SOCIETÀ

COP27: la scienza ha parlato, la politica non ha risposto

Già da tempo, per una buona fetta della popolazione mondiale la crisi climatica non è più un mero esercizio di immaginazione su come potrebbe diventare la vita sulla Terra in un futuro più o meno remoto, ma un’angosciosa realtà costellata di eventi meteorologici estremi, temperature tanto alte da rendere inabitabili intere regioni, raccolti agricoli sempre più scarsi, mancanza cronica d’acqua.

È in risposta a questa rapida trasformazione di un orizzonte futuro nella realtà del presente che la discussione politica sul cambiamento climatico si è spostata, in una certa misura, dal dibattito sulla mitigazione a quello sull’adattamento. Eppure, come hanno sottolineato alcuni importanti scienziati nell’ultima edizione del rapporto annuale 10 New Insights in Climate Science, curato dalle associazioni FutureEarth, The Earth League e dal World Climate Research Programme della WMO (World Meteorological Organization), in molti casi neanche l’adattamento è ormai una strada praticabile. Per paesi come il Pakistan, che la scorsa estate ha visto circa un terzo del proprio territorio inondato a causa di piogge dalle proporzioni catastrofiche, l’unica risposta possibile alla crisi climatica è quella di far fronte alle perdite e ai danni subiti.

Perdite e danni i cui costi stanno aumentando vertiginosamente, man mano che la “finestra d’azione” si va chiudendo. La creazione di un fondo che aiuti i paesi e le comunità riconosciute come ‘vulnerabili’ a sostenere tali costi è stata al centro delle negoziazioni nell’appena conclusa COP27, svoltasi in Egitto. Nella notte di domenica 20 novembre, al termine di una lunga giornata supplementare di negoziati, è stato finalmente raggiunto un accordo: le parti hanno pattuito la creazione di un fondo internazionale per il Loss&Damage, il cui obiettivo è sostenere economicamente i paesi in via di sviluppo che sono e saranno maggiormente colpiti, nei prossimi anni, dagli effetti dei cambiamenti climatici. In molti hanno accolto con soddisfazione questo esito, che rappresenta – forse per la prima volta – una vittoria per la Cina e gli altri Paesi del G77, i quali da molto tempo cercano di promuovere accordi che tengano in considerazione le esigenze di giustizia climatica nel pianificare la transizione.

L’interconnessione tra dimensione fisica e dimensione sociale che caratterizza la crisi climatica si è delineata con sempre maggiore chiarezza negli ultimi anni. Tale complessità è stata evidenziata anche dagli scienziati che hanno collaborato alla stesura dei 10 Insights in Climate Science 2022, presentati proprio durante la COP27 e pensati espressamente come vademecum per i negoziatori, allo scopo di offrire loro un ulteriore strumento per compiere scelte informate e ponderate in base ai più aggiornati dati disponibili.

Come ha affermato Johan Röckstrom, direttore del Potsdam Institute on Climate Impacts, durante la conferenza stampa di presentazione del documento, i dieci fatti sulla crisi climatica emersi dalla letteratura scientifica nel 2022 sono talmente connessi gli uni agli altri che avrebbero potuto essere riassunti in un unico punto: non si può più rimandare l’azione, perché le conseguenze del cambiamento climatico sono già in atto e stanno colpendo soprattutto i più deboli. Se vogliamo una società globale sicura e pacifica, dobbiamo prima di tutto affrontare questa sfida agendo contemporaneamente sui fronti della mitigazione, dell’adattamento e della cooperazione solidale con i più deboli.

Simon Stiell, segretario esecutivo dell’UNFCCC (la convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico), ha ribadito quanto dare ascolto alla comunità scientifica sia cruciale anche – e soprattutto – in un contesto eminentemente politico come la Conferenza delle parti sul clima: «La scienza fornisce i dati e le prove empiriche degli impatti del cambiamento climatico, ma offre anche gli strumenti e le conoscenze necessarie per affrontarli. Le informazioni contenute in questo rapporto sono allarmanti: in parte confermano quel che già sapevamo, ma gettano anche luce su altri fronti nei quali è necessario urgentemente intervenire».

