SOCIETÀ

A fine agosto 2022 il dramma alluvioni in Pakistan, un po’ è colpa nostra

Dagli ultimi giorni di agosto stanno giungendo in Europa notizie drammatiche sulle alluvioni in Pakistan in questa inoltrata stagione dei monsoni: le piogge hanno sommerso gli insediamenti, i fiumi hanno rotto gli argini, i rifiuti gettati in acqua hanno fatto da ulteriore “tappo” contagioso. Lì stanno fuggendo a milioni. Lì stanno morendo a migliaia. Il dramma è in corso: forti acquazzoni sono avvenuti a metà giugno e già dalla prima parte dell’estate vi erano villaggi isolati, sfollati ed emergenze, soprattutto nelle regioni settentrionali; è via via cresciuto il numero dei colpiti e dei morti; da fine agosto siamo al culmine; il 5 settembre la piena raggiungerà una massiccia diga di epoca coloniale sul fiume Indo; il disastro durerà ancora molto tempo. Nel paese c’è una National Disaster Management Authority, il 30 agosto si era arrivati a oltre 1100 morti (di cui circa un terzo bambine e bambini), almeno 200 mila case e 18 mila scuole sprofondate o completamente demolite, circa 450 mila edifici danneggiati, oltre 700 mila animali da allevamento e 2 milioni di ettari di coltivazioni persi, oltre 3 mila chilometri di strade danneggiati con 145 ponti che non esistono più.

Oltre 1100 morti, almeno 200 mila case e 18 mila scuole sprofondate, circa 450 mila edifici danneggiati, oltre 700 mila animali da allevamento e 2 milioni di ettari di coltivazioni persi

Secondo le autorità locali delle province più colpite (come il Baluchistan, il Sindh, il KPK e il Punjab meridionale) i numeri della devastazione reali potrebbero essere anche considerevolmente maggiori. Si parla di 33 milioni di residenti pakistani in qualche modo coinvolti e in una condizione emergenziale, di un milione di abitazioni rese già inagibili (per sempre, nella maggior parte dei casi), di danni incalcolabili a ogni forma di convivenza civile e sociale, presente e futura. Per moltissimi cittadini le conseguenze sconvolgenti non termineranno dunque con la fine dell’emergenza, continueranno per anni e per decenni; alcuni “effetti” ci coinvolgeranno in via diretta, altri in modi più lenti e indiretti. Infatti, i monsoni non sono eliminabili e comunque “servono” sia per l'irrigazione delle piantagioni che per ricostituire le risorse idriche del subcontinente indiano, il fatto è che sempre più spesso arrivano dopo lunghe stagioni di maggiore aridità (temperature superiori a 51 gradi nella nostra primavera) e in forme di maggiore intensità, fatti “estremi” conseguenze di comportamenti umani avvenuti prevalentemente altrove, nel passato e nel presente.

Mentre sarebbe buono e giusto che tutte le istituzioni di soccorso e assistenza internazionali aiutino donne e uomini del Pakistan a fronteggiare l’evento meteorologico disastroso, facendo noi il tifo per resistere, per curare i feriti (si sono diffuse anche molte malattie) e per limitare i danni almeno un poco, qui al caldo da lontano per cortesia prendiamoci pure le nostre responsabilità (oltre a sottolineare che talora “loro” come noi abbiamo continuato a costruire dove si era ormai capito che non si doveva). Era già tutto prevedibile e previsto. Non esattamente le date e le durate, forse. Quasi tutto il resto sì. Accade anche per responsabilità di scelte ed errori avutisi in Pakistan, certo. Accade anche per come abbiamo prodotto e consumato da decenni dalle nostre parti. Accade perché noi paesi più ricchi lesiniamo le risorse per prevenire e gestire i disastri annunciati. Accade soprattutto perché non abbiamo mai iniziato davvero a ridurre le emissioni che stanno provocando il riscaldamento del pianeta e i cambiamenti climatici antropici globali. E accadrà ancora.

