CULTURA

Io capitano, ovvero l’emigrazione è tutt’altra cosa dall’immigrazione

Il bel film italiano Io capitano è uscito al cinema meno di due mesi fa, il 7 settembre 2023, aumentando di settimana in settimana il numero delle sale in cui veniva proiettato (oltre 350 alla fine del primo mese) con discreti crescenti incassi, certo non nei primissimi posti dell’apposita classifica, risultando peraltro tra i dieci film più visti al cinema nella stagione di fine estate - inizio autunno, dopo le grandi produzioni statunitensi. Il 21 settembre, inoltre, il competente Comitato di Selezione nazionale istituito dall'ANICA, su incarico dell'Academy of Motion Picture Arts and Sciences, lo ha designato all’Oscar per il miglior film internazionale (rispetto ad altri undici film proposti). Tra breve, entro la fine del 2023, il 21 dicembre si deciderà la shortlist dei cinque finalisti, mentre le nominations verranno annunciate il 23 gennaio 2024 e la novantaseiesima cerimonia si terrà infine a Los Angeles il 10 marzo 2024. 

Il film era stato presentato in anteprima a Venezia 80, l’ottantesima l’edizione della Mostra internazionale d'arte cinematografica che si è svolta al Lido dal 30 agosto al 9 settembre 2023: tanti bei film, parate di stelle, mostre, retrospettive, scatti, moda, clamore internazionale, come sempre (abbiamo già parlato della mostra 2023 e accennato al film). Io capitano ha suscitato subito vasto interesse di critica e di pubblico, ha ottenuto pure riconoscimenti ufficiali, unico italiano premiato nel concorso principale: Leone d’argento per la regia di Matteo Garrone (Roma, 1968), oltre al premio Mastroianni per l’interpretazione di un attore emergente, l’esordiente giovane protagonista Seydou Sarr (Dakar 2002). Ci permettiamo di consigliarne la visione, dura ma coinvolgente, avrà probabilmente e auspicabilmente una vita lunga anche nelle riflessioni amicali e fra le tante discussioni social, all’interno delle scuole e in televisione.

Il film riesce magistralmente a farci acquisire una grande verità: l’immigrazione è solo l’ultimo degli aspetti da verificare quando uno o più nostri contemporanei sapiens esercitano la loro libertà di migrare o sono privati del loro diritto di restare. Il fenomeno migratorio è asimmetrico e diacronico: ben prima di ogni arrivo vi sono stati una partenza e molteplici transiti; l’emigrazione è un evento sconvolgente l’esistenza di chi parte e di chi si aveva accanto; prima di ogni partenza e durante il viaggio si entra in un vortice imprevedibile di eventi e si può rischiare la vita; l’immigrazione (regolare o travagliata che sia) fa iniziare tutta un’altra storia, mentre spesso chi si incontra poi non sa nulla delle storie precedenti o degli ecosistemi lasciati e, con le attuali brutte normative e narrazioni italiane, l’unico cieco insipiente obiettivo sembra dover essere quello di impedire comunque la partenza di quegli individui.

La curata narrazione cinematografica inizia descrivendoci in poche sintetiche scene collettive l’esistenza concreta di due inseparabili amici, cugini ragazzini di 16 anni, Seydou e Moussa, soprattutto la convivenza del primo con la madre e le tante sorelle più piccole in spazi angusti e fragili di un agglomerato alla periferia di Dakar, capitale del Senegal. Vanno a scuola e la lezione è ovviamente in francese (lingua nazionale ufficiale), appena possono corrono a giocare a calcio, amano la musica e si cimentano con frasi e accordi rap, fanno lavoretti per racimolare qualche soldo. Non li spendono però, da sei mesi hanno il progetto di fuggire, li nascondono. Seydou prova ad accennarlo alla madre, con timore e amore, e lei si arrabbia pronunciando una frase cruciale sul respirare la stessa aria, qualcosa di essenziale a sentirsi comunità, affettiva o sociale.

