SOCIETÀ

Ceuta, i migranti e i gravi problemi di gestione della UE

Il premier spagnolo Pedro Sanchez, socialista, ha schierato l’esercito per contrastare l’invasione di immigrati, circa ottomila, che nei giorni scorsi hanno sconfinato dal Marocco entrando nella enclave spagnola di Ceuta: terra del continente africano, appena al di là dello stretto di Gibilterra, ma di fatto in Unione Europea. «Ristabiliremo l’ordine», ha ringhiato Sanchez. E i militari hanno eseguito. A colpi di manganello e di minacce fisiche hanno costretto migliaia di persone a tuffarsi di nuovo in mare, là da dove erano venuti, grazie anche alla “complicità” delle guardie di frontiera marocchine, che avevano allentato i controlli, abitualmente molto severi, al confine di El Tarajal. Senza star troppo a guardare le condizioni di salute e in qualche caso l’età, tantomeno le eventuali richieste di asilo, né per quali ragioni avevano deciso di affrontare una drammatica traversata a nuoto (uno degli immigrati è annegato). El Diario stima che almeno un quarto di loro siano minorenni. Tra i respinti, secondo diverse fonti, ci sono anche ragazzini poco più che adolescenti «Rimpatri forzati non legali», secondo Paloma Favieres, portavoce della Cear, ong spagnola che si occupa di richiedenti asilo. Scontri si sono verificati sulla spiaggia di Tarajal: l’esercito spagnolo ha usato mezzi blindati e sparato gas lacrimogeni contro gli immigrati per costringerli a tornare indietro. Un neonato, di appena due mesi, è stato salvato in mare da un agente della Guardia Civil: ma dietro quell’immagine, diventata simbolo di solidarietà umana, c’è molto altro. Il ministero dell’Interno spagnolo ha riferito che circa 6mila persone, entrate a Ceuta senza alcun permesso, sono state rimandate in Marocco. «Troppo in fretta perché sia tutto legale», sostengono diverse ong. Ancora in bilico la questione dei circa 1.500 minori non accompagnati (ce ne sono molti tra i 7 e i 9 anni, come ha confermato il ministro spagnolo per i diritti sociali, Ione Belarra): le strutture di accoglienza a Ceuta (che conta in tutto 80mila abitanti) sono al collasso. Alloggi di fortuna sono stati allestiti all’interno di magazzini commerciali, grazie anche all’intervento dei volontari della Croce Rossa. Chi non trova posto si accampa in strada. Episodi simili, ma molto più contenuti nei numeri, si sono verificati nell’altra enclave spagnola, Melilla.

Vite umane per un battibecco diplomatico

Così migliaia di migranti (bambini compresi) sono diventati inconsapevoli pedine in un battibecco diplomatico tra Marocco e Spagna. La loro disperazione, la loro necessità di cercare un altrove migliore (la pandemia ha aggravato le povertà) è stata usata per fare pressione. Un passo indietro per spiegare i motivi di tensione tra i due paesi, partendo dal più recente: il Marocco accusa la Spagna di aver offerto assistenza sanitaria a  Brahim Ghali, 74 anni, segretario generale del movimento nazionalista Fronte Polisario, che da decenni si batte per ottenere l’indipendenzadel Sahara occidentale (fino al 1976 dominio spagnolo) e che l’Onu ha riconosciuto fin dal 1975 come unico e legittimo rappresentante del popolo saharawi, che non riconosce la sovranità marocchina sulle terre che abita, confinati aldilà del “muro della vergogna, il Moroccan protective wall, lungo oltre 2700 km, che li separa dall’occidente. Malato di tumore e di Covid, e a quanto pare entrato in Spagna con un aereo privato sotto falso nome (con il governo Sanchez che, d’intesa con il governo algerino, sarebbe stato a conoscenza dell’operazione), Ghali è stato ricoverato in un ospedale a Logroño, tra Bilbao e Saragozza. Rabat non ha però gradito la solidarietà spagnola al “nemico indipendentista”, minacciando ritorsioni. Ma il principale motivo di tensione risale allo scorso dicembre, quando l’allora uscente presidente americano Trump, in un sussulto di fine mandato, riconobbe la piena sovranità del Marocco sul Sahara occidentale (chiedendo in cambio una normalizzazione delle relazioni diplomatiche del paese africano con Israele). Un passo che ha riacceso tensioni sopite (c’è chi ha definito la mossa di Trump “una bomba sulla pace”). Il Marocco ha chiesto dunque alla Spagna, e all’Unione Europea, di adeguarsi alla linea americana (che, a quanto pare, anche Joe Biden è orientato a seguire). Ancora nel 1991 l’Onu aveva negoziato un cessate il fuoco tra Marocco e Fronte Belisario, che includeva la promessa di un referendum sul suo status (lasciando ai Saharawi la possibilità di scegliere tra indipendenza e annessione al Marocco), che però non è mai stato indetto. Una delle tante pagine di politica internazionale rimaste in sospeso. Infine, l’ultimo motivo di tensione: il Marocco considera Ceuta e Melilla “città illecitamente occupate” dalla Spagna.

