MONDO SALUTE

Brasile e India davanti alla drammatica recrudescenza della pandemia

All’inizio di maggio, nel consueto punto stampa, Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità, evidenziava che nelle due settimane precedenti erano stati segnalati più casi di Covid-19 che nei primi sei mesi della pandemia e, in questo andamento, influiva evidentemente la situazione pandemica in Brasile e in India, travolti - negli ultimi mesi - da una drammatica recrudescenza delle infezioni da Sars-CoV-2.

Qualche dato può aiutare a definire meglio il quadro della situazione. L’India al 18 maggio, secondo quando riportato da Our Worl in Data, conta complessivamente 25,5 milioni di casi di infezione da Sars-CoV-2 confermati; il numero di casi giornalieri ha avuto un’impennata a partire da febbraio, raggiungendo il picco di oltre 391.232 infezioni l’8 maggio. Negli ultimi giorni, le infezioni sono in diminuzione, e al 18 maggio si contano 307.913 casi confermati. Il numero totale di decessi è di 283.248, mentre le morti giornaliere sono 4.150.

Riportando i dati per il Brasile, invece, si dirà che il Paese, sempre secondo quanto riferisce Our World in Data, al 18 maggio conta un numero complessivo di infezioni confermate da Sars-Cov-2 di 15,73 milioni, mentre i casi giornalieri sono 64.304 (ancora in aumento nelle ultime settimane). I decessi complessivi confermati sono 439.050, mentre le morti giornaliere 1.930.

Stando a quanto riferisce Our World in data, nelle ultime due settimane (rispetto ai 14 giorni precedenti) in India si è assistito a una diminuzione dei casi confermati del 4%, mentre in Brasile a un aumento dell’8%. Le morti, invece, nelle ultime due settimane in India risultano aumentate di circa il 30% mentre in Brasile sono diminuite di circa il 18%.

Per analizzare la situazione dei due Paesi e cercare di capire quali possano essere stati i fattori che hanno determinato l’attuale crisi sanitaria, ci siamo rivolti a Gavino Maciocco, esperto di politiche sanitarie e salute globale e direttore scientifico della rivista Salute e Sviluppo di Medici con l’Africa – Cuamm

La diffusione del contagio

“Nei due Paesi – argomenta Maciocco – la situazione pandemica si è evoluta in maniera molto diversa. L’India è andata incontro a una prima ondata che ha avuto il suo culmine a metà dello scorso settembre, con livelli di diffusione e mortalità abbastanza contenuti, al punto che alla fine di gennaio, quando questa prima fase si stava esaurendo e la vaccinazione stava cominciando, si riteneva che la pandemia potesse essere tenuta sotto controllo. A questo punto però sono intervenute le scelte politiche del primo ministro Narendra Modi il quale, anziché vigilare sui comportamenti, ha concesso completa libertà di movimento nel corso di una serie di eventi che avrebbero creato affollamenti e quindi facilità di contatto”. In India infatti hanno avuto luogo le elezioni in cinque Stati, con la partecipazione di milioni di persone ai comizi e alle urne elettorali, e, in occasione della festa religiosa indù Kumbh Mela, centinaia di migliaia di persone si sono riversate nel Gange. Secondo quando riportato da Il Post, più di mille persone sono risultate positive nel corso dei controlli effettuati durante le celebrazioni. La situazione, pur drammatica, non ha fermato nemmeno la Indian Premier League, il campionato di cricket su cui hanno polemizzato in molti.

“Da metà aprile – continua Maciocco – l’andamento del contagio è esponenziale, si contano circa 400.000 casi al giorno e più di 4.000 morti, ma si tratta di dati assolutamente sottostimati, perché in India non esiste un sistema di monitoraggio appropriato e il sistema sanitario è assolutamente inadeguato e largamente privatizzato, con pochissimi posti negli ospedali e nelle terapie intensive. Nella prima ondata la pandemia si era concentrata principalmente nelle grandi città, dove si è potuto avere una risposta sanitaria maggiore grazie alla presenza di più ospedali e cliniche private. In questa seconda ondata invece le persone sono fuggite dalle città e hanno fatto ritorno nei propri villaggi confidando di trovare una forma di protezione maggiore, mentre in realtà le città periferiche e i villaggi indiani sono assolutamente disarmati di fronte a questo tipo di situazione (dal punto di vista dell’erogazione di ossigeno, per esempio) e tutto ciò ha contribuito a innalzare il livello di mortalità”.