Quello di cui dobbiamo renderci ben conto è che quasi tutti sulla Terra da millenni amano (amiamo) l’aria di casa, cominciano a non sopportarla solo quando è troppo inquinata o è immersa in violazioni dei diritti umani: la dittatura, la fame, la sete, le povertà, le persecuzioni, le violenze, i conflitti. O in dolori personali troppo grandi. D’altra parte, fra chi capisce che preferirebbe andarsene, solo pochi ne hanno poi effettiva capacità e coerente coraggio (non a caso, alcuni saggi “sanno” e sconsigliano i due amici, altri fanno scongiuri). Noi li vediamo forse alcuni arrivare molto tempo dopo, e li inseriamo nelle nostre simmetrie, ma le migrazioni sono un fenomeno asimmetrico. Molto raramente si lasciano volentieri o senza rimpianti quegli oggetti o quei paesaggi, colori odori sapori sguardi suoni impasti emozioni ricordi nei quali si è immersi dalla nascita. E, comunque si producono un trauma e un vuoto.

Il fenomeno migratorio implica un duplice (o multiplo) fattore sia di luogo che di tempo, consiste da circa diecimila anni in una (almeno) doppia dinamica, l’emigrazione da un ecosistema o un luogo umano «confinato» e l’immigrazione in un differente ecosistema o in un altro luogo umano «confinato» (e all’inizio poco o nulla conosciuto), due dinamiche collocate in contesti residenziali e geopolitici differenti, regolate da molto diversi motivazioni e gradi di libertà, vincoli e opportunità, diritti e doveri, che impattano asimmetricamente e diacronicamente anche sugli ecosistemi, sulle origini e le destinazioni del movimento (partenza, transiti, destinazione casuale o scelta), particolarmente in presenza del costituzionalismo interstatuale moderno e contemporaneo e, per quanto rapidi siano divenuti gli spostamenti fisici negli ultimi secoli, non c’è mai piena sincronia ecologica, economica, culturale, istituzionale. Fra quando inizia e quando (provvisoriamente) finisce può accadere di tutto, è un’avventura (sociale) ben prima che diventi davvero emigrazione e a prescindere che termini con un’immigrazione.

Quando infine partono, Seydou e Moussa passano in Mali e devono pagare per un passaporto valido lungo quel transito verso Agadez e il Niger, spendono centinaia di dollari per acquisire un’identità maggiorenne con altri nome e cognome. Alla frontiera li sgamano e pagano ancora. I soldi accantonati si riducono presto e finiscono del tutto e definitivamente nel deserto, quando affrontano la parte tragica del viaggio, cambia musica: niente più arie e rumori di casa o cellulari in mano o cori fra amici o scherzi e sorrisi, poche parole. La colonna sonora contemporanea è uno dei pregi del film, certamente riferibile alla ricercata “musicalità” della pellicola “drammatica”. I colloqui sono in lingua originale (con i sottotitoli in italiano): il wolof (che ha forti contaminazioni francofone, la presenza di numerosi vocaboli derivanti dal francese e dallo slang afroamericano, e viene parlato anche in alcuni paesi limitrofi, a proprio modo), fra di loro, in famiglia e nelle comunità senegalesi di Tripoli; il francese spesso (anche fra i “mediatori” culturali o i complici dei criminali); il precario inglese più raramente. Seydou e Moussa avevano anche cercato di imparare qualche minima frase di italiano.

I due protagonisti prima sono costretti a continuare a piedi nel mezzo del Sahara in fila indiana fra le dune della sabbia (e qualcuno degli occasionali sconosciuti compagni di viaggio non ce la fa), poi i predoni libici li perquisiscono fuori e dentro, li lasciano senza niente, li separano, li portano in differenti terribili prigioni, li torturano solo per farsi rivelare un numero telefonico attraverso cui poter chiamare parenti nelle loro case di partenza e chiedere altri soldi per il riscatto. Infine, senza sapere dove Moussa sia, Seydou viene venduto come schiavo ai lavori forzati insieme a un vero manovale che lo protegge e gli insegna a costruire un lungo muro intorno a una villa e una fontana interna. Quando un europeo (o un italiano) dice “aiutiamoli a casa loro” dovrebbe innanzitutto arrossire pensando al nostro violento criminale passato coloniale, ai comportamenti di oppressione razziale che abbiamo imposto noi stranieri per secoli “a casa loro”, dinamiche di sfruttamento che in parte proseguono ancor oggi.

