SOCIETÀ
Biden, Trump e i Global Compact sulle migrazioni: quali future decisioni?
Il 3 dicembre 2017, quando era presidente in carica da meno di un anno, Donald Trump decise di ritirarsi dal negoziato per i due Global compact, paralleli patti delle nazioni unite per migliorare la gestione mondiale dei flussi di migranti e rifugiati, discussi poi fino alla successiva estate e infine approvati a dicembre 2018. Quel giorno la missione degli Stati Uniti presso l'Onu informò il segretario generale che avrebbero concluso ogni partecipazione al Global Compact for Migration. Le linee guida del progetto negoziale (approvato due volte all’unanimità dall’Onu nel settembre e nel dicembre 2016) vennero esplicitamente ritenute dal presidente americano "incompatibili" con la politica migratoria degli Usa. Intervenendo all’Assemblea Generale dell’Onu il 18 settembre 2018 Trump spiegò che non sarebbero in futuro tornati nella Commissione per i diritti umani, se non fosse stata riformata secondo le sue indicazioni e ribadì il rifiuto del Global compact on Migration, che avrebbe proposto una regolazione comune (e perciò inaccettabile) del fenomeno migratorio. Il presidente dell’Assemblea generale dell’Onu rispose con rammarico e garbo: "la migrazione è un fenomeno globale che richiede una risposta globale e il multilateralismo resta la strada migliore per affrontare le sfide globali". Tuttavia, nel novembre 2018 Trump ritirò comunque il suo paese anche dall’altro patto, il Global compact on Refugees.
Dai giorni successivi il partecipato voto di martedì 3 novembre 2020 c’è come noto un nuovo presidente eletto degli Usa, Joe Biden. La sua piena attivazione istituzionale è prevista per il prossimo 20 gennaio anche se, come formalmente previsto e come fatto da tutti i suoi predecessori, in vista dell’insediamento alla Casa Bianca ha già promosso i primi atti di rilievo nazionale (soprattutto rispetto alla lotta alla pandemia, sottovalutata e sbagliata da Trump). Ha anche sentito capi di stato e di governo di altri paesi, pur se ovviamente non ha ancora pieni poteri di politica internazionale e dovrà prepararsi a intelligenti compromessi interni se vorrà davvero lottare contro le riconosciute iniquità sociali e razziali. Sul Global Compact for Migration, Trump ebbe un seguito limitato, ma significativo.
Dopo gli Usa a fine 2017, furono registrate nel 2018 altre critiche a altre defezioni rispetto al patto. Il 13 luglio l’Ungheria di Orban si schierò contro definendolo “una minaccia al mondo dal momento che potrebbe ispirare milioni di migranti”. Seguirono altri paesi del gruppo di Visegrad: Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia, Polonia; poi Austria, Bulgaria, Croazia, Israele, Cile e Australia e pochi altri paesi si sfilarono dal negoziato. Svizzera e Italia annunciarono che avrebbero voluto attendere un pronunciamento del Parlamento che però non fu chiesto dal governo prima dell’adozione definitiva. L’Italia così semplicemente non assegnò un voto favorevole all’accordo che aveva negoziato nei minimi particolari. A differenza di Trump (e di pochi altri capi dell’esecutivo) il governo Conte non si è mai ritirato dal negoziato (abbiamo qui tutto raccontato). Successivamente all’adozione, altri paesi (come il Brasile di Bolsonaro nel gennaio 2019) si sono espressi contro il patto.
Sappiamo, per antica consolidata esperienza, che la politica estera americana non sempre cambia radicalmente fra un repubblicano e un democratico, fra un presidente e il suo successore. La politica di superpotenza militare-industriale è stata spesso bipartisan. Gli analisti stanno molto riflettendo e discutendo sulle possibili continuità o svolte rispetto all’Europa e ai vari continenti e rispetto alle molteplici urgenze delle più o meno conflittuali relazioni economiche, commerciali e militari in tante aree. Sembra abbastanza unanime la valutazione che non proseguirà la scelta di abbandono delle sedi multilaterali e, in particolare, delle strutture e dei meccanismi dell’Onu. Trump fece uscire il suo paese dal negoziato climatico e soprattutto dall’Accordo di Parigi (pur essendo gli Usa i principali emettitori di gas serra e inquinatori dell’aria del Novecento) e dalla cooperazione globale sulla sanità, soprattutto dall’OMS in piena pandemia da Covid-19 (pur avendo manifestato gli Usa limiti ed errori nella gestione della malattia). Nel programma elettorale di Biden c’è, anzi, il ritorno immediato in entrambi i luoghi multilaterali di incontro e di indirizzo.
Gli Stati Uniti di Trump negli scorsi quattro anni sono usciti anche dall’Unesco e hanno espresso dubbi su quasi tutte le articolate attività dell’Onu, ancor più “urlati” rispetto alla tradizionale diffidenza americana verso istituzioni multilaterali. Vedremo cosa accadrà nel prossimo quadriennio. Per le migrazioni il negoziato è sostanzialmente terminato, non esiste una vera e propria struttura importante dove tornare. Il Global Compact on Migration fu firmato da 164 paesi e poi adottato con 152 voti a favore, 5 contro (Repubblica Ceca, Ungheria, Israele, Polonia, Stati Uniti), 12 astensioni e 24 non partecipanti al voto assembleare, fra cui appunto l’Italia che, però, votò a favore dell’altro patto. I due Global Compact sono comunque entrambi già in vigore, ovunque, per tutti. Il primo patto auspica reciproci flussi sicuri, ordinati e regolari; il secondo affronta il dramma delle vittime di migrazioni forzate.
