CULTURA

I “ferventi” che rivoluzionarono le scienze sociali

Jazz, primitivismo plastico e figurativo, surrealismo letterario e Joséphine Baker che ammalia il pubblico dal palco del teatro Champs-Élysées: il periodo tra le due guerre mondiali è ricchissimo di fascinazioni artistiche e culturali e Parigi è la sua capitale mondiale. Ma la ville lumière è anche il centro di una révolution che investe le scienze sociali: il contatto con altre culture, frutto maturo dell’età delle esplorazioni e dello sfruttamento coloniale, deve ora essere in qualche modo compreso e assimilato. I rapporti della burocrazia coloniale, i diari di viaggiatori e avventurieri e le lettere dei missionari non bastano più: serve un metodo nuovo, che non trascuri il rigore scientifico pur mettendo al centro l’uomo.

È in questo contesto che nasce e si sviluppa una formidabile leva di studiosi, che imprimerà per sempre la sua impronta sullo sviluppo di una scienza giovane e ancora bistrattata: l’etnologia. Una storia raccontata da Renzo Guolo nel suo ultimo libro I ferventi. Gli etnologi francesi tra esperienza interiore e storia (1925-1945), appena uscito per Mondadori Università: un volume che a prima vista potrebbe spiazzare per chi segue il sociologo dell’università di Padova, noto al grande pubblico come editorialista e autore di libri in particolare (ma non solo) su religione e politica e Islam europeo, ma che in realtà va diritto alle radici del rapporto tra differenti culture.

Intervista di Daniele Mont D'Arpizio; montaggio di Elisa Speronello

Il nuovo movimento si sviluppa attorno a due istituzioni scientifiche e culturali collegate: l’Istituto di Etnologia, fondato nel 1925 e animato dal sociologo Marcel Mauss, e il Museo di Etnografia (in seguito Museo dell’Uomo), nato nel 1878 ma radicalmente rinnovato dall’arrivo nel 1928 del medico e antropologo Paul Rivet. La differenza rispetto alla filosofia la fanno gli studi condotti rigidamente sul campo, quella dall’antropologia e soprattutto dall’etnografia il tentativo di restare ancorati alla dimensione sociale e culturale, piuttosto che alle caratteristiche fisiche come il colore della pelle e la forma del cranio. Non è un compito semplice: a livello accademico l’etnologia è considerata la sorella minore della sociologia, a sua volta ancella della filosofia, ma proprio da questa duplice minorità di partenza il movimento nascente saprà prendere la forza necessaria per andare avanti e svilupparsi.

Il libro nasce da una vecchia passione: il rapporto tra sociologia e antropologia nella prima metà del Novecento in Francia – spiega Renzo Guolo a Il Bo Live –, a partire dal sociologo Marcel Mauss e dalla sua scelta di volgersi verso l'etnologia, rifuggendo sia dalla filosofia, sia dalla sociologia durkheimiana, ancora intrisa, secondo il suo approccio empirico, di idealismo”. Intrecciando analisi e narrazione, I ferventi si concentra sui percorsi scientifici e personali di alcuni dei protagonisti e delle protagoniste che si formano all'Istituto di Etnologia e al Museo di Etnografia: personaggi come Marcel Griaule, Alfred Métraux (che contribuisce a far conoscere in tutto il mondo l’Isola di Pasqua e i suoi misteri), Michel Leiris e Jacques Soustelle, quest’ultimo in prima fila nella Resistenza e in seguito ministro con De Gaulle, grande fautore della permanenza dell’Algeria nell’orbita francese. Non manca una nutrita schiera di studiose come Denise Paulme, Thérèse Rivière, Germaine Tillion, che durante la guerra finirà nel campo di concentramento nazista di Ravensbrück, e Deborah Lifchitz, che invece terminerà i suoi giorni ad Auschwitz. Personalità eccezionali e complesse, sempre in bilico tra le idee progressiste – sono in gran parte di orientamento socialista – e i necessari compromessi con le istituzioni accademiche e lo Stato francese, che vuole usare le loro conoscenze per consolidare il proprio potere nelle colonie. Il compromesso, non esente da contraddizioni e ambiguità, sarà quello di cercare di contribuire al miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni indigene, accettando ufficialmente il colonialismo ma puntando pragmaticamente a mitigarne gli effetti.

