SOCIETÀ

Congedo mestruale: più facile a dirsi, ma varrebbe la pena provarci

Il diritto al congedo mestruale, che consentirebbe alle lavoratrici dipendenti di assentarsi dal lavoro, senza detrazione di stipendio, per due o tre giorni al mese in caso di dolori mestruali invalidanti ha da qualche tempo ritrovato posto nel dibattito pubblico italiano. Si è tornato a parlare del tema quando la misura in questione è stata introdotta per la prima volta in un paese europeo: si tratta della Spagna, dove il 16 febbraio 2023 è stata approvata in Parlamento una legge organica per la difesa della salute sessuale e riproduttiva delle donne. Questo pacchetto di norme prevede, oltre ad alcune riforme che meglio tutelano e facilitano la fruizione del diritto all’aborto, la possibilità per le donne che soffrono di dismenorrea (la sofferenza legata ai dolori mestruali) di beneficiare di tre giorni di congedo dal lavoro sovvenzionato dallo stato (previa presentazione di un certificato medico) a prescindere che la condizione invalidante in questione sia o meno dovuta all’occorrenza di patologie specifiche (come, ad esempio, l’endometriosi o la vulvodinia).

Ma quali sono le possibilità che una legge analoga venga approvata anche nel nostro paese? E quale impatto avrebbe sul piano culturale l’introduzione di una simile misura? Abbiamo approfondito l’argomento con l’aiuto di Mariangela Zanni, presidente del Centro Veneto progetti donna.

“Non solo nella cultura popolare, ma anche in ambito sanitario, la dismenorrea non sempre viene riconosciuta come una condizione invalidante; spesso i dolori mestruali, anche quelli molto forti, vengono infatti considerati normali, o addirittura necessari, nella vita di una donna”, premette Zanni. “Solo negli ultimi decenni, grazie all’affermazione di una medicina di genere basata sul riconoscimento delle differenze biologiche tra uomini e donne, sono state finalmente studiate e comprese alcune diffusissime patologie dell’apparato riproduttivo femminile – come, ad esempio, l’endometriosi e la vulvodinia – la cui esistenza è stata a lungo ignorata, se non espressamente negata, durante la maggior parte della storia della medicina. Per secoli, infatti, i dolori causati da queste malattie sono stati considerati frutto dell’immaginazione delle donne che li denunciavano e ricondotti, in altre parole, allo stereotipo della “pazzia femminile”. Al contrario, lo studio dell’apparato riproduttivo femminile ha permesso finalmente di conoscere le malattie che possono colpirlo e di garantire alle donne il diritto ad accedere alle cure necessarie”.

Da questo punto di vista, la possibilità di assentarsi dal lavoro in presenza di dolori mestruali invalidanti andrebbe considerata proprio come una garanzia del diritto alla salute per le donne. Eppure, nel nostro paese sono ancora radicati nell’immaginario comune alcuni tabù e resistenze culturali che ostacolano, di fatto, l’introduzione di una simile misura.

“Concretamente parlando, siamo ancora molto lontani dall’entrata in vigore di una politica del genere nel nostro paese, che è comunque piuttosto indietro, rispetto a tanti altri, per quanto riguarda il riconoscimento e la tutela del diritto alla salute e della libertà riproduttiva delle donne”, riflette Zanni. “In Italia, persiste inoltre una cultura del lavoro poco flessibile e che spesso valuta la produttività in base alla quantità delle ore lavorate piuttosto che alla qualità delle prestazioni svolte. Questa mentalità è il motivo per cui spesso i datori di lavoro sono reticenti a concedere permessi e orari flessibili ai dipendenti e alle dipendenti. Il problema dell’occupazione femminile e della discriminazione di genere sui luoghi di lavoro deriva (anche) dalla convinzione che le donne siano meno produttive perché più inclini ad assentarsi per motivi familiari. Purtroppo, infatti, già la decisione di assumere una donna costituisce un incentivo a discriminarla e a preferire, piuttosto, un uomo. Per tutti i motivi appena descritti, se una misura come il congedo mestruale venisse introdotta non solo nei contratti di lavoro pubblico, ma anche nel privato, non è detto che garantirebbe davvero i diritti delle lavoratrici: la prospettiva di dover concedere una volta al mese un simile congedo alle dipendenti potrebbe trasformarsi in un ulteriore motivo di discriminazione o in una forma di ricatto da parte dei datori di lavoro”.

Insomma, non si può non tenere conto del rischio che una misura di questo genere causi un effetto boomerang, producendo da una parte un allargamento del gender gap nell'occupazione femminile e confermando dall’altra il pregiudizio di genere del “sesso debole”.

“Quello femminile non è il sesso debole per una questione fisica o fisiologica, ma piuttosto perché le donne vengono ancora costantemente indebolite dal patriarcato”, afferma Zanni. “Quanti considererebbero normale, o tantomeno giusto, che si debbano sopportare dolori lancinanti una volta al mese pur di recarsi a lavoro? Eppure, questo sacrificio è considerato più che normale quando spetta alle donne. Un pregiudizio analogo si ripropone anche quando si parla dell’esperienza del parto, rispetto alla quale viene ancora promossa una narrazione che esalta la capacità di sopportazione del dolore da parte della puerpera, considerandola normale e necessaria, trascurando invece la sofferenza fisica e psicologica che comporta un momento così traumatico”.

“In un contesto culturale come quello appena descritto, e in mancanza di uno sforzo politico costante per il riconoscimento sia della differenza biologica tra i sessi, sia dei diritti delle donne, non credo che il congedo mestruale contribuirebbe in modo sostanziale alla diffusione di un cambio di mentalità a livello sociale”, riflette Zanni. “D’altro canto, è impossibile prevedere con esattezza quali cambiamenti culturali, specialmente in ambito lavorativo, potrebbero incoraggiare politiche di questo genere. In Italia, ad esempio, è stato introdotto nel 2015 il congedo per donne vittime di violenza, che garantisce alle lavoratrici che stanno intraprendendo un percorso di fuoriuscita dalla violenza domestica il diritto a novanta giorni di congedo nell’arco di tre anni. Purtroppo, molte aziende tentano ancora di dissuadere le dipendenti dall’avvalersi di tale diritto; in altri casi, invece, le richieste in questione hanno rappresentato un’opportunità per approfondire il problema della violenza di genere a livello aziendale, promuovendo occasioni di formazione e sensibilizzazione rivolte ai datori di lavoro e al personale.

Insomma, per quanto siano scarse le possibilità che una misura come il congedo mestruale venga approvata nel nostro paese in tempi brevi, discuterne aiuta se non altro a decostruire alcuni stereotipi di genere ancora radicati e a rendere le donne stesse più consapevoli rispetto alla salute del proprio corpo e, di conseguenza, ai propri diritti”.

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