Il Pakistan è una repubblica islamica di circa 225 milioni di abitanti (quattro volte l’Italia) e quasi 784 mila chilometri quadrati (quasi tre volte l’Italia). Il bacino dell’Indo recepisce corsi e torrenti di tante montagne (ghiacciai esistono pure in Pakistan) e occupa una specie di enorme linea mezzana che attraversa tutto il paese fino al Mar Arabico, sezione nord-occidentale dell’Oceano Indiano, tra la penisola arabica ovest, il Corno d’Africa a sud-ovest, l’India a est. Il paese vive un periodo di forte instabilità climatica e politica.

L’attuale primo ministro Shehbaz Sharif ha dichiarato nei giorni scorsi che si sta verificando l’evento meteorologico estremo più grave degli ultimi trenta anni (“come un oceano, c’è acqua dappertutto”), superando quanto avvenne per un mese da fine luglio a fine agosto 2010, quando le inondazioni, anche allora provocate dalle piogge monsoniche e aggravate dalla deforestazione e dallo sfruttamento eccessivo dei pascoli, uccisero quasi 2 mila persone, allagarono un quinto del Paese e, lungo due mesi e diverse settimane estive, devastarono il Pakistan da nord a sud.

L’insicurezza climatica e sociale sono dati della realtà. Concetti come vulnerabilità, resilienza, adattamento hanno ormai una loro definizione specifica in tutti i glossari delle nazioni unite; non sempre la definizione è proprio identica e merita spesso critiche di parte della letteratura di varie discipline scientifiche. L’importante è intendersi sulla sostanza della diversità biologica e dell’evoluzione degli ecosistemi, sulla necessità di tener conto dell’insieme dei fattori biotici e abiotici nella valutazione degli effetti dei comportamenti e degli adattamenti umani. Dai rapporti scientifici dell’Intergovernmental Panel on Climate Change emergono alcuni impatti globali, univoci, certi, seppur in dimensioni diverse nei vari scenari temporali e con un grado diverso di vulnerabilità geografica: l’innalzamento del mare, la scarsità d’acqua, gli eventi meteorologici estremi. A titolo d’esempio, i rischi (reali) di morte per inondazione sarebbero cresciuti del 13% dal 1990 al 2007, la percentuale di popolazione coinvolta del 28%; dati molto più che raddoppiati nel quindicennio successivo.

Sulla base delle esperienze del passato e degli scenari di previsione, in tutti e sei i rapporti dell’IPCC, redatti e resi pubblici dal 1990 al 2021, è ben presto stato chiarito e confermato che oltre il 75% degli stessi rischi “improvvisi” ed estremi si sarebbero concentrati e si stanno concentrando in pochi paesi: quelli del monsone (Bangladesh, India, Pakistan) e la Cina. I rischi non sono conseguenza solo dell’esposizione e dell’intensità: un’isola o un paese poco popolato o un piccolo paese povero rischiano vita e sviluppo delle intere popolazioni per generazioni; anche i grandi paesi rischiano sconquassi demografici e sociali. Certo, nel mondo dell’economia e della finanza c’è chi può approfittarsene (e se ne sta approfittando), tuttavia nessuno è al riparo, disastri avvengono ovunque e, prima o poi, le migrazioni forzate vanno oltre i confini del proprio inondato o martoriato paese.

Sul momento sono state dette spesso cifre diverse, negli stessi luoghi spesso ci sono stati altri terribili disastri anche prima e dopo (nel Bangladesh due cicloni nel 1876 e nel 1970 hanno ucciso circa 300 mila persone ciascuno). È difficile fare una proporzione fra uccisi e sfollati a causa dei disastri climatici (e dei disastri in genere) che tenga conto dell’insieme dei luoghi colpiti e dei tempi lunghi dell’emergenza e della rilocalizzazione (anche come ritorno). Ad esempio nel 2008 sul delta birmano dell’Irrawaddy quando si è parlato di circa 100.000 morti e dispersi si è parlato anche di un milione di sfollati e di grandi comunità di pescatori permanentemente sconvolte (erano giorni di referendum, il regime militare ostacolò allora l’assistenza umanitaria); pochi mesi dopo lo straripamento del fiume Kosi nello stato indiano del Bihar provocò alcune centinaia di morti e alcuni milioni di sfollati.

