SOCIETÀ

Estate 2021: il tempo del tifo sportivo in presenza e per televisione

L’11 giugno 2021, tra qualche giorno, si inaugureranno in Italia i Campionati europei di calcio, lo sport più seguito nel nostro paese. La partita d’esordio Italia - Turchia si svolgerà alle 21 in presenza di pubblico, il 25% della capienza del magnifico stadio Olimpico di Roma, circa 17 mila spettatori e spettatrici. Saranno in prevalenza italiani, anche se la presenza di turchi o altri stranieri non è inibita, oggettivamente complicata ma non vietata. Sarà più o meno così per tutte le partite degli Europei, fino alla finale dell’11 luglio a Wembley in Inghilterra (il Regno Unito ha più squadre “nazionali” di calcio). Non sarà così in Giappone per le Olimpiadi che inizieranno quasi due settimane dopo, il 23 luglio: gli eventi sportivi di tante discipline potranno essere visti in presenza solo da pubblico giapponese. Come ben sappiamo, peraltro, si tratta di “spettacoli” rinviati di un anno (erano previsti nelle stesse date del 2020), che hanno comunque un enorme pubblico televisivo: a distanza applausi e incoraggiamenti non fanno parte della dinamica sportiva, riguardano comunque decine di milioni di appassionati in ogni ecosistema umano del pianeta.

Nelle prossime settimane, appena finito il tennistico torneo grande slam Roland Garros a Parigi (domenica 13 giugno), sono anche previsti in Europa il ciclistico Tour de France (26 giugno - 18 luglio), il tennistico torneo grande slam di Wimbledon, non UE, (28 giugno - 11 luglio) e vari grandi eventi sportivi in altri continenti, come la stessa calcistica Copa America 2021 (11 giugno - 10 luglio), a luglio le finali NBA e la Stanley Cup di hockey su ghiaccio, ad agosto la Vuelta in Spagna e le  Paralimpiadi a Tokyo, e via gareggiando. Lo sport fa parte della vita di miliardi di sapiens, in vario modo. La distinzione prima e principale riguarda l’evidente forte differenza fra competizioni di singoli individui e competizioni di collettivi (squadre). Tennis ciclismo atletica nuoto fra le prime, calcio basket pallavolo baseball fra le seconde. La rigida separazione si diluisce spesso dal punto di vista dei praticanti, siano o meno professionisti: la coppa Davis o i mondiali di ciclismo o le staffette prevedono squadre nazionali, in ogni squadra ormai la specializzazione dei ruoli è sempre più rigida (non solo il portiere o il play o il libero o il lanciatore). Anche chi guarda tende a tifare esclusivamente per i singoli atleti connazionali, anche se non c’è inno nazionale al termine della gara e lo sport contemporaneo sembri piuttosto un inno al meticciato.

La seconda grande distinzione riguarda il funzionamento del tempo nei vari sport. Esistono due categorie molto diverse fra loro per lo svolgimento temporale e i suoi effetti pratici e strategici. Gli sport a tempo sono i più popolari e prevedono che l’esito di una competizione registri lo stato dell’arte (chi ha maggior punteggio) dopo un determinato tempo trascorso: 90 minuti (non effettivi) nel calcio, 40 (48 in NBA) minuti nel basket, 60 minuti nell’hockey. Viceversa, gli sport a risultato prevedono che una competizione finisca davvero solo quando uno dei contendenti raggiunge l’obiettivo prestabilito, sia esso un punteggio o una prestazione: vincere 2 (o 3) set nel tennis, 3 set nella pallavolo, correre 100 metri o saltare più degli altri in quel giorno (in lungo o in alto). Nello sport a tempo si può cercare di mantenere una situazione di punteggio positiva fino allo scadere del tempo; nello sport a punteggio non ci sono scorciatoie, per vincere bisogna raggiungere il punteggio prestabilito o una prestazione superiore alle altre. Così per esempio la probabilità di un risultato a sorpresa sarà spesso maggiore negli sport a tempo rispetto agli sport a risultato, nei quali il peso degli episodi fortuiti a favore è oggettivamente limitato.

