MONDO SALUTE
Covid-19: nessuna complicazione per chi assume farmaci antipertensivi
In questi giorni, nel già difficile contesto dell’emergenza da coronavirus, circolano notizie secondo cui due classi di farmaci (gli Ace-inibitori e i sartani), impiegati per trattare l’ipertensione, lo scompenso cardiaco e la cardiopatia, potrebbero causare complicazioni nei soggetti affetti da coronavirus. Vero o falso?
Nel caso specifico la questione è particolarmente delicata e ha fatto preoccupare non poco i pazienti. Sul problema è intervenuta anche la Società italiana di cardiologia che, in un documento, ha affermato: “Esistono in letteratura dati contrastanti che consigliano l’utilizzo di ACE-inibitori e sartani nei pazienti affetti da Covid-19 o che ritengono questi farmaci controindicati in pazienti con Covid-19. Questi studi contrastanti sono basati su ipotesi e non hanno testato l’effetto di ACE-inibitori o sartani in modelli sperimentali di infezione da SARS-CoV-2, né tantomeno, al momento, esistono studi nell’uomo”. Dell’argomento abbiamo parlato con Gian Paolo Rossi, direttore della Clinica dell’Ipertensione arteriosa dell’Azienda Ospedaliera-Università di Padova, che ha sottolineato: “A un occhio appena esperto è evidente che si tratta di preoccupazioni del tutto infondate”.
Guarda l'intervista completa a Gian Paolo Rossi. Servizio di Monica Panetto, montaggio di Barbara Paknazar
Nel parlare di Covid-19, il docente si sofferma sulle terapie: “Attualmente la terapia da Covid-19 si basa sull’impiego di alcuni antivirali che hanno dato promettenti segni di efficacia, sull’utilizzo di farmaci antinfiammatori, in particolare di anticitochinici, sull’utilizzo della clorochina e infine degli inibitori delle proteasi che sono stati impiegati nella terapia antiretrovirale, cioè nel trattamento della infezione da Hiv”.
Secondo Gian Paolo Rossi nella pianificazione della lotta al nuovo coronavirus varrebbe la pena fare tesoro dell’esperienza passata. Il riferimento è, in particolare, alla pandemia di influenza spagnola che si è verificata nel 1918 e ha mietuto oltre 50 milioni di vittime in tutto il mondo. Il New England Journal of Medicine, spiega, alcuni mesi fa in modo lungimirante, dato che allora di Covid-19 non si parlava minimamente, ha dedicato una serie di articoli alla rivalutazione di cosa sia effettivamente successo durante quell’epidemia. “Con tutte le riserve legate al fatto che si è dovuta fare un’analisi retrospettiva di materiale patologico collezionato 100 anni prima è emerso in modo abbastanza evidente che una fetta notevole delle morti era legata a una sovrapposizione batterica, in particolare legata allo streptococcus pneumoniae, più semplicemente detto pneumococco, per il quale noi attualmente abbiamo un vaccino disponibile”. Nel 1918 gli antibiotici non c’erano e questo spiega la mortalità altissima che ha colpito praticamente tutte le famiglie.
“Oggi abbiamo il vaccino, abbiamo molti antibiotici ma non tutti funzionano nella polmonite pneumococcica. Negli ultimi giorni si stanno accumulando una serie di evidenze di tipo ematochimico in una serie di articoli in parte pubblicati, in parte in corso di pubblicazione, che suggeriscono come lo stesso tipo di sovrapposizione batterica potrebbe essere alla base di una quota delle morti da insufficienza respiratoria legata a Covid-19. Se questo è il caso, vi dovrebbe essere una centralizzazione dell’esame patologico dei polmoni dei pazienti deceduti, cosa che a mia conoscenza non è avvenuta fino ad ora”.
E conclude il docente: “Se questo è il caso, avremmo la necessità di procedere alla vaccinazione antipneumococcica almeno dei soggetti a maggior rischio: questo potrebbe permetterci di ridurre non tanto il numero di infetti, ma il numero di infetti che richiederanno il passaggio da una degenza ordinaria o dalla quarantena ai reparti di terapia intensiva che sono attualmente in crisi soprattutto in Lombardia, ma anche nel Veneto”.