Due libri che parlano, genericamente, di preistoria. Ma siccome la preistoria è lunga, questi due libri, insieme, ci stanno dentro benissimo.
Uno è l’ultimo di Giorgio Manzi, paleoantropologo e autore di tanti altri saggi che ci hanno spiegato l’evoluzione umana e ci hanno aggiornato di continuo sui dibattiti che animano la ricerca. Il libro si intitola L’ultimo Neanderthal (Il Mulino), perché ruota sull’espediente narrativo di un incontro onirico tra Manzi e l’ultimo Neanderthal, appunto, prima dell’estinzione, un po’ in stile intervista impossibile di Italo Calvino. L’altro libro lo firma Silvia Ferrara (Il salto – Segni, figure, parole: viaggio all’origine dell’immaginazione, Feltrinelli), filologa ed esperta di scritture antiche, che dopo aver scritto un libro sull’invenzione della scrittura fa un salto indietro nel tempo e qui racconta le meravigliose espressioni creative della nostra specie precedenti a quel momento. Segni, figure dipinte in grotte inaccessibili, petroglifi, geoglifi, costruzioni monumentali, che l’autrice insegue e descrive per mestiere, e che qui racconta con un passo un po’ da letteratura di viaggio.
Questi due libri sono quindi molto diversi tra loro e parlano di cose avvenute in archi temporali che vanno a sfiorarsi. Ne scriviamo insieme per almeno due ragioni. La prima: raccontano l’interesse del lettore su questi temi, che probabilmente non passano mai di moda ma su cui oggi c’è molto più di quello che si trovava un tempo in libreria. E poi perché per noi, per la nostra percezione limitata, la preistoria è un tempo lontano in cui i nostri antenati erano grossi e un po’ scemi, vestivano di pellicce puzzolenti, e al limite si cucinavano due spiedini al fuoco di un falò. Ma la realtà è che, come dice molto bene Manzi, il 99,5% dell’esistenza del genere Homo è avvenuto nella preistoria, e se anche vogliamo restare pervicacemente affezionati a Homo sapiens questa percentuale cala poco, e arriva al 95%. I Neanderthal invece nella preistoria sono nati, vissuti ed estinti. Dunque: è il nostro passato ma anche quasi tutta la nostra esistenza ed è la completa esistenza del nostro cugino più prossimo, che solo ieri l’altro si è estinto.
È doveroso sfatare alcuni miti. Per esempio, nella preistoria non ci si viveva affatto male. Le riflessioni di Silvia Ferrara lo mostrano molto bene: quello era un tempo in cui ci si poteva avventurare nel fondo della grotta per dipingere. Non sapremo mai perché farlo, ma dobbiamo riconoscere, e le neuroscienze moderne ci aiutano a farlo, che quel gesto testimonia l’avvenuto salto cognitivo verso un pensiero astratto, prodromo dell’invenzione della scrittura. Poco utile perdersi in interpretazioni mistiche (di fronte ai misteri della preistoria saltano fuori sempre letture sciamanico-religiose, come se queste fossero le uniche ragioni per dipingere un bisonte su una parete rocciosa o l’impronta della propria mano), o in letture che usano le nostre categorie moderne per interpretare il passato.
Su questo i due autori spendono diverse righe interessanti. Manzi lo chiama “modernismo”: non è infastidito dal Neanderthal “icona pop”, ma da quello che gli si è voluto mettere addosso e far fare, per compiacerci di essere rimasti soli uomini su questa Terra. E, tra parentesi, non è affatto vero che un Neanderthal vestito come noi e aggrappato a un corrimano della metropolitana sarebbe ai nostri occhi “uno di noi”: i Neanderthal ci assomigliavano, ma non così tanto. Altra parentesi: invece è vero che qualcuno dei nostri antenati si è accoppiato con qualche Neanderthal e che di questo è rimasta traccia nel nostro DNA.
Perciò ecco altre due ragioni per parlare insieme di questi libri: raccontano storie ancora aperte, in cui per esempio le datazioni possono dare risultati ambigui e aprire scenari molto diversi, come spiega bene Ferrara a proposito delle famose grotte di Chauvet e Lascaux. Storie in cui la ricerca scientifica permette oggi avanzamenti rapidi e dà risultati sempre più raffinati, per esempio con la genetica che corre tra le pagine di Manzi, che permettono di risolvere (o almeno di restringere l’obiettivo su) annosi problemi dello studio della preistoria.
E soprattutto nel raccontare la preistoria parlano di noi: di come funziona la nostra mente, di come funziona la nostra biologia, di chi siamo e di come abbiamo colonizzato il pianeta fino a diventare una specie capace anche, ovviamente in epoca storica, di scrivere di sé. E di avere un po’ di rimpianti per quel cugino che si è estinto qualche decina di anni fa e che Giorgio Manzi, di quando in quando, ha il privilegio di incontrare in sogno.