Il BMJ riferisce che la prima ondata ha infettato fino al 50% degli abitanti nelle aree urbane; la seconda ondata, che sembra dunque diffondersi maggiormente nelle aree rurali, costringe invece le persone a spostarsi per raggiungere le cliniche più vicine. Nello Stato del Punjab i registri sanitari mostrano che oltre l’80% dei pazienti arrivano nelle cliniche in condizioni gravi anche a causa dei ritardi causati dal viaggio.

A differenza dell’India, in cui dunque la situazione sembra essere stata sotto controllo almeno fino all’inizio di quest’anno, in Brasile la crisi si protrae, costante, ormai da un anno a questa parte. I casi di Covid-19 e le morti continuano ad affliggere aree popolose come San Paolo e Minas Gerais, al punto che ormai quasi non sorprende l’andamento della pandemia nello stato sud-americano. “In Brasile il contagio ha avuto una diffusione massiccia a causa della politica di Jair Bolsonaro – sostiene Maciocco – che si è dimostrato fin da subito negazionista, sulla stessa linea del presidente americano Trump sia dal punto di vista politico che nell’atteggiamento nei confronti della pandemia”. Fin dall’inizio, infatti, il presidente ha respinto l’utilità delle misure di restrizione e di distanziamento sociale, promuovendo invece l’impiego della clorochina, un farmaco antimalarico, come trattamento contro Sars-CoV-2, di cui non è stata dimostrata l’efficacia. Insieme a Trump, Bolsonaro è stato uno dei maggiori fautori dell’impiego di questo medicinale. Jesem Orellana, epidemiologo della Oswaldo Cruz Foundation, dichiara a Nature che il più costoso dei suoi errori è stato proprio aver ignorato le strategie di contenimento della pandemia collaudate.

 

Le varianti del virus

“In Brasile quindi – osserva Gavino Maciocco – si è avuta una prima lunga ondata che in realtà non ha mai avuto una riduzione netta, quanto piuttosto una riaccensione (per questo si parla di seconda ondata), a partire da metà ottobre a causa delle varianti del virus”. Durante la pandemia, a partire da marzo 2020, il Brasile ha registrato una mortalità elevata. L'infezione da Sars-CoV-2 e la diffusione della malattia sono stati molto variabili in tutto il Paese. Lo Stato di Amazonas nel nord del Brasile viene indicato come la regione più colpita: si stima che a Manaus, la capitale, il 76% della popolazione sia stato infettato da Sars-CoV-2 tra aprile e ottobre del 2020. L’immunità sviluppata dagli abitanti, tuttavia, non è riuscita a fermare una seconda intensa ondata di contagi provocata in particolare dalla variante P1, tanto che le ospedalizzazioni a gennaio di quest’anno hanno superato quelle dello scorso aprile. La nuova variante è emersa a Manaus probabilmente intorno a novembre 2020 e da allora si è diffusa in altri Stati del Brasile e in altri Paesi in tutto il mondo. Uno studio, pubblicato recentemente su Science, stima che P1 sia tra 1,7 e 2,4 volte più trasmissibile.

Ma se le varianti costituiscono evidentemente un problema, Mauricio Nogueira, virologo della facoltà di Medicina a São José do Rio Preto, dichiara a Nature che i ricercatori in Brasile non sono in grado di studiarle adeguatamente, perché Bolsonaro ha tagliato i finanziamenti. “Non abbiamo fondi per fare ricerca di base, ad esempio per capire se le varianti siano più o meno virulente. Non abbiamo le attrezzature di laboratorio o i reagenti che servirebbero allo scopo”. Attualmente circolano in Brasile circa 90 varianti, che continuano a evolvere e l’incapacità di studiarle in modo adeguato minaccia la risposta del Paese alla pandemia e la capacità di recupero, specie se si considera che le varianti potrebbero influire sul grado di protezione dei vaccini contro Covid-19.

