, nella conservazione e nella gestione della foresta amazzonica.
“Lo studio conferma preoccupazioni che avevamo già da diversi anni – sottolinea Tommaso Anfodillo, professore del dipartimento di Territorio e sistemi agro-forestali dell’università di Padova –. È un’indagine condotta con tecniche di telerilevamento, su ampie superfici, e veicola un messaggio fondamentale: la foresta pluviale è sottoposta a stress climatici, cioè a un aumento della temperatura e a una diminuzione delle precipitazioni, che portano alla morte gli alberi più grandi. Si assiste cioè a un impoverimento di biomassa complessiva della foresta che viene detto degradazione. Questo porta a un’emissione di anidride carbonica superiore agli assorbimenti che la foresta in genere ha”. Anfodillo sottolinea che non si tratta, tuttavia, di risultati del tutto nuovi.
Uno studio coordinato dall’università di Leeds, pubblicato su Nature a marzo dello scorso anno, per esempio, ha evidenziato in Africa e in Amazzonia una tendenza al ribasso della capacità di assorbimento di carbonio delle foreste tropicali intatte, cioè non interessate da disboscamenti e incendi, che deriva in particolare dalla mortalità degli alberi. Negli anni Novanta le foreste tropicali intatte hanno rimosso il 17% delle emissioni antropogeniche di anidride carbonica, valore che è sceso però al 6% negli anni 2010, e questo anche perché l'area forestale è diminuita del 19% e le emissioni di CO2 sono invece aumentate del 46%. I ricercatori, nel paper pubblicato qualche mese fa, sottolineano che, sebbene le foreste tropicali siano più immediatamente minacciate dalla deforestazione e dal degrado, e il futuro bilancio del carbonio dipenda anche dalle dinamiche delle foreste secondarie e dai piani di riforestazione, sono pure influenzate dalla chimica atmosferica e dai cambiamenti climatici.
“La foresta – continua Anfodillo – viene in genere definita il nostro ‘polmone verde’, in grado cioè di assorbire attivamente anidride carbonica dall’atmosfera liberandoci in qualche modo dal giogo dell’effetto serra, ma in realtà non è proprio così. Se andiamo a vedere cosa succede dal punto di vista della fisiologia del sistema, dobbiamo ammettere che in moltissimi casi ci siamo ormai resi conto che la foresta pluviale non è un attivo assorbitore di anidride carbonica. La foresta deve essere pensata come un sistema integrato, un ecosistema, un'entità unica che scambia con l'atmosfera anidride carbonica, acqua e così via. La crescita di questo sistema è condizionata dalle risorse esistenti”. La foresta adeguerà la propria struttura, le proprie foglie alla quantità di pioggia che cade in un anno per esempio (ma le variabili sono anche altre).
Intervista completa a Tommaso Anfodillo del dipartimento di Territorio e sistemi agro-forestali dell’università di Padova. Montaggio di Elisa Speronello
“In genere queste foreste pluviali sono foreste ‘vetuste’, arrivate a una condizione di equilibrio, in cui tutte le risorse che ci sono vengono impiegate. Si deve ammettere però che essendo le risorse finite, anche la crescita della foresta è finita, cioè il sistema non può crescere indefinitamente. Se invece si definisce la foresta un polmone verde, si ammette che vi sia una crescita indefinita, cioè che la foresta cresca sempre, perché il carbonio da qualche parte dovrà andare, cosa che invece non è. È difficile pensare che un sistema cresca indefinitamente, se le risorse sono finite. Questo è un punto chiave. Temo che scaricare sulla foresta la capacità di assorbire indefinitamente anidride carbonica, voglia in qualche modo liberarci dalla responsabilità di ridurre le emissioni, che è invece il concetto fondamentale che dobbiamo acquisire”.
Lo studio recentemente pubblicato su Nature Climate Change, mette in evidenza che l’anidride carbonica rilasciata a causa del degrado della foresta pluviale è tre volte maggiore rispetto alla quantità di CO2 emessa invece per cause legate alla deforestazione che nel 2019, secondo i risultati raggiunti, è aumentata di circa quattro volte rispetto ai due anni precedenti (3,9 milioni di ettari rispetto a circa 1 milione all'anno nel 2017 e 2018) “Lo studio – argomenta Anfodillo – suggerisce l'idea che la degradazione, cioè quella mortalità di cui si parlava che interessa maggiormente le piante più grandi, sia diffusa in tutte le foreste, mentre la deforestazione pur gravissima è localizzata a piccolissime parti, rispetto a tutto il bacino delle foreste pluviali. Esiste dunque un fenomeno di entità relativamente modesta (la degradazione), diffuso però su tutta l'area della foresta pluviale, e un fenomeno estremamente incisivo, molto grave, localizzato però su un’area molto piccola. A dominare è quello su ampia superficie e questo ci deve preoccupare, perché se tale mortalità diffusa è causata, come pensiamo, dall'aumento dell'anidride carbonica, cioè dall’aumento della temperatura e dall'aumento del deficit della pressione di vapore, della richiesta evaporativa dell'atmosfera, questo fenomeno continuerà nel tempo”.