A rendere il rapporto particolarmente interessante è il rilievo dato alla relazione causale che lega i fatti scientifici – noti ormai da tempo – alle loro conseguenze politiche e sociali. Il primo punto mette in evidenza i limiti di un certo approccio al cambiamento climatico: “Il potenziale di adattamento non è illimitato”, sottolineano gli scienziati nel primo dei dieci punti, e questo dato di fatto è particolarmente evidente in alcune aree del mondo. Limitare l’aumento delle temperature medie a 1,5°C sopra i livelli preindustriali «non è un obiettivo, ma un limite fisico», ha affermato Röckstrom. «Superati 1,5°, si verificheranno condizioni ben peggiori di quelle che le comunità più vulnerabili sono in grado di affrontare». Superando i 2°C (scenario non irrealistico, considerando che, visti gli attuali impegni internazionali per il clima, si potrebbero raggiungere i 2,8° di aumento entro fine secolo), «adattamento e mitigazione non saranno più sufficienti».


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È bene tenere a mente – come i ricercatori sottolineano più volte, tra un punto e l’altro – che vi è una diretta corrispondenza tra aree climaticamente e socialmente vulnerabili. I peggiori effetti del cambiamento climatico si stanno concentrando proprio nelle regioni più povere, più socialmente instabili, più popolose. Questo rende imprescindibile una risposta che metta al centro la solidarietà internazionale: come viene specificato nel quinto punto del documento, la sicurezza sociale richiede, in primo luogo, la sicurezza climatica. E non si tratta di un problema localizzato solamente in alcune aree del mondo: in un mondo profondamente interconnesso come quello nel quale viviamo, una guerra in Europa orientale può causare carestie in Africa, così come uno spillover virale in Cina – frutto inatteso della crisi ecologica – può causare una pandemia globale.

 La scala del problema climatico è globale e locale al tempo stesso: proprio in considerazione di questo, i ricercatori hanno deciso di allegare ad ogni punto affrontato alcuni suggerimenti d’azione su scala globale e su scala nazionale e regionale.

La questione del Loss&Damage è un esempio lampante dell’urgenza di agire su questo duplice fronte: la carenza di aiuti internazionali per affrontare un problema relativamente locale – ad esempio, le inondazioni in Pakistan – genera a cascata una serie di fenomeni sociali, come la migrazione forzata di milioni di persone, o l’aumento delle tensioni a livello regionale per accaparrarsi le scarse risorse disponibili. Simili situazioni di crisi si autoalimentano, diventando catalizzatori di instabilità e, spesso, rallentando ulteriormente le azioni di contrasto alla crisi climatica.

Alla luce dei punti evidenziati dagli scienziati nel documento, dunque, l’istituzione del fondo economico per il Loss&Damage appare un importante passo in avanti nella giusta direzione. Eppure, sono molti i punti rimasti irrisolti: per ora, infatti, il fondo esiste soltanto formalmente, e le parti si sono date ancora un anno di tempo (il termine è la fine del 2023) per decidere in quali proporzioni i finanziamenti dovranno essere corrisposti, e da chi.

Inoltre, l’accordo finale della COP27 ha lasciato l’amaro in bocca a coloro che speravano in un rinnovato impegno per la riduzione delle emissioni e la lotta concreta al cambiamento climatico. Fino all’ultimo, alcuni Paesi hanno provato addirittura a estromettere dal testo finale il riferimento al limite di 1,5°C, fissato nel 2015 a Parigi e confermato a Glasgow lo scorso anno. Ancora una volta, inoltre, il confronto annuale tra le parti è stato un’occasione persa dal punto di vista del bando ai combustibili fossili, tema spinoso che si conferma il vero elefante nella stanza dei negoziati climatici. La direzione che bisognerebbe seguire è chiara, ed è stata ribadita una volta in più anche dagli autori dei 10 Insights: mitigazione e adattamento devono essere considerati come due lati di una stessa medaglia, e non si può pensare di affrontare la crisi climatica dedicandosi soltanto ad uno di questi ambiti. Ridurre drasticamente le emissioni carboniche nei prossimi anni è un obiettivo non differibile.

Come ha dichiarato Mary Robinson, ex presidente dell’Irlanda e attuale presidente dell’associazione The Elders, l’accordo finale della COP27 lascia il mondo «sull’orlo della catastrofe climatica». Molti tra i Paesi che sono in prima linea nella produzione di combustibili fossili, infatti, hanno ridimensionato i propri impegni in termini di transizione energetica, e allo stato attuale la possibilità che gli obiettivi di Parigi vengano raggiunti è quanto mai remota.

Se una delle principali ‘colpe’ di questa COP – per le quali sono in molti a puntare il dito anche sull’Egitto, il Paese ospitante, noto per avere interessi e legami commerciali nell’ambito dell’energia fossile –, teniamo a mente che la COP28, prevista per il 2023, sarà patrocinata dagli Emirati Arabi Uniti, che sono tra i primi produttori mondiali di petrolio. Come questo potrà influire sull’esito delle negoziazioni, staremo a vedere.

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