REUTERS/Ayman Al-Sahili
Da oramai più di due mesi sentiamo quotidianamente parlare di distanza sociale, di norme igieniche, di covid e di tutte le precauzioni necessarie per evitare di essere contagiati. In Italia, come in altri paesi, si sta iniziando ad organizzare la cosiddetta “Fase 2”, cioè quel momento in cui la vita deve cercare di tornare ad essere attiva, tra allentamento della costrizione casalinga e riaperture di fabbriche e negozi.
C’è chi però tutto questo lo vive in un modo totalmente diverso da noi. Parliamo, anche ma non solo, delle migliaia di persone che già prima dell’esplosione della pandemia erano stipate in posti privi delle basilari norme igieniche e quotidianamente picchiati e torturati. La loro unica colpa, anche se non può esistere alcuna colpa al mondo che giustifichi tali barbarie, era ed è sempre la solita: cercare una nuova vita in Europa.
Abbiamo parlato spesso della situazione libica, di che cosa sono in realtà quelli che dovrebbero essere chiamati centri di accoglienza e di come in Libia sia ben distante la soluzione alla guerra in atto tra il Governo di accordo nazionale (Gna) e l’Esercito nazionale libico (Lna).
In tutto ciò ci sono persone, migliaia di persone, che questa situazione la possono solo subire, senza vie di fuga e senza possibilità di scegliere. Con il miglioramento delle condizioni meteo, come spesso accade, sono riprese le partenze dalle coste libiche verso l’Europa. La situazione sanitaria europea però la conosciamo tutti e, come riportato qualche settimana fa, anche l’Italia si è dichiarata un porto non sicuro a causa del coronavirus.
Solo pochi giorni fa il nostro Governo ha deciso di far comunque sbarcare le persone soccorse in mare dalla nave Alan Kurdi della Ong tedesca Sea Eye, trasbordandoli a bordo del traghetto Rubattino della Tirrenia, dove resteranno in quarantena in attesa di essere poi redistribuiti tra i paesi dell’Unione Europea. Una soluzione che ha permesso quindi, in qualche modo, ai 149 migranti di giungere in Italia.
Molti altri però questa possibilità non sono riusciti a raggiungerla. Il 17 aprile scorso l’IOM ha espresso preoccupazione per il destino di centinaia di migranti fermati dalla guardia costiera libica e riportati nei centri di detenzione. Persone che di fatto diventano invisibili, sia agli occhi libici che agli occhi europei. L’IOM ha provato ad ipotizzare quante siano queste persone, rifacendosi anche ai dati ufficiali del governo libico, del quale però conosciamo a fondo la precarietà. “Secondo dati recenti del governo - ha scritto l’IOM in una nota -, circa 1.500 persone sono attualmente detenute in 11 centri della direzione statale per la lotta alla migrazione illegale (DCIM)”. Questo sarebbe il numero più basso dall'ottobre 2019.
Un dato però che deve necessariamente sommarsi a quello delle persone fermate dalla guardia costiera libica. Secondo l’organizzazione solamente nel 2020 sarebbero più di 3.500 i migranti fermati mentre erano già in mare. Si tratta di uomini, donne e bambini riportati in strutture di cui si conosce poco e nelle quali l’IOM stessa non può accedere.
“ Molti migranti questa possibilità non sono riusciti a raggiungerla
"La mancanza di chiarezza sul destino di queste persone scomparse è motivo di grave preoccupazione", ha dichiarato il portavoce IOM Safa Msehli. "Siamo a conoscenza di numerosi resoconti di prima mano sugli abusi che si verificano all'interno dei sistemi di detenzione formale e informale in Libia".
Ciò che può accadere a queste persone purtroppo è ipotizzabile perché il copione sembra sempre lo stesso. I migranti vengono picchiati, torturati anche al solo scopo di estorcere loro denaro. Violenze ed abusi ampiamente documentati anche in passato dai media e dalle agenzie delle Nazioni Unite.
Una spirale, quella dei tentativi di imbarcarsi e conseguenti arresti, che non sembra placarsi. Nell’ultima settimana infatti sarebbero stati 800 i migranti partiti dalle coste libiche.
In Libia i casi accertati di coronavirus sono ancora in numero ridotto (51), ma non è difficile comprendere come la già precaria situazione delle persone nei centri di detenzione, fatta di violazioni dei diritti umani e norme igieniche pressoché esistenti, possa essere considerata una bomba ad orologeria.
Vale per la Libia, vale per i campi profughi in Grecia e vale per tutte le situazioni che l’Unione Europea è solita lasciare in secondo piano, preferendo spesso la disputa politica al trovare una soluzione definitiva. La pandemia che stiamo vivendo ci sta facendo accorgere che siamo deboli, ci sta facendo rendere conto che nessuno è immune: il virus non sceglie la nazionalità, non bada al reddito. Mentre siamo ancora chiusi nelle nostre case, un pensiero a chi una casa non ce l’ha, a chi cerca la salvezza trovando invece violenza e torture, a chi semplicemente è meno fortunato di noi dovrebbe essere umanamente accettato. Se c’è una lezione che questo virus ci sta impartendo è che da soli non si esce da nessuna situazione, senza la solidarietà e la partecipazione è impossibile uscire da questa situazione, senza dubbio spiacevole. Una lezione però che dovrebbe valere anche in tema di migrazioni, perché non è voltandosi dall’altra parte che si può trovare il metodo migliore per affrontare una situazione delicata.