Anche in India gli scienziati stanno prestando attenzione a questi aspetti. Secondo quanto riferisce Nature, in poche settimane la variante B.1.617 è diventata il ceppo dominante in tutto il Paese e si è diffusa in circa 40 Nazioni tra cui Regno Unito, Fiji e Singapore. Ci sono evidenze secondo cui la variante individuata per la prima volta in India potrebbe essere più trasmissibile rispetto alle varianti esistenti e maggiormente capace di eludere l’immunità raggiunta con la vaccinazione o dopo aver contratto l’infezione. Inoltre studi su modelli animali suggerirebbero anche che potrebbe essere in grado di causare una forma di Covid-19 più grave. Tuttavia, gli studi sono ancora in corso e necessitano di essere approfonditi.

Fino a qualche settimana fa si riteneva che dietro all’impennata di contagi in India, ci fosse più di una variante: i dati genomici indicavano che B.1.1.7 (la cosiddetta variante inglese) era dominante a Delhi e nello Stato del Punjab, una nuova variante denominata B.1.618 circolava nel Bengala occidentale, mentre B.1.617 era dominante nel Maharashtra. Ben presto però, quest’ultima è diventata la variante principale in molti Stati e sta aumentando rapidamente a Delhi.

Questo, secondo alcuni, potrebbe indicare che la variante in questione sia altamente trasmissibile. Risultato a cui sembra giungere anche un’analisi genomica coordinata da Sarah Cherian dell’ICMR-National Institute of Virology di Pune (pubblicata in preprint). “La sua prevalenza – ha dichiarato a Nature Shahid Jameel, virologo della Ashoka University di Sonipat che presiede il gruppo consultivo scientifico dell’Indian Sars-CoV-2 Genome Sequencing Consortia (Insacog) – è aumentata rispetto ad altre varianti in gran parte dell’India, suggerendo che abbia una migliore adattabilità rispetto ad altre varianti”. I dati che via via si stanno accumulando su B.1.617 suggeriscono che questa variante abbia un vantaggio su quelle che già circolano in India: rilevata per la prima volta a ottobre, a gennaio era in aumento a Maharashtra e a metà febbraio qui rappresentava già il 60% dei casi. L’11 maggio la variante (di cui sono state finora identificate tre ‘sotto-varianti’ chiamate B.1.617.1, B.1.617.2 e B.1.617.3) è stata classificata “variant of concern” (variante di preoccupazione) dall’Organizzazione mondiale della Sanità, mentre l’Ecdc mantiene la classificazione di “variant of interest” (variante di interesse) e tiene monitorata la situazione.

 

La risposta dei sistemi sanitari

“L’India – continua Maciocco – è un sistema in cui soltanto il 5-10% della popolazione ha una copertura sanitaria pubblica, quindi i più ricchi si curano pagando, mentre i meno abbienti (la gran parte della popolazione) non hanno copertura sanitaria, e vanno in povertà se si ammalano”. In un approfondimento su Salute Internazionale, il docente sottolinea che l’India destina alla sanità poco più del 3% del PIL, una tra le percentuali più basse del mondo. Pure la percentuale della spesa sanitaria pubblica rispetto alla spesa pubblica totale è tra le più basse a livello globale: il 3,4% rispetto al 9,2% della Cina, al 13,3% del Sudafrica, al 13,4% dell’Italia, al 18,7% del Regno Unito e al 19,9% della Germania, stando ai dati riferiti. Il servizio sanitario pubblico in India è privo di risorse, dunque, e frequentato soprattutto dai più poveri. I servizi sanitari sono ampiamente privatizzati e ad essi si rivolge chi vuole ottenere prestazioni di qualità, con una spesa “out of pocket” per prestazioni sanitarie che rappresenta il 62,4% della spesa sanitaria totale. Maciocco sottolinea che, nel corso di questa seconda ondata, queste criticità sono emerse in modo evidente: gli ospedali sono saturi, ma senza attrezzature idonee, le strutture private (che invece le possiedono) sono accessibili solo a pagamento. Devi Prasad Shetty, cardiochirurgo e presidente della catena di centri specialistici Narayana Health, ha stimato che l’India avrebbe bisogno di circa 500.000 letti di terapia intensiva e 350.000 unità di personale medico in questo momento. Attualmente, invece, possiede solo 90.000 letti di terapia intensiva.

