SCIENZA E RICERCA
La diversità delle colture nei sistemi agricoli favorisce le rese in un clima che cambia
I sistemi alimentari di tutto il mondo stanno affrontando sfide complesse e per molti aspetti senza precedenti: agli effetti sempre più evidenti dei cambiamenti climatici, che implicano anche una maggiore frequenza di eventi meteorologici estremi, si uniscono perdita di biodiversità, degrado del suolo, volatilità dei mercati agricoli e altre crisi ambientali e socioeconomiche.
Parallelamente la domanda globale di cibo è in aumento: sulla Terra siamo già oltre 8 miliardi di persone e anche se la popolazione sta crescendo ad un ritmo inferiore rispetto al passato, si stima che saremo quasi 10 miliardi nel 2050. In questo contesto un tema chiave è la riduzione degli sprechi alimentari che impattano sull'ambiente e contribuiscono ad esacerbare l'insicurezza alimentare, ma occorre anche lavorare sulla produttività delle colture agricole, cercando però di limitare gli input esterni, come i fertilizzanti e prodotti per la difesa chimica. E tutto questo senza dimenticare un'altra questione centrale che è la disponibilità – in costante calo – di terreni da destinare a coltura: il rischio collegato a una minore produttività è infatti anche quello di dover aumentare l'estensione delle superfici coltivate.
Esperimenti sul campo condotti sul lungo periodo in Europa e in Nord America, nell’ambito di uno studio internazionale a cui ha partecipato anche l’università di Padova, hanno confermato che la diversificazione delle colture attraverso le rotazioni, può indirizzare l’agricoltura verso una maggiore sostenibilità rispetto alle monocolture, garantendo rese più elevate delle colture di cereali e minori esigenze di fertilizzanti. I risultati di questo lavoro di ricerca sono da poco stati pubblicati sulla rivista Communications Earth & Environment e hanno mostrato un picco delle rese con l'inserimento di quattro diverse colture nella rotazione.
Lo studio, intitolato Increasing crop rotational diversity can enhance cereal yields, si inserisce in un filone di ricerca da cui già in passato erano emerse conferme sui vantaggi dell'avvicendamento colturale, una pratica atavica nella storia dell'agricoltura e che nel corso dei secoli è stata gradualmente perfezionata. Questa volta però i ricercatori sono riusciti a comprendere più nel dettaglio il gradiente della diversità e lo hanno fatto su una scala temporale particolarmente estesa. Alcuni esperimenti sono durati oltre mezzo secolo e hanno portato ad una mole di dati particolarmente significativa che è fondamentale anche per le ricerche che si focalizzano sulla modellizzazione degli effetti dei cambiamenti climatici in agricoltura. In questo nuovo lavoro, coordinato dalla Swedish University of Agricultural Sciences, è stato dimostrato che l'utilizzo di colture con attributi molto diversi può essere una strategia per supportare la resa dei cereali in contesti geografici molto diversi tra loro. Oltre ai cereali primaverili e a quelli autunno-vernici sono stati infatti considerati anche legumi e broadleaves (come soia, colza, girasole o barbabietola).
I vantaggi in termini di resa della diversità della rotazione delle colture sono aumentati nel tempo, con una performance particolarmente significativa per il mais, e lo sono ancora di più se si confrontano i raccolti con quelli di un sistema poco concimato e in regime di monocoltura.
Abbiamo approfondito i risultati di questo studio insieme ad Antonio Berti e a Francesco Morari, professori del dipartimento di Agronomia, animali, alimenti, risorse naturali e ambiente (DAFNAE) dell'università di Padova ed entrambi tra i coautori della ricerca.
Antonio Berti e Francesco Morari del dipartimento Dafnae dell'università di Padova illustrano lo studio sui vantaggi delle rotazioni colturali. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar
Le relazioni tra complessità delle rotazioni e aumento di resa
I primi agricoltori si accorsero dei benefici delle rotazioni in tempi molto remoti: la pratica faceva parte già della civiltà greca e di quella romana e a partire dall'epoca medievale da biennale divenne triennale. Variare periodicamente le specie agrarie coltivate nello stesso appezzamento permette infatti di migliorare il terreno sotto il profilo organico, aumentandone la fertilità e dunque anche le rese, senza bisogno di "spingere" le produzioni attraverso i fertilizzanti e contemporaneamente consente anche di limitare il rischio di comparsa delle principali avversità delle colture.