Moltissimi sono comunque subito tristemente morti, non sempre per alcuni era possibile fuggire (mancanza di avviso, di sistemi di allarme, di predisposizione di rifugi, di zone più alte, di tempo, di mezzi), moltissimi sono fuggiti, non pochi risultano ancor oggi profughi: non c’è luogo al mondo che non abbia memoria di un disastro, anche poche vittime segnano la vita di concittadini e compatrioti per generazioni. Gli ecoprofughi, i profughi climatici sono già oggi decine di milioni. In tanti spesso, tutti una volta o l’altra, abbiamo provato compassione. Vale certamente anche adesso per il Pakistan. Uomini e donne immediatamente sfollati furono nel 2010 7-8 milioni, ora di più: quanti rientranti, quanti morti dopo per indigenza o malattie contratte, quanti rilocalizzati nel proprio stesso paese, quanti sfollati nei paesi limitrofi, quanti forzatamente emigrati in paesi più lontani e talora verso le coste del Mediterraneo? Difficile quantificare ma ognuna delle “categorie” citate ha numeri significativi.

Chiedere di fare i conti con nostre colpe e responsabilità non è un appello morale, né ovviamente un impegno giuridico. Non si tratta di arzigogolare sul dolo. Parliamo di democrazia della conoscenza. Effetti disastrosi dei cambiamenti climatici antropici globali vengono subiti in ogni angolo e paese del pianeta, pur con notevoli differenze di distribuzione geografica. Quel di cui è bene essere consapevoli, traendone conseguenze individuali e collettive, è che: qualche apparato economico-istituzionale ha emesso gas serra prima, molto a lungo e più di altri, ciò ha comportato in genere vantaggi solo in loco e notevoli svantaggi altrove, gli effetti disastrosi accadono in paesi che hanno inquinato e riscaldato molto meno in tutta la seconda metà del Novecento; sapevamo e sappiamo dove vi sarà una maggiore concentrazione, intensità e frequenza di eventi meteorologici estremi, scarsità d’acqua e innalzamento del mare, tutti dovrebbero e devono finanziare innanzitutto prevenzione e adattamento in quei luoghi; ecoprofughi (e morti) andrebbero prevenuti, non stupiamoci se c’erano, ci sono e ci saranno, attiviamo assistenza ed accoglienza, finanziamo piani internazionali di cooperazione allo sviluppo (sostenibile).

Profughi climatici esistono nei paesi ricchi, anche se i profughi dei paesi ricchi erano per lo più poveri anche prima dell’evento, l’uragano Katrina negli Usa ha insegnato molto a riguardo. Profughi climatici sono continuamente provocati da più frequenti e intensi disastri nei paesi poveri, il Bangladesh insegna da decenni e, purtroppo, insegnerà, visto che il 60 per cento dei circa 165 milioni di abitanti (in un territorio metà dell’Italia) continua a vivere a meno di 5 metri sopra l’attuale livello del mare. Le comunità di quei paesi hanno coscienza che le stagioni dei monsoni saranno sempre più “anomale”, talvolta anche i governi, certamente il Bangladesh, un poco anche lo stesso Pakistan visto che ha una ministra per il Cambiamento climatico (Sherry Rehman) accanto a quello della Pianificazione (Ahsan Iqbal).

Oggi varie conseguenze repentine e disastrose dei cambiamenti climatici sono evidenti a tutti. Vi sono alcuni effetti in corso che restano e saranno lenti e imponderabili, come le migrazioni forzate che si spalmeranno su anni futuri e su terre diverse, in modo diacronico e asimmetrico, confondendosi pure auspicabilmente con qualche ritrovato grado di libertà rispetto alle fughe contingenti. Già da decenni vi sono poi effetti altrettanto lenti come la progressiva desertificazione di aree del pianeta o l’inesorabile esaurimento di risorse idriche e alimentari per alcune comunità. Non ce ne accorgiamo visibilmente, se ne accorgono quelle donne e quegli uomini, prima o poi dovremo farvi i conti tutti ovunque.

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