Si potrebbe dire che negli sport a risultato prevale una quantità fisica materiale e negli sport a tempo l’orologio, pur se il regolamento di ogni sport mescola spesso date e vincoli temporali ai risultati acquisibili, oppure, detto in altri termini, pur se la durata del tempo necessario a conseguire un risultato condiziona sempre la stessa prestazione. Partiamo dal risultato quantitativo. In alcuni sport gli eventi che lo determinano sono rari se non addirittura assenti (le partite che finiscono zero a zero), in altri sono decine, in altri addirittura centinaia. Il metodo di costruzione dei punteggi varia in modo incredibile a seconda delle discipline e nella variazione influiscono in vario modo dinamiche temporali: nel calcio può essere un evento a determinare il risultato (1–0, solo un’azione determina il risultato), nel basket un centinaio abbondante di canestri (es: 118–109, più di metà delle azioni contribuiscono al risultato), nel tennis centinaia di punti (anche se non tutti i punti e non tutti gli errori sono “eguali” visto che alcuni fanno vincere un intero set al tiebreak, altri sono addirittura marginali per la prevalenza nel singolo game); innumerevoli sono le concatenazioni nell’atletica. È chiaro che negli sport a basso punteggio la casualità ha potenzialmente un ruolo determinante, mentre negli sport ad alto punteggio è sostanzialmente ininfluente o può avere impatti più che altro psicologici se influenza momenti decisivi delle competizioni.

Negli sport a risultato quantitativo e a lunga durata la probabilità di conclusioni a sorpresa è comunque alta, più è basso il punteggio richiesto. Prendiamo due estremi: calcio e tennis. Nel calcio può bastare un gol fortuito e una considerevole dose di buona sorte per vincere una partita sulla carta impossibile o dove si è giocato “peggio”. Nel tennis per vincere bisogna portare a casa centinaia di punti e arrivare all’obiettivo finale prima dell’avversario, per quanto non si sia “in forma”. La probabilità di risultati a sorpresa è bassissima a livello tecnico, solo in parte bilanciata da variabili tipiche degli sport individuali: condizione fisiche e componenti psicologiche. La maggior parte degli altri sport ricade in casi intermedi: l’hockey è sport a tempo e a punteggio medio-basso, meno imprevedibile del calcio ma pur sempre soggetto agli episodi; il basket è sport a tempo e ad alto punteggio, i risultati a sorpresa si manifestano con meno frequenza. In sostanza, gli sport ad alta imprevedibilità rendono talora interessanti anche incontri sulla carta non equilibrati, mentre gli sport a bassa imprevedibilità lasciano mediamente pochi dubbi sulle conclusioni: vincono quasi sempre i migliori, la fortuna è un fattore abbastanza marginale. Ciò si riflette sui praticanti come sui consumatori: noi spettatori introiettiamo un conseguente modo di seguirli, di rivedere i cosiddetti highlights, di valutare i protagonisti (e la loro “età”) come pure le stagioni agonistiche.

Il punteggio e il risultato quantitativo contano in modo risolutivo anche negli sport a tempo, ovviamente. Nella competizione o nel campionato alla fine qualcuno ha vinto, un altro o tutti gli altri hanno perso, almeno quel giorno o quell’anno. Tuttavia, sia l’atleta che lo spettatore hanno sempre in testa il ticchettio dell’orologio che via via che si va avanti diventa assordante. Il tempo che passa pesa anche negli sport a punteggio, ovviamente. Un conto è vincere-perdere un punto a inizio partita o fare un errore a due metri nel salto in alto maschile, ben altro conto quando accade dopo tre ore di dura competizione oppure a due metri e 35 centimetri. Pesa nel corpo affaticato, pesa nel cervello obnubilato. Parlarne freddamente a distanza dalla competizione, aiuta forse a riflettere un poco sullo stesso pluridimensionale concetto di tempo: cosa accidenti sia questa entità dentro la quale sembrano svolgersi le nostre vite, quella dell’intero universo e pure ogni singola competizione sportiva? Se ne è recentemente già parlato a partire da un saggio di Guido Tonelli. Il tempo è tante cose, alcune binarie e plurivalenti già nel modo di concepirlo e viverlo, fuori e dentro lo sport. Prendiamo ora spunto da un altro volume: Georg Northoff, Il codice del tempo. Cervello, mente e coscienza (traduzione di Maurizio Riccucci, Il Mulino Bologna, 2021).