"Le rotazioni sono uno dei capisaldi principali dei manuali di agronomia. La novità di questo lavoro è che probabilmente è il primo al mondo ad avere messo insieme una quantità di dati così elevata (parliamo di oltre 27.500 dati), provenienti da diversi ambienti, la cui analisi ha permesso di quantificare i benefici che derivano dall’aumento di complessità e di biodiversità delle rotazioni, nei sistemi arativi, quindi nei sistemi più produttivi", introduce il professor Francesco Morari del dipartimento Dafnae dell'università di Padova..
Per ottenere questi risultati sono stati analizzati i dati produttivi che derivano da 32 esperimenti estesi su un ampio arco temporale, di durata tra i 10 e i 64 anni. "Vorrei sottolineare lo sforzo compiuto dai ricercatori che per anni sono riusciti a mantenere questi esperimenti di lungo periodo. In particolare le prove di realizzate dall'università di Padova sono attive dal 1962 e sono le più antiche in Italia. Questa prova, che era nata durante la rivoluzione verde per insegnare agli agricoltori come concimare e irrigare, ci consente oggi di studiare gli effetti dei cambiamenti climatici sulle produzioni, sulla qualità del suolo, sul sequestro di carbonio", prosegue il docente e coautore della ricerca.
Le specie considerate nello studio
Parlando di prove di lungo periodo, osserva Morari, la programmazione era già definita dalle domande sperimentali che si erano posti i ricercatori all’epoca. "Abbiamo comunque cercato di individuare delle colture indice, dei gruppi di colture che fossero diffuse nei diversi ambiti geografici studiati. In Europa abbiamo considerato la direzione nord-sud, dalla Svezia fino al sud-Italia e alla Spagna, mentre nel continente americano ci siamo focalizzati sul Nord America, con una notevole variabilità climatica e pedologica. Abbiamo individuato tre gruppi di colture: cereali primaverili, cereali autunno-vernini e il mais. E’ ovvio che per le prove che sono state condotte nei climi più freddi sono stati considerati i cereali con semina primaverile, oltre che quelli autunno-vernini".
Contemporaneamente sono state considerate altre specie che non fossero cereali. "Quindi ad esempio patata, colza, cavolo rapa e barbabietola. Mentre per quanto riguarda le rotazioni dei climi più meridionali compaiono soia, sorgo e girasole, colture che qui in Nord Italia vedremo comparire sempre più spesso", prosegue il professor Morari.
Benefici che si estendono nel tempo
Dallo studio è emerso che il vantaggio di rendimento legato alla diversificazione colturale è aumentato nel tempo, almeno fino ai 35 anni che rappresentava il termine di proiezione dei dati. "In seguito sul lunghissimo periodo dipende molto da cosa si sta confrontando. Ci sono alcune piante come il mais dove il problema è sostanzialmente quello della nutrizione, cioè fornire la pianta di azoto ma non solo. Il vantaggio della diversificazione colturale è che consente di mantenere un livello di resa elevato pur con degli input più bassi. Per altre colture i problemi principali riguardano l’interazione con l’ambiente ecologico e la comparsa di malattie e insetti. Nel primo caso il vantaggio della diversificazione si stabilizza nel tempo, ma il confronto con sistemi più semplificati rimane comunque positivo. Nel secondo caso invece il vantaggio tende ad aumentare: più si riesce a diversificare l’agro-ecosistema, meno avversità si presentano ed è un grande beneficio in termini di minore concimazione e uso della chimica", spiega il professor Antonio Berti del dipartimento Dafnae dell'università di Padova.
L'importanza delle prove di lungo periodo
Come abbiamo già detto a rendere particolarmente robusto questo studio è il fatto che i ricercatori hanno mantenuto esperimenti a lungo termine, testando i raccolti di diverse rotazioni delle colture per decenni e in molti luoghi.
"Per noi le prove di lungo periodo sono estremamente importanti perché dobbiamo capire cosa accade a un sistema che ha un’evoluzione lenta", osserva al riguardo il professor Berti spiegando che normalmente i sistemi agricoli sono estremamente stabili ma quando cominciano a muoversi hanno una fortissima inerzia. "Se pensiamo, ad esempio, al contenuto di sostanza organica nel suolo prima di cogliere dei cambiamenti passano anni, ma quando il sistema evolve poi queste modificazioni proseguono su un arco temporale esteso.
