CULTURA

Dove sta andando la letteratura (di genere)?

La scorsa domenica a Bologna si sono tenuti gli “Stati generali della letteratura di genere”, da un’idea di Patrick Fogli e Massimo Carlotto, per fare il punto tra addetti ai lavori sullo stato dell’arte di quella che – inopinatamente – viene ritenuta una letteratura di serie B. L’incontro era aperto al pubblico e proseguiva idealmente gli “Stati generali dell’immaginazione”, in cui l’oggetto del discutere erano la scrittura e le storie non necessariamente “di genere”. L’idea dei due scrittori è quella di riunire colleghi e colleghe perché riflettano insieme, a trecentosessanta gradi, sul loro lavoro e sulle sue conseguenze, ma anche sulla sua genesi, entrando in dialogo con i lettori e con chiunque abbia voglia di partecipare e interagire.

Il gesto della scrittura, infatti, non è fine a se stesso, come ha chiosato tra un talk e l’altro Fogli: “Si scrive perché si ha qualcosa da dire”. Si scrive per saziare il proprio e l’altrui bisogno di storie.

Al microfono si sono alternati sedici tra scrittori e scrittrici (Paolo Panzacchi, Alessandro Vietti, Marco Bettini, Otto Gabos, Cecilia Lavopa, Andrea Cotti, Antonio Paolacci con un intervento a quattro mani con Paola Ronco Valerio Calzolaio, Antonella Cilento con una discettazione letta al pubblico da Massimo Carlotto, Sara Vallefuoco, Valerio Varesi, Carlo Lucarelli, e infine gli stessi Patrick Fogli e Massimo Carlotto) che in dodici minuti ciascuno hanno aperto finestre, dall’interno, sul mestiere, il fine e il senso della letteratura di genere. Il panorama che è andato tracciandosi è interessante, soprattutto perché sovrappone convinzioni assodate a nuovi interrogativi, sinceri al punto che risposte drastiche potrebbero portare alla ridefinizione del sentiero finora tracciato.

Oggi tutto è genere Patrick Fogli

Carlo Lucarelli ha, per esempio, evidenziato quanto tempo sia ormai passato e come i paradigmi siano cambiati da quando nasceva, a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, il genere del “nuovo giallo italiano”, pubblicato nella collana Giallo Mondadori, cui aderivano dapprima isolati esponenti, liberi di scrivere senza pressioni e aspettative da parte del pubblico e della filiera editoriale, proprio perché il genere era considerato un “ghetto letterario”, riunitisi poi in un movimento noto come “Gruppo 13” sotto l’egida di Loriano Macchiavelli.

“Siamo ancora noi quelli?” si chiede Lucarelli. “Siamo ancora bravi a fare quel tipo di letteratura?” cioè un canto fuori dal coro, che racconta il mondo senza veli e senza doversi piegare alle logiche del “totalitarismo tecnologico-finanziario” come lo ha definito Valerio Varesi, a dire che oggi il noir e il giallo, e più in generale il crime, come lo chiama Carlotto, si adeguano invece a un’omologazione di valori (e di forme) portata dalla serialità televisiva e dal bisogno di rassicurazione.

Abbiamo bisogno di sapere che il male viene sempre sconfitto, ci solleva che in ogni storia ci siano sempre un ispettore o un commissario dall’intuizione geniale che riporta l’ordine costituito, e ci semplifica la vita il fatto che la lettura non è mai troppo faticosa.

