SCIENZA E RICERCA

Un ecosistema lussureggiante nell’Artico antico

Siamo nell’Artico. Qui, gli inverni lunghi e bui, le rigide temperature e il terreno gelato rendono difficile la sopravvivenza per la maggior parte degli organismi viventi oggi esistenti. La tundra, un ampio bioma composto principalmente da specie vegetali che ricopre le regioni subpolari, lascia spazio, nelle aree più fredde, ai deserti artici, dove non esiste vegetazione.

Eppure non è sempre stato così: nel corso della storia della Terra, infatti, il clima ha subìto notevoli oscillazioni, alle quali gli ecosistemi del pianeta hanno di volta in volta risposto adattandosi o modificandosi.

È il caso, tra molti altri, della Groenlandia settentrionale, una regione ben più a nord del circolo polare artico e che tuttavia, nonostante la sua posizione geografica, non è sempre stata caratterizzata da un clima freddo. Come ricostruito da diversi studi paleoclimatologici, tra la fine del Pliocene e l’inizio del Pleistocene (in un periodo di tempo compreso tra 3,6 e 0,8 milioni di anni fa) vi fu un innalzamento delle temperature paragonabile a quello previsto nei prossimi decenni, innescato dai cambiamenti climatici di origine antropica. In regioni come il nord della Groenlandia, in quel periodo, vi erano probabilmente temperature superiori di 10°C rispetto alle medie attuali.

L'intervista completa con Andrea Squartini. Servizio di Sofia Belardinelli, montaggio di Barbara Paknazar

Come riporta uno studio pubblicato sulla rivista Nature, temperature così miti ebbero effetti considerevoli sulle comunità ecologiche locali, molto diverse, in quel periodo, rispetto a quelle che abitano oggi quei territori.

I risultati riportati nell’articolo sono il frutto del lavoro più che decennale di un esteso gruppo di ricerca internazionale che si è concentrato sulle formazioni rocciose di Kap København, nella Groenlandia nord-occidentale. Studiando campioni di DNA ambientale recuperati in quell’area – nota per la presenza di fossili molto antichi – i ricercatori sono riusciti a ricostruire l’ecosistema che avremmo potuto ammirare in quella regione circa due milioni di anni fa.

I risultati raggiunti dall’équipe sono notevoli sotto tutti i punti di vista: in primo luogo, infatti, in questo studio si dà conto del più antico campione di DNA mai ritrovato finora, risalente a circa due milioni di anni fa (il precedente record era detenuto da un frammento di DNA di mammut, risalente a un milione di anni fa); in secondo luogo, e altrettanto degna di nota, è la ricostruzione della comunità ecologica locale, ben più ricca e lussureggiante rispetto a quella odierna, e composta da un insieme di specie che oggi non convivono in nessuna regione del pianeta.

Inoltre, è interessante approfondire la metodologia attraverso la quale questi risultati sono stati raggiunti: l’estrazione e la lettura del DNA ambientale sono metodiche abbastanza recenti, seppur già affermate, che aprono molte nuove possibilità di ricerca. Come spiega Andrea Squartini, professore di microbiologia ambientale all’università di Padova, «il DNA ambientale è come una biblioteca perduta e sepolta nel terreno, all’interno di formazioni rocciose, nella profondità dei sedimenti marini – ovunque si sia conservato. Grazie al DNA ambientale siamo in grado di scavare nel passato e ritrovare indizi scritti in un codice che siamo in grado di leggere e – in parte – di interpretare, e che offrono una descrizione di quel passato. È esattamente come accade agli storici, che rinvengono testi antichi che descrivono condizioni di vita, usi e costumi dell’epoca in cui il testo fu scritto».

«L’analisi del DNA ambientale è molto interessante per i biologi, ma necessita di accorgimenti e cautele», prosegue il professore. «In primo luogo, bisogna usare cautela nei momenti del prelievo, della manipolazione e dell’estrazione del materiale, così da estrarre informazioni comprensibili e, al tempo stesso, avere cura di non distruggere quel che c’è proprio mentre cerchiamo di portarlo alla luce; tale prudenza è importante perché il DNA potrebbe già essere danneggiato e poco leggibile prima della manipolazione».