Gli antichi greci conoscevano due divinità del Tempo, Chronos e Kairos; il tempo cronologico, quantitativo, lineare; il tempo contingente, qualitativo, permanente. Non avevano grandi torti: la loro relazione è stata riesaminata dalla fisica sia classica (la concezione del contenitore e del contenuto) sia contemporanea (la concezione costruttivistica, ondulatoria e relazionale) ed è il “nostro” tempo a renderci unicamente umani. Comunque, risulta sempre il cervello a costruire il tempo (e lo spazio), in modo dinamico, la struttura temporo-spaziale cambia di continuo. È poi la sua attività neuronale (onda su onda) che dà origine alle caratteristiche “mentali”, anche se la trasformazione neuromentale sfugge ancora alla nostra piena comprensione. Del resto, nessuno sa bene nemmeno quando è comparso il fenomeno della coscienza per noisapiens. E come la coscienza agisca poi sotto sforzo, nello sport per esempio.

Piuttosto che solo il cervello in sé, dobbiamo forse allora considerare la relazione del cervello con il mondo “esterno”, la sincronizzazione delle sue onde con quelle del corpo e del pianeta, oppure dell’evento sportivo cui si partecipa o assiste. La coscienza si basa sull’esperienza di noi stessi come parte di una realtà più ampia, si fonda sull’allineamento e sull’integrazione e si struttura in base alla durata e alla velocità. Le alterazioni nel modo in cui il cervello costruisce velocità e durata si associano a disturbi psichiatrici come l’autismo, la mania e la depressione. Pure gli (altri) animali sono caratterizzati da una specifica relazione reciproca mondo-cervello, hanno coscienza e senso di sé. Loro non fanno sport. Le nuove macchine guidate dall’intelligenza artificiale padroneggiano la relazione cervello (artificiale)-mondo ma mancano, invece, della relazione mondo-cervello (artificiale) e non hanno, quindi, caratteristiche mentali.

Il neuroscienziato, filosofo e psichiatra Georg Northoff (Amburgo, 1963) è cresciuto scientificamente in Germania e insegna ora in Canada, girando spesso il mondo per conferenze e ricerche. Da decenni padroneggia e fonde insieme (appunto) neuroscienze, filosofia e psicologia. Il volume citato è un’edizione di un testo originale tradotto in italiano, innumerevoli figure corredano tutti i sei capitoli, pieni di esempi e metafore, le più frequenti quelle del tango e del surf. Su un nodo insiste: il tempo del mondo è cruciale per la coscienza, che di per sé è atemporale; ovvero la coscienza è intrinsecamente neuroecologica e relazionale, non semplicemente neurocorporea; le funzioni motorie in sé (e quindi la relazione cervello-mondo) non sono necessarie per la coscienza (a differenza della relazione mondo-cervello); senza tempo non vi sarebbero né coscienza né Sé, che ci collegano agli altri e al mondo esterno. Noi sviluppiamo il nostro Sé dalla più tenera età e ce lo portiamo dietro, in buona sostanza, fino alla tomba. Sarà bene tenerne conto quando pratichiamo o guardiamo sport.

Il corpo e l’ambiente esterno cambiano, così la relativa realtà materiale; i nostri pensieri e le nostre cognizioni cambiano continuamente nel corso della nostra vita. Dati empirici dimostrano che la continuità temporale, l’integrazione e l’annidamento dell’attività spontanea codificano direttamente la coscienza di sé, collante mentale fra l’identità e la differenza, fra le prospettive interna ed esterna, fra il cambiamento e la persistenza. Le caratteristiche mentali come il Sé e la coscienza sono frutto della trasformazione delle onde del mondo nelle neuroonde del cervello, mentre il vero e proprio “concetto” di mente è altro, non serve: non è conseguente ma superfluo. Non accuratamente indagato è il fenomeno della separazione della storia sapiens delle emozioni e degli altri stati di coscienza dalla storia profonda dei circuiti animali di sopravvivenza: il cammino alla scoperta di noi stessi è ancora lungo, facciamolo con coscienza! I riferimenti bibliografici riguardano soprattutto studi collettivi di laboratorio, ai quali l’autore molto ha contribuito.

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