SOCIETÀ

De Haas ha contato 22 miti sul fenomeno migratorio attuale, ecco gli altri

Svelare il dodicesimo mito sull’umano migrare contemporaneo è cruciale, in tanti sono convinti che “l’immigrazione aumenta la criminalità”, il numero dei reati, ma non è così. Il sociologo olandese Heit de Haas analizza un quadro mondiale comparato e, nel suo recente volume Migrazioni, smonta anche questa falsità. Ribadisce che, in generale, l’immigrazione riduce i crimini violenti e cita le ricerche più approfondite sull’argomento che vengono dagli Stati Uniti. Nessuno migra con il sogno di diventare criminale, di solito i lavoratori migranti vengono da contesti socialmente conservatori, religiosi e orientati alla comunità, e aderiscono con vigore a valori tradizionali come la solidarietà, il rispetto e il duro lavoro. Ce ne accorgiamo di continuo anche personalmente dalle nostre parti o verificando dopo poco gli orientamenti politico-culturali.

Gli immigrati illegali hanno poi mediamente i tassi di criminalità più bassi, soprattutto per varie ragioni pratiche. Certo, più a lungo i gruppi migranti rimangono più i loro “modelli criminali” iniziano a somigliare a quelli degli “autoctoni”, c’è un lato oscuro dell’assimilazione (discendente) e un circolo vizioso del profiling razziale (maggiore probabilità di essere arrestati e condannati) e del pregiudizio (più perseguitati e meno protetti), è la classe sociale a prevalere sulle altre spiegazioni. Comunque, i tassi di criminalità sono diminuiti con l’aumento dell’immigrazione, insiste l’autore, citando dati e fatti. Il rispetto delle leggi dovrebbe accompagnarsi a un’offerta ai giovani svantaggiati di opportunità di mobilità sociale attraverso l’istruzione e il lavoro, a prescindere dalla loro origine etnica o razziale.

Tredicesimo mito: “l’emigrazione causa la fuga dei cervelli”, siamo giunti al primo dei 22 miti citati da De Haas che presenta alcuni aspetti più deboli e meno argomentati. Ciò dipende in parte dalla terminologia e dall’approccio solo sociologico. Alcune affermazioni preliminari sono convincenti: l’immigrazione di lavoratori qualificati non è così intensa, la migrazione internazionale coinvolge una quota abbastanza ridotta della popolazione più istruita, l’espressione “fuga di cervelli” fu coniata oltre sessant’anni fa in tutt’altro contesto, pur sempre in direzione nord - nord (preoccupazione per le migrazioni di scienziati dalla Gran Bretagna al Nord America); l’emigrazione può stimolare la crescita nei Paesi d’origine, anche per il potere trasformativo delle “rimesse sociali”. L’autore vuole evitare di dare la colpa ai migranti per i problemi che li hanno spinti a partire, da studioso mette in discussione nessi arbitrari fra il migrare e tutto il peggio (e fra cui tutti effetti negativi per i residenti).

Il capitolo si conclude con un paragrafo intitolato con una frase che richiama un po’ l’intero impeto culturale del volume: l’emigrazione non è la causa né la soluzione dei problemi dello sviluppo. Il concetto ritorna riferito all’immigrazione sotto vari aspetti e, più complessivamente, a ogni migrare umano. La contestazione dei miti vuole recidere i nessi più o meni casuali per cui oggi, da più parti per più ragioni, la migrazione viene considerata la causa di tutti i mali contemporanei. Ovviamente De Haas aggiunge sempre che non è nemmeno la panacea di qualche male, è un fenomeno da ri-conoscere. Nel capitolo successivo si legge: “l’impatto trasformativo (sia positivo che negativo) della migrazione non è così grande come molti pensano”. Qualche capitolo dopo, un paragrafo s’intitola. “è necessario superare la dicotomia pro/contro”. Bene, ma non risolutivo: oggi pochi pensano a funzioni marginali del migrare e pochissimi superano lo schieramento in fazioni. Evidentemente, il fenomeno risponde ad altre dinamiche evoluzionistiche, biologiche e antropologiche, non spiegabili bene soltanto con la sociologia e la geografia, meglio prendere atto pure di ciò. E occorrerebbe prestare dovuta attenzione ai gradi della libertà di migrare e alle coniugazioni del diritto di restare.

Il quattordicesimo mito si connette a tali argomenti e riflessioni, l’affermazione giustamente contestata è la seguente: “l’immigrazione solleva tutte le barche”. Invece. L’immigrazione non può risolvere l’ineguaglianza globale; l’immigrazione favorisce soprattutto gli abbienti e chi è già privilegiato; in qualche raro caso l’immigrazione può essere davvero traumatizzante per via dei cambiamenti drastici che impone agli stili di vita locali (o di come gli immigrati e il pollo hanno cambiato Albertville, Alabama), più gravosi per lavoratori locali non benestanti; c’è più del Pil nella vita. Da questo punto di vista, de Haas segnala correttamente come le élite imprenditoriali e i gruppi liberal che cantano le lodi dell’immigrazione spesso non si rendano conto dei disagi reali, dei problemi e delle tensioni che scaturiscono dall’arrivo di intensi flussi migratori.