“ Capire come funziona un sistema ecologico richiede delle osservazioni su tempi molto lunghi Antonio Berti
Al riguardo il professor Berti aggiunge che il dipartimento Dafnae dell'università di Padova ha ottenuto, insieme alle università di Torino, Perugia, Firenze, Catania e Sassari, un finanziamento specifico nell’ambito del PNRR, finalizzato a migliorare dal punto di vista operativo le prove che sono in atto in vari atenei italiani. L'obiettivo è allineare i sistemi di misura e avere dei database comuni. "Stiamo cercando di strutturare una rete italiana con dei sistemi di monitoraggio per capire quali sono le evoluzioni in ambienti diversi, come la pianura padana, l'Italia centrale e il sud-Italia".
"Questa prova di lungo periodo viene svolta presso l’azienda agraria sperimentale dell'università di Padova e il database verrà utilizzato anche per un altro progetto nell’ambito del Centro nazionale Agritech, cioè riuscire ad elaborare modelli previsionali di lungo periodo. Ci concentriamo sullo studio degli effetti dei cambiamenti climatici nei prossimi 100 anni e senza questi dati non sarebbe possibile tarare i modelli. Sono esperimenti che hanno un’importanza non solo per i dati sperimentali ma anche quello che possono produrre in termini di modellistica agroambientale", aggiunge il professor Francesco Morari che da qualche mese è anche direttore dell'azienda agraria sperimentale.
Da cosa dipendono i vantaggi delle rotazioni?
Come abbiamo già sottolineato, lo studio ha mostrato che il passaggio a rotazioni attentamente progettate e gestite può aumentare i raccolti oltre i 30 anni, riducendo al contempo la necessità di fertilizzanti. Ma da quali fattori dipendono questi benefici in termini di rese?
"La diversificazione permette di usare in maniera più omogenea tutte le risorse del terreno. Ogni pianta ha delle sue specificità e se si utilizzano sempre piante molto simili tra di loro si tende a esaurire un comparto, a livello di nutrienti e componenti biologiche, e magari non utilizzare altre risorse presenti. L’alternanza di colture diverse e di cicli di piante che crescono in stagioni differenti, così come piante caratterizzate da una differente profondità di apparato radicale, permette di utilizzare in maniera più omogenea il sistema, senza esaurire qualche comparto. C’è poi tutto l’aspetto delle avversità biologiche: ogni coltura crea una finestra temporale, tra semina e raccolta, e se coltiviamo piante che hanno sempre lo stesso ciclo tendiamo ad applicare sul sistema ecologico una forte pressione selettiva. Quando si alternano piante diverse e cicli diversi non applichiamo una forte pressione di selezione e questo mantiene più stabile il sistema ecologico.
La rotazione e la diversificazione colturale sono la base per cercare di contenere da un lato l’apporto di fertilizzanti e dall’altro di ridurre la chimica in agricoltura e non essere costretti a spingere sui sistemi di controllo", continua Antonio Berti.
"Questo non vuol dire che una monosuccessione non possa produrre", osserva Francesco Morari, precisando che "il problema è che con la monosuccesione gli agricoltori riescono a ottenere rese soddisfacenti spingendo sugli input chimici, fertilizzazione, diserbi e trattamenti antiparassitari".
Per questo motivo, puntualizza il docente, l'Ue nell'ultima Politica agricola comune ha spinto molto sulle rotazioni, rendendole di fatto quasi obbligatorie (ci sono comunque alcune deroghe) per gli agricoltori che vogliono mantenere il pagamento di base. La norma sarebbe dovuta partire già quest'anno, ma è stata fatta slittare al 2024 a causa delle tensioni sui mercati dei seminativi provocate dalla guerra in Ucraina.
"L’obiettivo per il futuro è ridurre l’energia ausiliaria immessa nel sistema produttivo, dobbiamo cercare di limitare l’utilizzo di prodotti chimici che hanno anche un costo energetico. Oggi più della metà della popolazione mondiale riesce ad assumere delle proteine perché ci sono i fertilizzanti: al momento attuale il nostro sistema produttivo può essere migliorato e possiamo ridurre l’esigenza di immettere nei sistema dei fattori produttivi dall’esterno. Non potremo mai eliminarli. Bisogna però ridurre la dipendenza al minimo fisiologico a cui possiamo puntare. E’ un processo continuo e le rotazioni sono una delle vie importanti per andare in questa direzione", afferma Morari.