“Gli ospedali sono al collasso – racconta Rita Cenni, corrispondente Ansa da New Delhi, nel corso di un’intervista a Ispi-Istituto per gli studi di politica internazionale –. Gli ospedali pubblici, ma anche le cliniche private, in questo momento sono costrette a rifiutare gli ammalati e quelli che sono ammessi devono condividere i letti. Ci sono persone costrette a condividere un letto con uno o addirittura due pazienti. C’è l’emergenza cremazioni e l’emergenza cimiteri, perché oltre agli Indù in India ci sono anche musulmani e cristiani che stanno faticando in questi giorni a svolgere i riti funebri. Ed è veramente difficile anche trovare un pezzo di terra al cimitero. I neo-laureati che sono impiegati negli ospedali raccontano di sentirsi ormai carne da macello, perché svolgono turni interminabili di 16-18-20 ore. Mancano le cure e manca l’ossigeno”.

Gavino Maciocco sottolinea che la situazione in Brasile è diversa. “Qui, grazie al governo Lula, esiste un sistema sanitario molto attrezzato e universalistico, anche se con differenze tra ricchi e poveri, dato che i primi possiedono delle assicurazioni che garantiscono livelli di qualità maggiori. Tutti, però, hanno un livello di cure primarie garantito. La pandemia, tuttavia, ha saputo mettere in crisi anche questo sistema attrezzato (come del resto ha messo in crisi il nostro). A ciò si aggiunga l’aggravante delle disuguaglianze sociali che in Brasile sono molto più profonde rispetto alle nostre: la povertà, i livelli di affollamento, la mancanza di misure di protezione hanno inciso sul dilagare della pandemia”. Si deve tener presente che circa 13 milioni di brasiliani vivono nelle favelas, spesso con più di tre persone per stanza e con scarse possibilità di accesso all’acqua pulita. In questi ambienti è molto difficile osservare le regole di distanziamento fisico e le norme igieniche.

Davanti dell’aggravarsi della situazione il governo non è intervenuto in maniera incisiva: sono stati i singoli governatori o i sindaci delle città a introdurre provvedimenti per contenere il proliferare di Sars-CoV-2, generando peraltro conflitti tra il governo centrale e i governi periferici. Nel corso di trent’anni, sottolinea un gruppo di ricercatori su Science, il sistema sanitario brasiliano – universale, completo e gratuito – ha contribuito a ridurre le disuguaglianze nell’accesso all'assistenza sanitaria e ha facilitato la gestione di precedenti emergenze di salute pubblica, come la pandemia di Hiv/Aids. “Nonostante i recenti tagli al bilancio sanitario – argomentano gli scienziati –, ci si aspettava che il sistema sanitario del Brasile avrebbe messo il Paese nella condizione di poter contenere la pandemia di Covid-19. Con il coordinamento nazionale e attraverso una vasta rete di operatori sanitari di comunità, si sarebbero potute implementare azioni che tenessero conto delle disuguaglianze locali esistenti (ad esempio distribuzione regionale di medici e letti d'ospedale)”. Senza una strategia nazionale coordinata, invece, le risposte locali sono state varie per forma, intensità e durata e la pandemia ha colpito soprattutto i più vulnerabili. “Il Brasile – osservano gli autori – ha avuto una fase epidemica iniziale (dal 15 febbraio al 18 marzo 2020) con una circolazione limitata, preceduta da una circolazione non rilevata del virus. Mentre la diffusione iniziale è stata determinata dalle disuguaglianze socioeconomiche esistenti, la mancanza di una risposta coordinata, efficace ed equa, ha probabilmente alimentato la propagazione spaziale diffusa di Sars-CoV-2”.

