SCIENZA E RICERCA

Andamento della pandemia in Africa: un dibattito aperto

“Covid-19 ha avuto un impatto devastante a Lusaka. Nel complesso, solo circa il 10% di coloro che sono morti con Covid-19 sono stati identificati in vita. Considerando i recenti rapporti che rilevano una sottostima dei casi di Covid-19 in altri contesti, riteniamo che i nostri risultati siano tipici, piuttosto che eccezionali. Pertanto, concludiamo nuovamente che l’impatto di Covid-19 in tutta l’Africa sia stato ampiamente sottostimato”. A proporre queste considerazioni sono gli autori di uno studio, condotto in Zambia e coordinato da Christopher J. Gill della Boston University School of Public Health nel Massachusetts, i cui risultati sono stati recentemente pubblicati in un articolo (pre-print) dal titolo Sustained high prevalence of COVID-19 deaths from a systematic post-mortem study in Lusaka, Zambia: one year later.  

L’indagine, condotta come vedremo su più di 1.100 defunti della città, aggiunge un tassello alla comprensione di quello che è stato definito il “paradosso africano”: la pandemia cioè – stando ai dati ufficiali – non ha avuto l’andamento atteso in un continente con popolazioni in alcuni casi estremamente povere e vulnerabili, e il numero di casi e decessi sembra non essere stato (e non essere) così elevato se paragonato anche al resto del mondo. Fin dall’inizio, le ragioni addotte sono state varie: si è guardato innanzitutto alla struttura demografica delle comunità africane, composte in prevalenza da persone giovani; alla minore densità di popolazione e quindi alla minore probabilità che il virus determinasse catene di contagio come avviene in aree densamente popolate. Si è ritenuto che abbiano potuto incidere anche il clima e la minore mobilità degli africani rispetto ad altre parti del mondo, con una conseguente minore circolazione del virus. Alcuni hanno ipotizzato che le popolazioni africane possano essere meno vulnerabili grazie alla genetica.

Se queste erano alcune delle considerazioni che venivano avanzate, fin da subito si è cominciato a ragionare anche su altri aspetti. Su questo giornale, in un articolo di marzo 2020, Pietro Greco rifletteva innanzitutto sulla credibilità dei dati relativi alla diffusione di Sars-CoV-2 nel continente africano, su cui poi si è tornato a più riprese: “Forse il numero di contagiati è maggiore – addirittura enormemente maggiore – ma nessuno li ha contabilizzati. Perché in Africa la verifica del contagio – a partire dal famoso tampone – non è organizzata come nell’Asia sud-orientale, in Europa e in Nord America”. 

E proprio per far fronte a questo problema, nell’aprile del 2020 gli Africa Centres for Disease Control and Prevention (Africa CDC), lanciavano la Partnership to Accelerate Covid-19 Testing (Pact) e grazie a questa iniziativa, riportava Science, i test aumentarono rapidamente passando da circa 600.000 mensili ad aprile a circa 3,5 milioni mensili a novembre 2020. Nonostante i provvedimenti presi, i numeri non eguagliano tuttavia quelli di altri Paesi: dall’inizio della pandemia ad ottobre 2021, stando ai dati riferiti dall’Organizzazione mondiale della Sanità, sono stati eseguiti in Africa più di 70 milioni di test (su un continente di circa 1,3 miliardi di persone). Negli Stati Uniti, che contano circa un terzo della popolazione africana, sono stati somministrati oltre 550 milioni di tamponi nello stesso periodo, e oltre 280 milioni nel Regno Unito, dove la popolazione è meno del 10% di quella africana. “La maggior parte dei test viene effettuata su persone con sintomi – dichiarava qualche mese fa Matshidiso Moeti, direttore regionale dell'Oms per l’Africa –, ma gran parte della trasmissione è trainata da persone asintomatiche, quindi ciò che vediamo potrebbe essere solo la punta dell’iceberg”.

Altri poi facevano notare l’assenza di un buon sistema di registrazione dei decessi in Africa, sostenendo che – mentre la pandemia incalzava – nella maggioranza dei Paesi africani, gran parte dei decessi non sarebbero stati registrati formalmente.

Intanto, già nel 2020, cominciavano a comparire studi che lasciavano supporre un andamento diverso della pandemia nella popolazione rispetto ai dati ufficiali. Uno studio coordinato da Sophie Uyoga sulla presenza di anticorpi contro Sars-CoV-2 in 3.098 donatori di sangue in Kenya, per esempio, riferiva che alla fine di luglio 2020, nel Paese, erano stati segnalati solo 341 decessi e circa 20.000 casi di Covid-19. Gli scienziati, nel gruppo preso in esame (sebbene non rappresentativo dell’intera popolazione), avevano rilevato una sieroprevalenza del 4,3% e questo si traduceva in circa 2,2 milioni di infezioni possibili rispetto alle 77.585 segnalate nel Paese al 23 novembre 2020. Allo stesso modo, nell'ottobre 2020, il Mozambico segnalava meno di 3.000 casi confermati di Covid-19; tuttavia, indagini sierologiche avevano rilevato che il 5% delle famiglie nella città di Nampula e il 2,5% delle famiglie nella città di Pemba erano state esposte al virus. E questo, secondo gli autori, avrebbe suggerito che le infezioni potevano essere più di quelle registrate. Come vedremo, anche altri studi di sieroprevalenza più recenti vanno nella stessa direzione.