Nessuno dei due patti è vincolante e su quello relativo ai rifugiati ci sono (vincolanti) altre convenzioni e accordi internazionali. Il primo patto affronta pochi generali principi per negoziare alcune delle questioni controverse sulle migrazioni, come le cause profonde del mancato “diritto di restare” e della decisione di partire, i pericoli che le persone affrontano nel loro viaggio e il trattamento dei migranti alle frontiere. L’ovvio punto di vista è, in sostanza, che le sfide dei flussi non possono essere affrontate da un solo paese, con l’ottica di ciascuno chiuso dentro i propri confini e capace di vedere solo emigrazioni, mai immigrazioni. Il testo favorisce emigrazioni e immigrazioni ordinate, regolari e sicure, almeno d’ora in avanti, un patto pacifico e libero fra gli umani, non giuridicamente vincolante per i singoli Stati. Chi non lo rispetta favorisce flussi disordinati, irregolari, pericolosi proprio perché non tiene conto del punto di vista degli individui, delle comunità, dei popoli e degli Stati che gli stanno intorno, più o meno lontano. Rispetto ai flussi non si può fare a meno di reciprocità, altrimenti ci sono e ci saranno ancor più insicurezza, imposizioni, sopraffazioni, deportazioni, schiavitù, conflitti, guerre.
Il Global Compact for Migration cerca, inoltre (come riconosciuto anche in un documento del Congresso americano redatto durante la presidenza Trump), di evidenziare e ottimizzare gli aspetti economici e i vantaggi della migrazione, affrontando le sfide per comunità e individui nei paesi di origine, transito e destinazione, per ridurre al minimo la migrazione irregolare o illegale. Sottolinea la necessità della creazione di mobilità nel mercato del lavoro, bilaterale, regionale e multilaterale; favorisce accordi per comparare i dati statistici e demografici, tenendo conto della condizione vulnerabile dei migranti, pur riconoscendo che ogni Stato può e deve valutare autonomamente le proprie normative sull'ingresso e sugli eventuali visti, o rafforzare la gestione delle frontiere. Nel testo finale il patto elenca 23 obiettivi specifici di identificazione, documentazione e informazione, comunque non vincolanti.
Tra un paio di mesi dovrebbe entrare in carica il 46° Presidente americano Biden e gli Usa dovrebbero subito rientrare nei vari meccanismi e accordi internazionali. Sarebbe interessante che i paesi che due anni fa seguirono Trump rivalutassero ora le loro posizioni, anche l’Italia, anche sui Global Compact. Basterebbe un atto di indirizzo politico parlamentare, quello votato a inizio 2019 fuori tempo massimo (l’adozione Onu ormai c’era già stata) ebbe una maggioranza di astenuti e contrari. I gruppi dell’attuale maggioranza parlamentare allora non votarono la risoluzione proposta e avrebbero ormai tempo e modo di coordinarsi con la linea del governo sia alla Camera che al Senato. Si potrebbe pensare almeno a una mozione che affronti anche altre questioni in sospeso, successivamente da definire con legge, come ad esempio: le coniugazioni innovative, giuste e aggiornate in materia di cittadinanza (vi sono iter legislativi da accelerare e coordinare e oltre un milione di “italiani” che aspettano); la normativa prevista dall’articolo 10 della Costituzione per il diritto d’asilo, attesa da 72 anni; la prima verifica della normativa che ha sostituito parte dei decreti del precedente governo che tanta “insicurezza” avevano generato, in particolare rispetto al tema dei soccorsi in mare, tragicamente attuale.
Negli ultimi sei anni, dal 2014 al 2020, sono morte nel Mediterraneo, a causa delle omissioni di soccorso anche e soprattutto europee, oltre 20.000 persone, donne uomini bambine bambini, di cui quasi 15.000 nella rotta dal Nord Africa all’Italia. Youssef non aspetta più, ha vissuto solo poche settimane con la mamma cittadina della Guinea, è stato seppellito a Lampedusa in una bara da adulto. Mercoledì 11 novembre 2020 Youssef è morto affogato, un piccolo compianto sapiens di sei mesi. Disperazione, commozione e compassione sono dovute. Non bastano. E l’indifferenza diventa, quella sì, riprovevole. Dobbiamo comprendere che non si può considerare sbagliata, irregolare e censurabile ogni possibile partenza dalle coste del Nord Africa, visto che non ci sono tragitti regolari e corridoi umanitari (unici modi di sconfiggere davvero gli scafisti criminali); che chi riesce a montare su una precaria imbarcazione (abbia o meno diritto allo “status” di rifugiato) ha comunque già molto pagato con denaro, detenzione e sofferenze, ha subito ricatti e pagato riscatti; che chi non parte alla ventura rischia tuttavia di morire comunque (in patria, nel deserto o nei paesi africani costieri); che noi paesi emettitori di gas serra e inquinatori dell’aria non facciamo nulla per le conseguenze insostenibili (anche migratorie forzate) in Africa (e altrove) del nostro modo di produrre e consumare.