Vaccinazioni e brevetti

L’India ha iniziato la sua campagna di vaccinazione a metà gennaio, con l’obiettivo di immunizzare 250 milioni di persone entro luglio (su una popolazione di circa un miliardo e 400 milioni di abitanti). Al 17 maggio 2021 però, stando ai dati forniti da Our World in data, il 10,4% della popolazione ha ricevuto almeno una dose di vaccino e solo il 3% è stato completamente vaccinato. L’esplosione della seconda ondata della pandemia ha influito sull’andamento della campagna vaccinale e difficilmente l’India riuscirà a raggiungere i risultati che si era prefissata. Dall’altra parte in Brasile, su circa 214 milioni di abitanti, al 17 maggio ha ricevuto almeno una dose di vaccino circa il 17% della popolazione, mentre circa l’8% è stato completamente vaccinato.

“Ciò che differenzia il Brasile dall’India – sottolinea Maciocco – è il comportamento nei confronti dei brevetti. L’India insieme al Sudafrica infatti è stato il Paese che per primo, già nell’ottobre dello scorso anno, ha lanciato la proposta di sospendere il brevetto sui vaccini, mentre il Brasile insieme agli Stati Uniti e all’Unione Europea si era posto contro questa proposta”. La richiesta è ancora in fase di discussione, con la novità che ora invece gli Stati Uniti, con un cambio di rotta, la stanno appoggiando e anche il Brasile sembra fare dei passi in questa direzione. Il Senato brasiliano, infatti, ha approvato un disegno di legge che consente la sospensione temporanea dei brevetti sui vaccini contro Covid-19 e ora il testo sarà discusso alla Camera dei Deputati.

Continua Maciocco: “Essendo il maggiore produttore di vaccini, l’India avrebbe tutti i vantaggi se venisse introdotta la licenza obbligatoria e se fosse aperto il mercato ai vaccini generici. Ora però lo Stato si trova in una situazione paradossale: proprio nelle vesti di grande produttore, aveva garantito una significativa quantità di vaccini ai Paesi esteri (non si dimentichi che l’India gioca un ruolo centrale nell’iniziatica Covax, ndr) ma in questo momento, con la crisi sanitaria in corso e l’enorme richiesta di vaccini all’interno del Paese, si è trovato a dover bloccare le esportazioni. Ed è in difficoltà a produrre la quantità di vaccino necessario per la popolazione, al punto da dover rivolgersi ad altre Nazioni”. 

Ma accanto alla scarsità di vaccini, per l’India c’è chi mette in luce anche problemi di altro tipo: “Penso che le nostre infrastrutture [sanitarie] al momento potrebbero non essere in grado di vaccinare abbastanza velocemente anche se ci fossero sufficienti forniture di vaccini – sottolinea l’epidemiologo V. Raman Kutty, secondo quanto ne riferisce il BMJ –. Il governo deve pianificare una vera campagna per immunizzare la maggior parte della popolazione nel più breve tempo possibile”.

 

Aiuti internazionali

Davanti alla crisi sanitaria di India e Brasile molti Stati non sono rimasti a guardare. Forniture mediche e ossigeno sono state inviate all’India da 15 Paesi (tra cui Pakistan e Bangladesh) e da organizzazioni umanitarie internazionali come l’Unicef. Un peso ha avuto anche la diaspora indiana che ha mobilitato gruppi di studenti e organizzazioni non governative di tutto il mondo: Indiaspora, una organizzazione non profit, ha annunciato di aver raccolto un milione di dollari in sole 48 ore, mentre GoFundMe ha riferito che 60.000 donatori da 106 Paesi hanno contribuito alla raccolta fondi relativa all’India (in circa due settimane).