Se la temperatura aumenta, osserva il docente, se le condizioni evaporative diventano più severe e le risorse diminuiscono, continua la degradazione, l’abbassamento medio della massa complessiva delle foreste e dunque si assisterà a un’emissione di carbonio. “Ciò che preoccupa è che con l'aumento della temperatura certe foreste anziché diventare assorbitori netti diventano emettitori netti di anidride carbonica, aggravando ulteriormente lo stato della CO2 in atmosfera”.
Negli ultimi quarant’anni il Brasile ha assunto posizioni non sempre incisive nella tutela delle sue foreste: dopo un periodo caratterizzato da un significativo impegno in questa direzione, gli ultimi anni sono stati infatti caratterizzati da un’inversione di tendenza. “Esistono dei resoconti tecnici molto approfonditi, e anche un lavoro pubblicato dai colleghi brasiliani, che hanno reso evidente come le politiche dell'attuale presidente Bolsonaro siano state terrificanti dal punto di vista della riduzione della superficie forestale in Brasile”. L’articolo citato dal docente, pubblicato su Nature Ecology & Evolution, parte da una premessa, ricordando che nel 2012 il Brasile è riuscito a ridurre i tassi di deforestazione in Amazzonia dell’84% (4.571 chilometri quadrati) rispetto al picco storico del 2004, anno in cui furono abbattuti invece 27.772 chilometri quadrati di foreste. Questo fu il risultato di molte iniziative governative e in particolare dell’Action Plan for the Prevention and Control of Deforestation in the Legal Amazon (PPCDAm) lanciato nel 2004, oltre che di pressioni internazionali. Qualche anno dopo, nel 2009, sulla base della National Policy on Climate Change (Política Nacional sobre Mudança do Clima), adottata per definire un piano di riduzione dei gas serra, il Brasile si impegnava a ridurre il tasso di deforestazione in Amazzonia dell’80% entro il 2020, che significava perdere al massimo 3.925 chilometri quadrati di foresta (rispetto ai 19.625 chilometri quadrati che rappresentano la media del periodo 1996-2005). Dal 2013, invece, i tassi di deforestazione hanno avuto una tendenza al rialzo con un peggioramento negli ultimi due anni, sottolinea il gruppo di ricercatori coordinato da Celso H. L. Silva Junior. Nel 2019, infatti, sono stati disboscati 10.129 chilometri quadrati di foresta, con un aumento del 34% rispetto al 2018 (7.536 chilometri quadrati). Nel 2020 è stata stimata una deforestazione di 11.088 chilometri quadrati basata sul 45% dell'area monitorata dal Brazilian Amazon Deforestation Monitoring Program (Prodes). Questo, sottolineano gli scienziati, rappresenta un aumento rispettivamente del 47% e del 9,5% rispetto al 2018 e al 2019 ed è il tasso più alto degli ultimi dieci anni. Il tasso di deforestazione del 2020 dunque è superiore del 182% rispetto all'obiettivo stabilito di 3.925 chilometri quadrati e rappresenta una riduzione solo del 44% invece dell'80% stabilito. E questo significa 648 milioni di tonnellate di anidride carbonica emesse nell'atmosfera legati alla deforestazione. In questo modo gli obiettivi di riduzione dei gas serra son stati compromessi, senza contare che l’aumento della deforestazione ha intensificato gli incendi. A incidere su questo trend sono state, secondo gli autori, le controverse modifiche al Brazilian First Code nel 2012, il recente indebolimento delle azioni di contrasto alla deforestazione da parte del Ministero dell’Ambiente, l’inosservanza delle politiche relative ai cambiamenti climatici.
“Certamente – sottolinea Anfodillo – c'è una responsabilità anche dei governi, tuttavia non dobbiamo colpevolizzare solo le amministrazioni locali o nazionali. Tutti dobbiamo farci carico di questi sistemi nel senso che, se lo riteniamo un bene comune, dobbiamo partecipare alla loro difesa”. E conclude: “Se vogliamo preservare le foreste pluviali anche i governi europei devono sostenere queste politiche, innanzitutto investendo risorse per la tutela: non dobbiamo lasciare soli questi popoli a risolvere un problema così grande”.