Il libro può essere letto non solo come un saggio ma anche come un racconto corale, in cui il fuoco della conoscenza si mischia a ideali e ambizioni personali

Il libro può essere letto non solo come un saggio ma anche come un racconto corale, in cui non di rado il fuoco della conoscenza si mischia alla vita, tra ideali e ambizioni personali: sorta di Comédie humaine che rispolvera gli antichi rapporti tra letteratura e scienze sociali nella cultura francese. Un intreccio che – senza per forza risalire a Montaigne e a Rousseau – caratterizza in particolare l’opera degli ethnologues, i quali spesso affiancano alla propria produzione scientifica un ‘secondo libro’ di indole più letteraria. Manca all’appello Claude Lévi-Strauss, probabilmente il più noto e influente tra gli antropologi ed etnologi francesi, che rimane fuori non solo per una questione anagrafica ma anche perché si forma solo lateralmente alle due istituzioni prese in considerazione e a maestri come Mauss e Rivet.

“Nel testo mi interessava esplorare non tanto le questioni disciplinari, anche se questi temi non restano certo fuori dalle pagine – continua Guolo –: ciò che volevo raccontare è come questi studiosi abbiano vissuto nella loro pratica, a partire dalle missioni sul terreno, una serie di esperienze che li hanno trasformati interiormente; come queste esperienze abbiano mutato la loro idea di etnografia, rivelando i limiti di un'idea oggettiva delle scienze sociali; come le loro biografie si intreccino strettamente nella vita della comunità scientifica alla quale appartengono, con le consonanze, i conflitti, le rivalità che la caratterizzano, e in quella privata”.

Storie di vita che scorrono e confluiscono nella Storia con la maiuscola, intrecciandosi drammaticamente con le vicende del ‘secolo breve’. L’influenza degli ethnologues non si limita infatti al campo della cultura e delle arti ma pervade profondamente anche la politica e le istituzioni francesi, in un tempo scandito dall'avvento del fascismo e del nazismo, la nascita del Fronte popolare, la guerra di Spagna, la seconda guerra mondiale, l'occupazione e il regime di Vichy, la Resistenza e infine il tramonto dell'impero coloniale. A questo riguardo basti pensare che il Museo dell'Uomo guidato da Paul Rivet sarà, nelle prime settimane dell’occupazione nazista, il fulcro della Resistenza in Francia, secondo la tradizione che vede gli intellettuali engagé transalpini in prima fila nei grandi momenti di cambiamento politico e sociale.

Una grandiosa epopea umana e scientifica che getta luce anche sull’attuale epoca dominata dal multiculturalismo, rispetto alla quale gli studiosi ritratti nel libro appaiono come precursori della sensibilità moderna: una generazione di “ribelli, ansiosi, gente che non si sente a proprio agio nella loro civilizzazione” (per dirla con Métraux) e che in un certo senso conia e legittima il moderno relativismo culturale, nel senso di rigettare una posizione di superiorità e di dare pari dignità a tutte le società umane. Una predisposizione dello spirito che denota grande apertura mentale ma anche spaesamento, in quella che Lévi-Strauss in Tristi tropici definisce come una vera “mutilazione psicologica”. E così, in un mondo sempre più immateriale e anonimo, in cui le identità si rafforzano ma si individualizzano e il prossimo è sempre più “totalmente altro”, siamo tutti sempre più cittadini del mondo ma anche “a casa propria in nessun posto”. Proprio come ethnologues di cui ci parla Guolo.

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