CULTURA

Segantini oltre il mito: in mostra a Bassano del Grappa

Dici Giovanni Segantini (1858-1899) e subito vengono in mente cime innevate immerse in una solitudine maestosa, maternità che emanano un’aura sacrale, alpeggi sospesi in una luce senza tempo. Un mito potente, in parte costruito dallo stesso pittore e poi amplificato dalla retorica dell’artista-vate che troverà in D’Annunzio il suo interprete più estremo. Narrazione affascinante, certo, ma che finisce per oscurare la statura internazionale di uno dei maestri italiani più conosciuti e influenti, e che la grande mostra appena inaugurata ai Musei Civici di Bassano del Grappa invita a superare ricollocando l’artista al centro della cultura artistica italiana ed europea del suo tempo.

La rassegna, curata da Niccolò D’Agati (Università Cattolica e Politecnico di Milano), si propone come la più importante e completa degli ultimi anni, ricomponendo con rigore scientifico e afflato narrativo un percorso artistico sorprendentemente internazionale. In soli vent’anni di carriera Segantini diventa infatti uno degli artisti più acclamati in Italia e all’estero, riconosciuto con premi e acquisizioni soprattutto nei Paesi Bassi e in Francia, fino a influenzare le avanguardie del primo Novecento. “Segantini non è un genio isolato che dipinge lontano dal mondo – afferma D’Agati –; la sua opera nasce dentro una rete fittissima di contatti, in dialogo con i linguaggi più avanzati del suo tempo”.

Segantini oltre il mito del “pittore solitario”: la mostra di Bassano del Grappa lo mette al centro della modernità artistica europea

Il percorso segue un criterio prevalentemente cronologico, partendo da una Milano che a fine Ottocento è un laboratorio in continua trasformazione: l’industrializzazione avanza e la città cresce e si rinnova, mentre borghesia e ceti in ascesa chiedono nuove immagini per raccontarsi e riconoscersi. È qui che un giovanissimo Segantini – originario di Arco in Trentino, allora parte dell’Impero austriaco – muove i primi passi tra scapigliatura e naturalismo lombardo, trovando ben presto un proprio linguaggio originale. Lo dimostra il confronto tra La falconiera del 1880 e un’opera analoga del suo maestro Tranquillo Cremona del 1863, che fa intravvedere un artista precocemente capace di assimilare la sensibilità dell’epoca e al tempo stesso di superarla, con un’attenzione nuova al rapporto tra luce, forma e atmosfera.

È però in Brianza che Segantini compie la prima, decisiva svolta: lontano dalla grande città sperimenta – grazie all’influenza alla mediazione dell’amico e gallerista Vittore Grubicy de Dragon – un linguaggio che dialoga con Jean-François Millet e la pittura dei Paesi Bassi. La mostra ricostruisce queste connessioni con opere raramente visibili in Italia, avvicinando Segantini a Van Gogh e agli artisti della Scuola dell’Aja. 

La svolta divisionista e l’approdo simbolista

Un capolavoro come Ave Maria a trasbordo restituisce con chiarezza un altro momento di metamorfosi. Il quadro, eseguito in una prima versione nel 1886 e premiato ad Amsterdam, viene ridipinto appena due anni dopo dallo stesso Segantini a causa di un deterioramento precoce dei pigmenti. Le indagini diagnostiche condotte dall’Università Bicocca rivelano che l’artista interviene direttamente sulla prima versione, trasformandola profondamente: prova concreta del passaggio dell’artista dal naturalismo al divisionismo, con la luce che da semplice effetto diventa struttura del quadro.

Un cambio di paradigma guidato da una convinzione: la pittura deve vibrare come la natura. Nel 1887 Segantini scrive a Grubicy: “Se l’arte moderna avrà un carattere, sarà quello della ricerca della luce nel colore”. Una dichiarazione che è un programma: la natura è energia, non scena. In seguito con il trasferimento in Svizzera, prima a Savognin poi a Maloja, la tecnica si fa personale, materica e quasi tattile, con pennellate minute e intrecciate e zone volutamente lasciate a vista per potenziare i contrasti cromatici. La materia diventa luce che pulsa ammaliando critici e collezionisti, e Segantini diviene sempre più richiesto dalle esposizioni internazionali e acquisito da musei e privati stranieri.

Non solo montagne e maternità: con la sua ricerca Segantini trasforma la luce in pensiero e indica la strada alle avanguardie del Novecento

L’immagine guida della mostra, Ritorno dal bosco (1889-1990), mantiene un segreto simile a quello dell’Ave Maria: un dipinto perduto, riemerso recentemente grazie agli studi e alle scansioni eseguite proprio in preparazione della mostra, giace sotto la superficie. Il catalogo, pubblicato da Dario Cimorelli Editore, presenta in dettaglio i risultati delle analisi scientifiche, tramite tecnologie che permettono di seguire quasi fisicamente il percorso dell’artista tra ripensamenti e scarti improvvisi. La mostra inserisce così l’indagine scientifica in un dialogo continuo con la lettura storica e stilistica, rafforzando la comprensione del metodo segantiniano.

La chiusura del percorso è dedicata al Segantini visionario, che attraverso la realtà alpina indaga nascita, maternità, morte e spiritualità. La vanità del 1897, con la figura immersa in un paesaggio che diventa pensiero e destino, anticipa un simbolismo naturale che tocca le corde del nuovo secolo: non un’evasione dalla modernità, bensì un confronto diretto con le sue inquietudini.

Segantini sperimentatore e la sua influenza

A Bassano Segantini assume finalmente il ruolo che gli è modo proprio: quello di uno degli sperimentatori più radicali del linguaggio pittorico di fine Ottocento: “Assieme a Pelizza da Volpedo è uno dei pittori che approfondiscono in maniera più personale la poetica del divisionismo”, conferma a Il Bo Live Niccolò D’Agati. La sua tecnica, complessa e meditata, unisce il puntiglio scientifico del divisionismo alla ricerca di un’espressione ideale: ogni tocco di colore, minuziosamente separato, assume un valore autonomo ma concorre alla vibrazione luminosa del quadro, ponendo la superficie pittorica al centro dell’esperienza visiva. “Segantini riesce a far confluire due poli apparentemente inconciliabili, positivismo e idealismo, che sono il cuore della cultura europea di fine Ottocento”, sottolinea ancora il curatore, e da qui nasce una rottura percettiva destinata a influenzare profondamente la modernità, tanto che Wassily Kandinsky ne Lo spirituale nell'arte (1911) indicherà paradossalmente nel maestro trentino come uno dei precursori della pittura astratta per la sua capacità paradossale di “creare figure astratte” attraverso “forme naturali perfettamente definite, elaborate nei minimi dettagli”.

Eppure, a distanza di oltre un secolo, l’immagine popolare di Segantini resta prigioniera di quale cliché: “Più che un pregiudizio direi che è vittima del successo dei suoi temi, come accade per Van Gogh con la pazzia o Gauguin con l’esotismo – conclude D’Agati –. Il vero motore dell’espressione artistica è la forma, e nei quadri di Segantini i soggetti hanno valore perché c’è una grande ricerca formale rigorosa li sostiene e li trasfigura”. Per capire davvero Segantini occorre insomma guardare non soltanto ciò che dipinge, ma come lo dipinge: solo così l’immagine stereotipata del “pittore delle mamme e delle stalle” lascia spazio a un protagonista autentico della modernità.

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