«Questo è un atto di sfida», ha dichiarato il premier spagnolo, nel commentare il mancato controllo del Marocco alla frontiera di Ceuta. «Una mancanza di rispetto non solo per la Spagna, ma per tutta l’Unione europea». Il ministro della Difesa spagnolo, Margarita Robles, ha accusato il Marocco di «infrangere il diritto internazionale utilizzando la crisi migratoria di Ceuta come ricatto». Il ministro degli Esteri marocchino, Nasser Bourita, ha replicato: «Madrid dovrebbe essere consapevole che il Marocco non è lo stesso di ieri». Più esplicito il ministro della giustizia Mustapha Ramid, che in un post su Facebook ha giudicato la decisione spagnola di offrire cure al leader del Fronte Polisario “sconsiderata, irresponsabile e totalmente inaccettabile”. Ma c’è chi legge, nella mossa di Rabat, un tentativo di alzare la posta e di ottenere dalla Spagna ancor più denaro per tenere a bada i flussi migratori. Una minaccia e un avvertimento. Andati a buon fine, dal momento che, come scrive El Pais, il consiglio dei ministri spagnolo ha approvato il versamento di 30 milioni di euro al Marocco come “sostegno al contrasto all'immigrazione illegale”. La somma era già stata stanziata, ma il pagamento s’è sbloccato martedì scorso, al culmine della crisi di Ceuta.

La fragilissima frontiera europea

Ma quanto sta avvenendo all’estremo confine a sud dell’Unione Europea non è soltanto un’aspra disputa diplomatica tra i due paesi. E’ l’emblema del vuoto politico che circonda l’enorme questione delle migrazioni. «L’Unione Europea non si lascerà intimidire da nessuno», ha ribadito il vice presidente della Commissione Ue, Margaritis Schinas. La commissaria degli Affari interni della Commissione Europea, Ylva Johansson, ha invece ricordato che «le frontiere spagnole sono le frontiere europee» e ha invitato il Marocco a compiere il suo dovere per presidiare le uscite irregolari dal paese e per assicurarsi che «chi non ha diritto a rimanere venga espulso in maniera ordinata ed efficace». La migrazione intesa sempre come un crimine, non come una necessità. Da impedire, a prescindere. Da contrastare quindi con sempre maggiore fermezza, durezza, inflessibilità. Come chiedono (e ottengono) a gran voce le componenti più a destra dei paesi membri dell’Unione Europea, a partire dai più esposti, come Spagna e Italia (Santiago Abascal, leader di Vox, partito di estrema destra anti-immigrati, ha appena accusato il Marocco di «lanciare minori come arieti» contro i confini spagnoli), che ne fanno perno delle loro politiche.

L’Europa finora ha stabilito che l’unica strategia possibile per ridurre gli arrivi è la cooperazione con i paesi di origine: “aiutarli a casa loro”, come recita un vecchio slogan tuttora assai in voga.  Quindi denaro contante che finisce nelle tasche di dittatori (Erdogan, quando vuole, li ferma i migranti in transito dalla Siria: ma in che modo? E che fine fanno?) o in progetti di sviluppo e di occupazione (come in diversi paesi africani) tuttavia non sufficienti ad arginare l’onda migratoria. Michael Clemens, direttore del dipartimento migrazioni del Center for Global Development (ong statunitense) è convinto che si tratti di una strategia fallimentare: «Nonostante i tentativi di alcuni governi,  il sostegno allo sviluppo non scoraggia immediatamente la migrazione: perché coloro che migrano non sono tra i più poveri del mondo. Anzi, è probabile che una crescita economica sostenuta e di successo nei paesi a basso reddito possa aumentare il ​​tasso di emigrazione, almeno nel breve termine. Con l’incremento dei redditi, aumenta anche la capacità delle persone di permettersi gli investimenti che facilitano gli espatri». Eppure il nuovo “Patto europeo sulla migrazione”, presentato nel settembre 2020 come superamento del Regolamento di Dublino, poggia ancora sui soliti tre pilastri: forte collaborazione con i Paesi di origine e di transito, un sistema rafforzato di frontiere esterne, e un meccanismo rafforzato di rimpatri. Con i risultati che conosciamo: dall’inizio dell’anno, nelle sole traversate del Mediterraneo, sono morte quasi 500 persone. Ma la commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson, ha ribadito: «Per salvare vite, la cosa più importante è prevenire questi viaggi pericolosi».

Il fallimento delle ricollocazioni

A questo va aggiunto il doloroso capitolo delle ricollocazioni, con l’accordo raggiungo nel 2019 a Malta e mai applicato, il solito balletto di tentennamenti di fronte alle richieste del paese di turno più in difficoltà (l’Italia, la Grecia, ora la Spagna). Christopher Hein, docente di Scienze Politiche alla Luiss, in una recente intervista ad Huffington Post, la riassume così: «Abbiamo un club di 27 Stati membri, ma quando parliamo di richiedenti asilo o cittadini di Paesi terzi che fanno ingresso in modo irregolare, tutto si concentra a una manciata di Paesi, i più esposti: Italia, Grecia, Spagna, Malta e Cipro. Il vero scandalo è che ci sono nazioni dove non arriva pressoché nessuno: Ungheria, Polonia, Austria, ma anche Danimarca e Finlandia. Il nucleo del problema è che l’Unione Europea non ha competenza per dire: tu, Olanda, ad esempio, devi prendere 10mila persone. Questa competenza non c’è perché non è prevista dal Trattato di Lisbona. La Commissione Europea può appellarsi, può chiedere, ma non può obbligare: tutto resta sempre su base volontaria perché il principio della sovranità nazionale, su questa materia, resta invariato».

Quindi avanti tutta ognun per sé: con le proprie chiusure, gelosie, intransigenze, senza avere la capacità politica di guardare a soluzioni per il medio e lungo termine. E non c’è alcun segnale che la situazione di stallo nell’Unione possa cambiare nei prossimi mesi o anni, impigliati in un inestricabile loop  di polemiche, di egoismi e di ideologie contrapposte. Dunque cosa fare? Michael Clemens sconsiglia di arrivare alla sospensione dei finanziamenti ai paesi di origine («Non sarebbe saggio, alla lunga le migrazioni potrebbero davvero ridursi»), ma per il momento propone di investire altrettanto su percorsi di formazione professionale e di integrazione che possano rendere le migrazioni un fattore di sviluppo anche per l’Europa.

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