SOCIETÀ
Cittadinanza italiana, le norme attuali e lo spiraglio dello ius culturae
Lo ius culturae è una forma di ottenimento della cittadinanza basata sul compimento di un ciclo di studi e altri requisiti, tra i quali la nascita in Italia o l'ingresso nel paese entro i 18 anni d'età. Il 3 ottobre in commissione Affari costituzionali della Camera si tornerà a parlare di norme per acquisire la cittadinanza italiana, perciò l'idea dello ius culturae o ius scholae è tornata alla ribalta (precedentemente ne abbiamo parlato qui). Per parlare di una riforma in materia di cittadinanza, è bene capire il regolamento vigente e le ragioni storiche dietro ad esso. Stefano Molina, ricercatore della fondazione Agnelli, spiega: ”Le norme sull'acquisto e la concessione della cittadinanza italiana sono state modificate all'inizio degli anni '90, con la legge 5 febbraio n. 91 del 1992 che è molto difensiva. L'Italia precedentemente aveva un sistema risalente all'epoca fascista: tendeva a concedere la cittadinanza dopo soli 5 anni di residenza. Però, successivamente, lo stato italiano si scoprì paese di immigrazioni e decise di rendere più complicato l'accesso alla cittadinanza, perché sembrava che la situazione stesse precipitando, così si portò a 10 anni il periodo minimo di residenza”.
“Per quanto riguarda i figli degli immigrati – continua Molina – prevalse l'idea dello ius sanguinis: potevano diventare cittadini italiani solo a seguito della naturalizzazione dei genitori. In questa normativa c'era uno spiraglio: chi era rimasto in Italia ininterrottamente per 18 anni, poteva fare domanda per la cittadinanza senza dipendere dallo status dei genitori. Questo tipo di normativa è diventata quasi una camicia di forza per l' integrazione dei figli degli immigrati, soprattutto attorno al 2003-2005 quando cominciarono ad esserci molte nascite di bambini stranieri in Italia e molti figli degli immigrati iniziarono a frequentare le scuole italiane, causando un piccolo tsunami. Ci si rese conto che conservarli nella condizione di stranieri all'infinito fosse contrario al buon senso e all'interesse del paese. Perciò ci furono diversi tentativi di introdurre dei correttivi alla legge n.91 del '92, che non portarono a nessun risultato. La storia nel frattempo è andata avanti: molti figli di immigrati sono riusciti ad accedere alla cittadinanza italiana grazie alla naturalizzazione dei propri genitori. Questo fenomeno ha riguardato parecchie decine di migliaia di ragazzi che frequentano le scuole o che ne sono usciti di recente”.
Sarebbe quindi utile l'approvazione di una nuova legge? “Il dibattito attuale è giusto – prosegue Molina – l'approvazione di una legge sarebbe doverosa, ma è in ogni caso tardiva, perché nel frattempo l'accesso alla cittadinanza è stato raggiunto attraverso la porta di servizio. Chiaramente l'approvazione di una nuova legge nel 2019/2020 sanerebbe una serie di situazioni difficili, tuttavia l'argomento è molto delicato. È difficile prendere decisioni e rispettare parametri quando si rannuvola il clima in modo così esasperato, si perde di vista il reale oggetto del contendere. Alla base di questo, forse, c'è un blocco mentale che consiste nel confondere il concetto di cittadinanza con quello di nazionalità. È importante capire che la prima rinvia a un insieme di diritti che lo Stato riconosce ai propri cittadini e ai doveri che sono ad essi collegati. L'enfasi sui diritti è importante perché distingue il cittadino dal suddito, la condizione di sudditanza è definita dalla prevalenza dei doveri sui diritti. È giusto che i diritti ci siano, come Stato devo conoscere i miei cittadini e cosa mi aspetto da loro. Questo sistema non si può applicare a un cittadino che appartiene a un altro stato”.
“Il concetto di nazionalità è, invece, l'appartenenza a una comunità culturale, che rinvia a comuni denominatori che caratterizzano la convivenza di un collettivo. Ad esempio: io sono italiano e tifo per la nazionale, muovo le mani quando parlo e mi piace la pizza e così via. Una cosa non è l'altra. La questione è regolare la convivenza civile dal punto di vista giuridico. Si può essere italiani di diritto e allo stesso tempo musulmani, senza che questo mini la cultura del paese. Se noi sovrapponiamo i due concetti, qualsiasi atteggiamento di minoranza degli immigrati sembra relativo al fatto che si debba difendere l'Italia dal punto di vista culturale”.
Lo ius culturae potrebbe essere concettualmente più accettato rispetto allo ius soli? ”Lo ius soli è in teoria già vigente, perché la legge prevede che chi è nato in Italia e dimostri una residenza ininterrotta, al compimento dei 18 anni matura il diritto di acquisire la cittadinanza, tuttavia per molte famiglie può essere difficile dimostrare la residenza ininterrotta. La novità del progetto di legge, arenatosi in parlamento qualche anno fa, era che non fosse necessario aspettare i 18 anni, ma aver completato un ciclo scolastico in modo soddisfacente. Con questo sistema si potrebbe dimostrare che il ragazzo è stato in Italia ininterrottamente e, con le pagelle, che ha raggiunto un buon livello di italiano, storia, geografia, matematica ecc. Il senso è quello di poter accelerare la procedura di ottenimento della cittadinanza senza dover aspettare la maggiore età per la presentazione della domanda e i due o tre anni per l'accoglimento di questa. In secondo luogo potrebbe risolvere la questione delle generazioni 1.50, cioè coloro che sono arrivati in Italia, per esempio, a 2 anni e che hanno seguito un percorso di studio simile a quello dei ragazzi nati in Italia, ma per cui non si applica lo ius soli”.
Lo ius culturae potrebbe favorire l'integrazione? “L'integrazione segue canali diversi dalla cittadinanza, questa è più una questione giuridica, l'altra di carattere sociale. Possiamo avere delle ottime leggi sulla cittadinanza e il caos per strada, oppure dei paesi dove la convivenza civile è perfetta, ma si rimane stranieri per sempre. Non è automatico. Ogni tanto anche io uso l'espressione un approdo sicuro alla cittadinanza sembra una precondizione per una buona integrazione, in realtà sono su due piani diversi. Però, visto che parliamo di preadolescenti che devono decidere cosa fare da grandi e che, data l'età, vivono grandi dubbi sul proprio io e sul loro corpo, almeno dare loro la certezza che, se lo desiderano, possono diventare italiani, significherebbe dargli un elemento di certezza in una fase di grandi incertezze. Così si costruisce un'identità maggiormente ancorata all'Italia o più fedele a essa, se vogliamo usare un'espressione rétro. Però l'integrazione non si fa a colpi di decreto, ma quotidianamente nelle case, nelle scuole e nelle strade” conclude Molina.