Il fenomeno migratorio dovrebbe essere considerato diacronico e asimmetrico per definizione: mai lineare; sempre dirimente per comprendere la vita e le vite, stanziali o meno; fattore di autonoma peculiare pressione selettiva. E andrebbe studiato unitariamente per tutta la lunga fase delle molte specie umani bipedi compresenti sul pianeta, nell’insieme dei camminatori e per ciascuna specie camminante (magari sottolineandone le andature diverse oltre che i manufatti diversi). Lo si dimentica spesso quando si parla di migrazioni: a migrare s’inizia quando si emigra, si finisce quando si immigra definitivamente altrove, in mezzo ci sono transiti geografici ed esperienze sociali, morti e disperazione, incontri e rinascite, comunque tanto incerto tempo. Se guardiamo oggi (fine 2023) al Nagorno Karabakh (e da secoli ai bistrattati armeni) o alla striscia di Gaza (e anche solo negli ultimi 75 anni ai Refugees palestinesi) teniamone conto, gli emigranti profughi soffrono nel partire dalla propria terra, in mezzo all’ulteriore patimento materiale, psichico, fisico, alimentare, affettivo.

Il film di Matteo Garrone non diventa mai descrizione dell’immigrazione, finisce prima, bene o male che sia. Il regista ha dichiarato in più occasioni, presentandolo o parlandone, che volevo offrire agli spettatori un “altro” punto di vista sul fenomeno che determina tante parte di notizie ed emozioni contemporanee. Senza entrare nel merito del linguaggio cinematografico (sembra efficace ma non si azzardano incompetenti recensioni), riesce nell’intento: ci consegna una chiave proprio diversa per comprendere la realtà rispetto alla nostra percezione nel veder arrivare “altri”: la loro vita è già cambiata profondamente, non sono più gli stessi sapiens che erano partiti, hanno corso il rischio di morire e comunque già subito una svolta emotiva, culturale, istituzionale, sociale. Una conferma questa, pertanto, delle qualità del regista, non è la prima volta che tocca corde delicate con acume e sensibilità.

Io capitano non è nemmeno un compendio di tutto quello che può avvenire fra le decine di migliaia di emigranti, una sconvolgente storia vera di migrazioni comunque, girato in Senegal e Marocco, avendo sul set come testimoni i ragazzi che avevano vissuto concretamente quelle esperienze e quegli orrori del viaggio. Verso la fine, la stracolma imbarcazione precaria, in questo caso narrato, non trova burrasca meteo o mare mosso. A bordo vi sono clandestini fra gli emigranti dalla Libia, nascosti nel vano motore, forse avendo pagato meno. Il “guidare” il timone della nave guardando la bussola viene imposto a un “io capitano” minorenne incensurato (da cui il titolo), semplicemente uno fra quelli che voleva partire e che comunque ha pagato, certo non a uno scafista (anche se non è detto che il ragazzo non verrà arrestato all’arrivo). Durante la navigazione accadono tante vicende, vi sono malati e feriti, una donna incinta; più o meno come per ogni trasferimento irregolare. A un certo punto incontrano le luci di installazioni petrolifere, a un certo punto li sorvolano elicotteri, a un certo punto qualcuno forse vede la costa. Nulla da aggiungere, il tentativo di emigrazione finisce lì, giusto così. Ciascuno di noi può forse intuire cosa e come dovremmo fare se per caso alla fine arrivano immigrati qui: metterci e metterli con assistenza, garbo e sorriso alla prova della civile convivenza italiana ed europea.

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