“Per anni ci siamo detti” ha affermato Fogli “che il noir aveva incarnato un ruolo di romanzo sociale, di romanzo politico, che aveva la capacità di indagare i lati oscuri della nostra società, di accendere barlumi di verità dove nessuno la vedeva, di fare collegamenti dove non si potevano fare, di dire quello che non si poteva dire”. La domanda che aleggia è: ma adesso è ancora vero? Il mercato, come sottolineato da Andrea Cotti, per i suoi meccanismi autoimmuni di produzione ipertrofica di libri dimenticabili, ha bisogno di renderlo “innocuo” per venderlo più facilmente. Carlotto rincara: la “bolla narrativa” in cui siamo immersi a causa delle scelte editoriali, basate non sulla qualità ma sul venduto e che impoveriscono la moltitudine e l’efficacia delle voci, porta il lettore a stancarsi e cercare altro. Altro anche dalla lettura. Perché questa è un processo immersivo e lento, spiega Marco Bettini, come tutti quelli legati all’empatia, e richiede la presenza di un "cervello che legge". Siamo collettivamente sempre meno abituati a farlo, e il lavoro dello scrittore non può che perdere di autorevolezza, se i lettori smarriscono la capacità di immergersi in un mondo cognitivo e psicologico altro. Cosa che non ha a che vedere strettamente con il genere, ma è valida in generale. E a questo proposito ci si continua a chiedere, quasi ossessivamente, se abbia senso distinguerlo dalla letteratura tout court.

Fogli cita Wilde secondo cui “i libri sono [solo] scritti bene o scritti male”, Varesi, cercandone una definizione, afferma che il genere si occupa dell’universale umano, tanto quanto la letteratura tutta, ma ad ascoltare gli interventi, che riconoscono la funzione sociale del noir, per esempio, pare evidente che un suo nome proprio possa permetterselo.

Eppure “oggi tutto è genere” aggiunge Fogli provocatoriamente “e l’unica cosa che è rimasta del genere è un’etichetta utile ad appiccicare un colore su un libro, a sapere dove scaffalarlo, a consentire a un lettore, sempre più cliente e sempre meno lettore, di portarsi a casa qualcosa che durerà giusto il tempo di leggerlo e che gli consenta di sedersi comodo sulla sua poltrona e in mezzo alle parole”.

Oltre al noir ci sono anche la fantascienza, il fantasy, il romanzo storico e il romance e non solo. Quest’ultimo in Italia costituisce un quinto del venduto e complessivamente, nel mondo, viene acquistato un romanzo rosa ogni due secondi: è espressione, fa notare Carlotto, di una visione fortemente maschile, patriarcale e ideologica. Tutto il contrario del crime, ma altrettanto ben definita. Fantascienza e romanzo storico a loro volta hanno una missione propria, seppure, anche in questi casi, il confine tra genere e letteratura sia sfumato. Spiega Sara Vallefuoco, autrice di romanzi storici, che il margine d’interesse di questo genere sta nella possibilità di indagare la storia non raccontata: quella che rivela il sistema di valori della comunità in cui le vicende si annidano. In questo senso concede, per paradosso, di raccontare il presente in modo fortemente libero e liberatorio.

La fantascienza, invece, per Alessandro Vietti è una sorta di “genere di Schrödinger” perché moltissimi grandi romanzi “generalisti” potrebbero essere, senza tema di smentita, definiti romanzi di fantascienza, da La strada di Cormac McCarthy a Non lasciarmi del Premio Nobel Ishiguro, da Sotto la pelle di Michel Faber a Il cerchio di Dave Eggers, solo per fare qualche esempio. È forse dunque il genere “negli occhi di chi guarda”? Di chi legge? Degli editori che decidono le strategie di vendita?

Ha detto agli Stati generali Patrick Fogli: “Il genere è letteratura ed è una regola e la devi conoscere, se la vuoi sfondare, e la devi sfondare, Santi Numi. Eco lo sapeva, eccome. Il genere è un’appartenenza, non può essere una prigione […] Per indagare il mondo serve un’ossessione. Per guardare in faccia al mondo, le dita infilate nel buio e nella merda che siamo, ognuno di noi un po’, serve più coraggio che per raccontare la tua disgrazia. Il male esiste”.

Cosa possono o devono fare gli scrittori e le scrittrici? Continuare? Rifondare? Opporsi alle logiche di mercato? Assecondare l’andare dei tempi? Pretendere che il genere non sia una nicchia? Salvarlo? Affogarlo? Cosa possiamo o dobbiamo fare noi tutti che leggiamo?

Noi leggere. Loro scrivere.

Il genere è letteratura ed è una regola e la devi conoscere, se la vuoi sfondare Patrick Fogli

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