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, secondo quanto si apprende da Reuters, lunedì 17 maggio ha annunciato che saranno inviate all’estero almeno 20 milioni di dosi di vaccino contro Covid-19 entro la fine di giugno, segnando in questo modo una svolta rispetto alla linea tenuta fino a questo momento. Saranno inviate dosi dei vaccini Pfizer, Moderna, e Johnson&Johnson, oltre ai 60 milioni di dosi di Astrazeneca già previsti. Stando alle fonti, sembra infatti che Biden abbia ricevuto pressioni per condividere i vaccini e aiutare così a contenere il peggioramento della pandemia dall’India e al Brasile, dove gli scienziati temono che l’insorgere di nuove varianti possa minare l’efficacia dei vaccini esistenti. Il presidente Usa, in realtà, oltre ad aver mandato ossigeno e strumentazioni in India, aveva già annunciato l’intenzione di mandare nel Paese anche materiali per la produzione di vaccini. “Proprio come l’India ha inviato assistenza agli Stati Uniti quando i nostri ospedali sono stati messi a dura prova all’inizio della pandemia – si legge in un comunicato stampa della Casa Bianca -, gli Stati Uniti sono determinati ad aiutare l’India nel momento del bisogno”. Accanto agli Usa, anche l’Unione Europea e il Regno Unito hanno dimostrato vicinanza al popolo indiano, manifestando la disponibilità a inviare aiuti.

L’atteggiamento nei confronti del Brasile sembra invece essere diverso. Lo scorso anno, per esempio, Washington ha distribuito solo 19,7 milioni di dollari in aiuti per affrontare la pandemia, compresi meno di due milioni per le comunità amazzoniche duramente colpite. Anche l’Ue, che pure ha dichiarato sostegno all’India, sembra non essersi esposta nel caso del Brasile, se si esclude qualche intervento come quello della Germania che ha inviato ventilatori a Manaus.

Sicuramente le posizioni del presidente Bolsonaro davanti alla pandemia non hanno suscitato la benevolenza della comunità internazionale. In un incontro al parlamento europeo tenutosi il mese scorso, l’ambasciatore del Brasile presso l’Unione Europea Marcos Galvão ha sottolineato la gravità della crisi sanitaria del proprio Paese, chiedendo all’Ue il sostegno per l’acquisto di medicinali e vaccini. Ma durante la riunione, gli eurodeputati hanno aspramente criticato la gestione di Bolsonaro: “Quello che sta accadendo in Brasile è una tragedia che avrebbe potuto essere evitata – ha dichiarato Anna Cavazzini, vicepresidente della delegazione per le relazioni con la Repubblica federativa del Brasile -. Questa tragedia è frutto di decisioni politiche sbagliate prese dal governo Bolsonaro”.

Sull’altro fronte, in India, Narendra Modi pur avendo commesso errori nella gestione dell’infezione da Sars-CoV-2 non ha mai sminuito la gravità della pandemia e ha coltivato relazioni più distese a livello internazionale con quei Paesi a cui poi si è trovato a dover chiedere aiuto. Se il supporto umanitario che arriva all’India, dunque, può essere considerato genuino, non si possono tuttavia trascurare nemmeno le implicazioni a livello diplomatico che ne derivano.

“Covid-19 ha avuto un effetto destabilizzante su tutto il mondo – ha dichiarato la giornalista di origini indiane Priti Patnaik intervistata da Francesco Suman per Il Bo Live – sulle economie, ma ha anche ridefinito la diplomazia. Sappiamo che i vaccini sono diventati una valuta diplomatica, abbiamo sentito parlare di nazionalismo vaccinale e del fatto che i vaccini sono una questione di sicurezza, e di sicurezza economica. Dobbiamo quindi ripensare ciò che ‘aiuto’ significa nel contesto di Covid-19”.

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