E arriviamo allo studio (clinico) condotto a Lusaka, in Zambia, nel maggiore ospedale della città, dal gruppo coordinato da Christopher J. Gill. I ricercatori hanno condotto le analisi sui defunti dell’obitorio dell'University Teaching Hospital, il più grande della città, che rappresenta l’80% dei decessi certificati. I cadaveri erano deceduti da non più di 48 ore, dato che la degradazione dell’Rna virale avrebbe potuto portare a falsi negativi. Le indagini sono state svolte in più momenti. In una prima fase – che ha avuto luogo da giugno a settembre 2020 – gli scienziati hanno preso in esame un gruppo iniziale di 372 defunti sui quali hanno eseguito tamponi molecolari (su 364 si sono ottenuti risultati validi): ebbene, tra questi una percentuale compresa circa tra il 15 e il 19% (a seconda del valore di CT - Cycle Threshold) è risultata positiva a Sars-Cov-2. I risultati di questo primo studio sono stati pubblicati lo scorso anno sul British Medical Journal e già mettevano in evidenza una sottostima dei casi di Covid-19 nel Paese africano.

Successivamente, i ricercatori hanno voluto aumentare il campione: tra gennaio e giugno 2021, dunque, hanno condotto le indagini su una coorte di 1.118 defunti di età compresa tra i pochi mesi e i 102 anni. Nello stesso periodo di tempo nel registro ufficiale di Lusaka sono stati riportati 6.270 decessi, pertanto il campione rappresentava il 17,8% di tutte le morti di quel periodo. Come in precedenza, su tutti i cadaveri sono stati condotti tamponi molecolari e, sul totale, 1.116 sono risultati validi. Nel 32% dei casi (media ponderata) il test è risultato positivo, all’incirca il doppio di quanto osservato nel corso del primo studio. Gli adulti positivi a Sars-CoV-2 di età superiore ai 19 anni rappresentavano l'86,2% dei decessi (media ponderata) e i ragazzi da 0 a 19 anni il 14,9%. Nel complesso, il 78,1% dei cadaveri con un test positivo aveva un’età inferiore ai 60 anni.

Durante la seconda e terza ondata, rilevano gli scienziati, il numero di morti positivi a Sars-CoV-2 è aumentato in modo esplosivo. Durante la seconda ondata, nei mesi di gennaio e febbraio del 2021, era dominante la variante Beta; nella terza ondata, da maggio a giugno del 2021, la variante Delta è stata preponderante. Ebbene, a gennaio il numero di persone decedute positive a Covid-19 ha raggiunto una prevalenza del 91,7%, dell’83,8% a giugno.

I ricercatori hanno rilevato, inoltre, che la maggioranza dei defunti positivi a Sars-CoV-2 presentava una sindrome clinica che implicava Covid-19 come causa di morte (circa il 74%). I ricercatori ammettono, tuttavia, che su queste valutazioni potrebbe aver pesato la completezza dei dati clinici sui decessi in ospedale e, per le morti avvenute al di fuori delle strutture sanitarie, delle cure mediche (in comunità), l’accuratezza del ricordo dei sintomi da parte di persone vicine ai defunti, prive quindi di competenze mediche.

La maggior parte dei decessi, presi nella loro totalità, si è riscontrata al di fuori delle strutture sanitarie (nel 73% dei casi, media ponderata). E lo stesso è avvenuto per chi era positivo a Covid-19: a ogni decesso in ospedale, scrivono gli autori, corrispondevano quattro morti in comunità. L’impatto della pandemia si è dunque avvertito maggiormente nei quartieri più densamente popolati di Lusaka, dove risiedono i cittadini più poveri e vulnerabili, che hanno meno risorse per proteggersi  e per i quali l’accesso alle cure è difficile.