La produzione mondiale di cibo si basa su una manciata di colture
Nel corso degli ultimi decenni la strategia più frequentemente utilizzata per rispondere alla domanda di cibo è stata una pianificazione dei sistemi agricoli che tende in larga parte a privilegiare un numero limitato di colture importanti. Come sottolinea un rapporto della Fao, delle circa 6.000 specie di piante coltivate per il cibo, meno di 200 contribuiscono in modo sostanziale alla produzione alimentare globale e solo nove rappresentano il 66% della produzione totale. Di fatto la popolazione mondiale fa affidamento su una manciata di colture, un numero limitato di tuberi e cereali, e questo sta rendendo l’agricoltura non solo meno sostenibile e biodiversa, ma anche più vulnerabile davanti agli effetti dei cambiamenti climatici.
Al tema è dedicato un recente speciale pubblicato sulla rivista Pnas dove attraverso molteplici contributi scientifici si è ragionato sulle opportunità per aumentare la diversità delle colture e migliorare le quattro dimensioni della sicurezza alimentare: disponibilità, accesso, stabilità e utilizzo. La diversificazione, scrivono Susan R. McCouch e Loren H. Rieseberg nell'introduzione, è spesso presentata come vantaggiosa dal punto di vista sociale e ambientale ma non bisogna dimenticare che i sistemi agroalimentari coinvolgono reti complesse, spesso caratterizzate da relazioni non lineari tra diversità genetica delle colture, diversità dei sistemi agricoli, diversità delle opportunità di mercato e diversità nutrizionale.
"E’ sicuramente vero che le grandi basi alimentari sono relativamente poche. Però bisogna anche considerare che cosa fa di una pianta una base alimentare. Deve essere produttiva, dare un prodotto conservabile, che normalmente sono dei semi secchi che si possono conservare da un anno all’altro senza problemi, essere molto adattabile ad ambienti diversi e anche a durate del giorno diverse. Pensiamo al frumento e all’orzo che sono partiti da un angolino dell’Anatolia e hanno occupato tutto il mondo o al riso che dall’Asia è arrivato ovunque. Inoltre una pianta per essere utilizzabile in agricoltura deve essere presente in un qualche mutante che abbia la caratteristica di non disperdere i semi prima che riusciamo a raccoglierli. Insomma, è una serie di combinazione di fattori che limita molto il numero di piante possibili. Alla fine le grandi basi sono i cereali, alcune leguminose da granella e la patata che è un tubero fatto per sopravvivere da un anno all’altro", osserva il professor Antonio Berti.
"La situazione è molto diversa se consideriamo verdura e frutta: sui prodotti freschi viene utilizzata una varietà di piante molto ampia ma non sono così conservabili, quindi non sono una grande base alimentare se non localmente. Bisogna però considerare che all’interno delle specie maggiormente impiegate esiste comunque una grandissima varietà. Quando parliamo di frumento ci riferiamo ad almeno tre specie e a un notevole numero di sottospecie, con caratteristiche anche piuttosto differenti. C’è ancora oggi una riserva di variabilità genetica molto ampia che dobbiamo preservare: qui il ruolo di tutti i sistemi delle banche del seme, di collezione della variabilità è estremamente importante e su questo il nostro dipartimento sta lavorando parecchio, in particolare, ma non solo, per quanto riguarda il mais. Dobbiamo riuscire a conservare le varietà minori non tanto per reintrodurre necessariamente in coltivazione, ma per avere una base genetica che ci permetta di fare degli incroci e di ottenere qualcosa di diverso che sia anche adattabile a situazioni mutevoli. Non dobbiamo focalizzarci su poche linee genetiche molto ben definite", prosegue il docente.
"Per noi che abbiamo studiato scienze agrarie 30 anni fa la rivoluzione verde è stata qualcosa che ha consentito di sfamare la popolazione. In questo momento è fortemente messa in discussione. E' vero che c’è stato un periodo in cui la chimica è stata applicata in modo disastroso, come sottolineò il libro Primavera silenziosa, ma la situazione è molto cambiata. Sull'ambiente c'è sicuramente ancora molto da migliorare e ridurre gli input chimici vuol dire anche contenere le emissioni di gas serra e la volatilizzazione di ammoniaca. Dobbiamo però avere un atteggiamento abbastanza cauto e basato su principi scientifici altrimenti rischiamo di prendere delle strade che potrebbero avere delle conseguenze negative anche in termine di soddisfacimento del fabbisogno alimentare globale", conclude il professor Francesco Morari.