Così risulta un mito, il quindicesimo: “abbiamo bisogno di immigrati per contrastare l’invecchiamento delle società”. Proseguendo nell’atteggiamento di ridimensionare o almeno dimensionare gli impatti, De Haas ribadisce: l’immigrazione è troppo limitata per risolvere gli effetti dell’invecchiamento; anche gli immigrati invecchiano e fanno meno bambini; i fattori demografici non causano la migrazione; è un mito anche la disponibilità illimitata di manodopera; i Paesi più poveri al mondo hanno il più alto potenziale di emigrazione futura; la domanda globale di lavoratori migranti potrebbe aumentare ulteriormente per la combinazione di invecchiamento (inevitabile e non così disastroso), emancipazione femminile e maggiori tassi d’istruzione, soprattutto in molti Paesi a reddito medio, ove quindi crescerà la domanda di manodopera nei settori dell’assistenza domiciliare, dell’edilizia, dell’agricoltura, dell’industria e del terziario; vi sarà un riorientamento geografico delle direttrici migratorie mondiali. Qui si conclude la seconda parte del volume (otto capitoli, nel complesso ottimamente o abbastanza ben orientati, con alcuni limiti sopra segnalati).

La propaganda sulla migrazione

La terza parte si chiama “la propaganda sulla migrazione” e si struttura in altri sette capitoli. Il sedicesimo mito: “le frontiere si stanno chiudendo”. Qui l’autore utilizza dati statistici di un gruppo di lavoro pluriennale da lui stesso impostato a Oxford e riassume: le politiche migratorie sono state liberalizzate rispetto al passato; il controllo alle frontiere è aumentato mentre le barriere legali sono diminuite; resta la spinta delle aziende ad aprire le frontiere; resta un’enorme discrepanza governativa tra la retorica della fermezza e la pratica molto più indulgente; più diritti umani significa più diritti per i migranti; non è possibile coniugare liberismo economico e politiche migratorie liberali e soddisfare al contempo i desideri dei cittadini che vorrebbero meno immigrati (il “trilemma” dell’immigrazione).

Il diciassettesimo mito ha a che fare con gli orientamenti politici: “i conservatori sono più rigidi sull’immigrazione”. Non risulta vero alla prova dei fatti: non esiste nessuna divisione sinistra-destra sul tema dell’immigrazione; i partiti politici sono divisi internamente sull’immigrazione; pure i sindacati sono divisi sull’immigrazione; tutte le religioni sottolineano il valore della compassione ed esortano i credenti ad accogliere gli stranieri e proteggere i perseguitati, insomma ancora una volta la dicotomia tra fazioni pro e contro non porta da nessuna parte e va superata. L’autore non ha peli sulla lingua e insiste: da decenni ormai il grande pubblico ha perso il contatto con la realtà delle politiche migratorie; gli artifizi retorici distolgono l’attenzione dalle questioni reali; i politici di sinistra e di destra stanno ingannando la gente sulla vera natura delle loro azioni, è un comportamento ipocrita.

Ne consegue la necessità di smentire e abbattere un diciottesimo mito: “l’opinione pubblica è contro l’immigrazione”. Secondo de Haas: l’opinione pubblica oggi guarda più favorevolmente gli immigrati; la maggioranza delle persone ha opinioni articolate sull’immigrazione; sul lungo periodo, il contatto con gli immigrati e una certa conseguente familiarità con culture diverse riducono la xenofobia; nonostante i progressi, il razzismo e i pregiudizi rimangono problemi gravi; il razzismo diminuisce con l’aumento dell’immigrazione; tutto questo ci dà speranza e ottimismo, abbiamo le potenzialità per discutere ed affrontare in modo migliore le questioni legate alle migrazioni, alla “razza” e alla diversità culturale. Qui l’autore cita Giorgia Meloni fra i politici di estrema destra che si appellano all’opinione pubblica per le proprie retoriche dichiarazioni politiche securitarie contro l’immigrazione.