Rispetto al primo studio condotto nel 2020, gli scienziati hanno rilevato un aumento nel numero di test eseguiti, tuttavia con qualche precisazione. Nel corso del primo studio, è stato verificato che i test per valutare la positività o meno a Sars-Cov-2 venivano condotti raramente sui pazienti in vita: solo nel 10% delle persone decedute negli ospedali e mai nella maggioranza delle persone morte senza ricorrere a cure mediche. Nella seconda fase dello studio (da gennaio a giugno 2021), il numero di test eseguiti è aumentato nelle strutture sanitarie e circa la metà dei pazienti è stato sottoposto a tampone ante-mortem (in gran parte però test rapidi antigenici). Nei casi invece di pazienti deceduti al di fuori delle strutture sanitarie, i ricercatori riferiscono invece che i test in vita sono stati eseguiti in meno del 2% dei casi, e questa potrebbe essere la ragione di una sottostima dei decessi per Covid-19.

“Questo secondo ciclo di sorveglianza post-mortem per Covid-19 rafforza ed espande le nostre precedenti osservazioni. In primo luogo, Covid-19 ha avuto un grave impatto a Lusaka causando molte perdite di vite umane. In secondo luogo, i decessi erano fortemente concentrati in comunità (cioè al di fuori delle cure mediche), dove i test per Covid-19 erano sostanzialmente assenti. Ancora, i decessi di persone positive a Covid-19 erano distribuiti ampiamente su tutte le età, non interessavano dunque principalmente gli anziani, e la maggior parte (circa l’80%) erano individui di età inferiore ai 60 anni. Infine, la malattia è stata frequentemente identificata nei bambini. Tra coloro con meno di 5 anni, erano comuni i disturbi gastrointestinali e relativamente poco comuni invece i sintomi respiratori. Infine, l’emergere delle varianti Beta e Delta ha coinciso con marcati aumenti nella proporzione dei decessi di persone risultate positive a Covid-19, raggiungendo una prevalenza di circa il 90% durante i periodi di picco”.  

Anche questo studio supporta, dunque, alcune delle indagini (ed ipotesi) precedenti secondo cui i casi e i decessi in Africa sarebbero maggiori rispetto a quanto riferito dai dati ufficiali. Anche l’Organizzazione mondiale della Sanità riporta dati che vanno in questa direzione.

Un articolo pubblicato su The Lancet Respiratory Medicine, riferisce che al 10 ottobre 2021, l’Africa aveva registrato circa 8,4 milioni di infezioni da Sars-CoV-2, e 217.000 morti. L'Oms ha calcolato, però, che sei infezioni su sette allora non fossero identificate e che due morti su tre per Covid-19 non venissero registrate nel continente. L’individuazione di Covid-19 in Africa si è concentrata essenzialmente sulle persone che si rivolgevano alle strutture sanitarie con sintomi, riporta l’Oms, e sui viaggiatori internazionali in arrivo e in partenza, ma questo ha portato a una sottonotifica su larga scala, se si considera come si è detto l’elevato numero di asintomatici nel continente.

Più recentemente, all’inizio di Aprile, ancora l’Oms riferisce i risultati di una meta-analisi che ha preso in esame gli studi di sieroprevalenza – utili a fornire dati sulle infezioni asintomatiche – in Africa tra gennaio 2020 e dicembre 2021 (Sars-CoV-2 infection in Africa: A systematic review and meta-analysis of standardised seroprevalence studies, from January 2020 to December 2021, pre-print). Gli autori del paper rilevano nel continente africano un’elevata sieroprevalenza che suggerisce un’esposizione della popolazione a Sars-CoV-2 maggiore rispetto a quanto indicato dai dati di sorveglianza. In questo caso l’analisi ha rivelato che il vero numero di infezioni potrebbe essere fino a 97 volte superiore al numero di casi confermati riportati. L’esposizione a Sars-CoV-2 è salita dal 3% nel giugno del 2020 al 65% a settembre del 2021. Lo studio ha mostrato che le infezioni sono aumentate bruscamente dopo l’emergere delle varianti Beta e Delta. 

“Questa analisi – ha osservato ancora Matshidiso Moeti – dimostra che gli attuali casi confermati di Covid-19 sono solo una frazione del numero effettivo di infezioni nel continente. Questo sottoconteggio si sta verificando in tutto il mondo e non è una sorpresa che i numeri siano particolarmente elevati in Africa, dove ci sono così tanti asintomatici”. Secondo l’Oms l’Africa ha avuto infatti casi di Covid-19 più lievi rispetto ad altre parti del mondo, perché c’è una proporzione relativamente minore di persone con fattori di rischio come il diabete, l'ipertensione e altre malattie croniche associate a casi e morti più gravi. E anche la giovate età della popolazione è un fattore protettivo. 

“L’analisi della sieroprevalenza – conclude Matshidiso Moeti – mostra quanto il virus continui a circolare, in particolare con nuove varianti altamente trasmissibili. Non può essere messo da parte il rischio che emergano varianti più letali che ‘bucano’ l'immunità acquisita dalle infezioni passate. La vaccinazione rimane un’arma fondamentale nella lotta contro Covid-19”.

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