Le difficoltà nel trattamento di questo materiale organico sono diverse: «Nell’estrarre DNA antico da sedimenti adatti a conservare materiale organico, siamo in parte agevolati dal fatto che sia il sottosuolo, sia la sostanza organica che racchiude il DNA coadiuvano le tecniche applicate dai ricercatori nello scopo di preservare qualcosa di intatto. Ci scontriamo, poi, con dei limiti biochimici intrinseci. La stabilità di un legame nucleotidico non è illimitata, e bisogna tenere in considerazione la degradabilità intrinseca alle proprietà chimiche del materiale di cui vogliamo decifrare le informazioni: su questo, purtroppo, non si può intervenire».

Infine, bisogna evitare di inquinare il DNA antico con contaminanti moderni, che potrebbero provenire dall’ambiente circostante o entrare in contatto con i campioni durante le operazioni di manipolazione: «È possibile, soprattutto quando si studiano microrganismi, che il DNA antico sia contaminato da batteri o funghi che sono penetrati in tempi recenti, che potrebbero essere arrivati addirittura durante il processo di campionamento, estrazione e manipolazione, o che potrebbero provenire dal terreno circostante, venendo trascinati in profondità anche in tempi recenti attraverso percolazione».

Nonostante le numerose difficoltà nel maneggiare questo genere di reperti, i ricercatori coinvolti nello studio sono riusciti a trarre informazioni preziose dai frammenti di DNA ambientale recuperati a Kap København. «La bellezza di questo studio – commenta Squartini – consiste nell’aver prodotto una vera e propria fotografia del passato. I ricercatori hanno realizzato un ottimo disegno sperimentale, studiando gli elementi che avrebbero contribuito al successo dell’esperimento stesso. Era noto, ad esempio, che in tempi antichi le condizioni climatiche di quell’area non corrispondevano a quelle odierne: non si tratta di una novità assoluta per chi si occupa di geologia e climatologia, ma è una dimostrazione controintuitiva delle fluttuazioni climatiche che hanno caratterizzato la storia del nostro pianeta».

L’antico ecosistema “fotografato” dai ricercatori è incredibilmente ricco in termini di fauna e flora. Sono stati identificati genomi di numerose specie arboree, nonché di uccelli (appartenenti alla famiglia Anatidae) e di diversi mammiferi: lepri, renne e caribù, e persino mammut. Quest’ultimo ritrovamento estende considerevolmente l’areale di questa specie rispetto alle conoscenze precedenti.

È sorprendente il fatto che questo ecosistema fosse caratterizzato da una comunità ecologica in cui conviveva un insieme di specie che oggi sono diffuse in aree diverse del pianeta, come le foreste boreali nordamericane e la regione artica, e che non coesistono più in nessuna regione della Terra. La composizione vegetale è dunque un unicum, un insieme di specie boreali e artiche che non ha analoghi nel presente. Inoltre, la presenza di animali erbivori di grandi dimensioni «potrebbe aver avuto un impatto significativo sulla taiga interglaciale, potenzialmente attuando un controllo trofico dall’alto sulla struttura e sulla composizione della vegetazione a così alte latitudini», spiegano gli autori della ricerca.

Tutto questo offre anche suggestioni per il presente, dal momento che, per via dei cambiamenti climatici, le temperature medie annuali aumentano rapidamente soprattutto nelle regioni polari. Analizzare questo ecosistema del passato suggerisce dunque come potrebbe evolvere il paesaggio artico in un futuro più caldo. Come precisa Squartini, tuttavia, «bisogna anche tenere a mente che in quella regione vi è una condizione particolare per la vita, cioè la lunga durata della notte artica. Gli esseri viventi devono dunque adattarsi a questa condizione estrema; in un ipotetico futuro processo di adattamento a quelle latitudini, ben poche tra le specie esistenti potrebbero sopravvivere con adeguati strumenti di compensazione».

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