Il diciannovesimo mito comincia ad affrontare un aspetto specifico, il superamento di frontiere statuali, operando una distinzione (fondamentale nell’Italia odierna) fra traffico e tratta. La falsità propagandistica è la seguente: “il traffico di migranti è la causa degli ingressi illegali”. Ancora una volta il supporto allo smantellamento del mito è offerto da dati e fatti, non si tratta di opinioni filosofiche: il traffico di migranti è una reazione alla militarizzazione delle frontiere, non la causa della migrazione illegale; la migrazione transmediterranea, per esempio, è esplosa nel 1991 quando la Spagna e l’Italia hanno introdotto requisiti di visto per i nordafricani in seguito all’accordo di Schengen (l’autore lo ha verificato durante le ricerche in Marocco, niente più anni sabbatici per gli studenti trasferimenti non permanenti); come la migrazione è stata spinta nella clandestinità; la crescente dipendenza dai trafficanti; la migrazione di contrabbando (smuggling, in inglese) e il traffico dei migranti non sono la stessa cosa della tratta di esseri umani (trafficking); il favoreggiamento è una forma di erogazione di un servizio, per il quale migranti e rifugiati sono disposti a pagare; i migranti non sono stupidi, persino il rischio di morire non è un deterrente. L’autore cita spesso la situazione nel Mediterraneo (“zona di confine più letale del mondo”) e riporta il dato terribile dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni relativo agli oltre 26 mila migranti morti nel tentativo di attraversarlo tra il 2014 e il 2022.

Proprio nel 2024, a inizio novembre l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (OIM) ha aggiornato i dati rispetto all’anno in corso: sono almeno 568 le persone morte e altre 783 ritenute disperse soltanto nella rotta del Mediterraneo centrale dall'inizio del 2024 al 2 novembre; nello stesso periodo i migranti intercettati in mare e riportati in Libia sono stati 19.295, di cui 16.835 uomini, 1.357 donne, 630 minori e 473 persone di cui non sono disponibili dati di genere. Nelle pagine a fianco numero 476 e 477 De Haas riporta la mappa delle rotte migratorie terrestri e marittimeverso il Nord Africa, il Medio oriente e l’Europa occidentale. Poi aggiunge altre indicazioni analitiche: le specifiche rotte del “contrabbando” migratorio sono una delle conseguenze dei controlli frontalieri; la vera industria della migrazione non riguarda gli scafisti, bensì le compagnie che producono armi e tecnologie da guerra, che hanno avuto enormi profitti dalla lotta dell’Occidente contro l’immigrazione illegale; i flussi migratori illegali continueranno fintanto che i governi non offriranno percorsi per migrare legalmente.

Il ventesimo mito completa il precedente, ecco la falsità propagandistica: “la tratta è una forma di schiavitù moderna”. Invece: la tratta di esseri umani non è la stessa cosa della schiavitù e riguarda soprattutto lo sfruttamento dei lavoratori; in particolare, la tratta riguarda gravi forme di sfruttamento di lavoratori vulnerabili, rapporti di potere coercitivi basati su un’estrema disparità di potere; la “minaccia degli sconosciuti” e il precedente mito della “tratta delle bianche” (deliberatamente creato negli Stati Uniti alla fine del XIX secolo) gonfiano le statistiche sulla tratta; restituire un debito non significa essere vittima della tratta; nella realtà, contrarre debiti è il modo in cui milioni di poveri tentano un futuro migliore per sé stessi migrando verso l’Occidente  e “salvare” qualcuno di loro significa spesso farlo deportare, costringerlo a una migrazione forzata, ancor meno libera; la maggior parte dei sex workers ha scelto di farlo; nella realtà, la lotta alla tratta diventa solo fare retate nei bordelli e imporre deportazioni; gonfiare i numeri non risolve i problemi, semmai li peggiora; salvateci dai nostri salvatori.

Un altro mito propagandistico è il ventunesimo: “le restrizioni alle frontiere riducono l’immigrazione”. Non è vero, storicamente e statisticamente: controlli e restrizioni generano più immigrazione; il primo effetto collaterale è di deviare la migrazione su altre rotte geografiche o nuove destinazioni (effetto materasso ad acqua); il secondo effetto collaterale non riduce il numero dei migranti, si limita a spingere le migrazioni nella clandestinità, i migranti cercano canali legali differenti o attraversano i confini illegalmente, prima o poi; il terzo effetto collaterale delle restrizioni sono gli “sbarchi” preventivi (più imprevedibili e pericolosi), organizzati in previsione di blocchi futuri (partire “ora o mai più”), il quarto e ultimo effetto collaterale implica scoraggiare il ritorno in patria e interrompere la circolarità, sicché le restrizioni producono più migrazione; per esempio, la Brexit ha accelerato l’immigrazione.; un altro esempio tocca il Messico, i maggiori controlli alle frontiere degli stati Uniti hanno avuto effetti controproducenti; inoltre, le frontiere chiuse alimentano l’ossessione per la migrazione. Secondo de Haas l’abolizione delle frontiere tra il 1989 e il 2007 all’interno dell’Unione Europea (in espansione) ha rappresentato il più grande esperimento reale nella storia dell’umanità per capire l’effetto di restrizioni per chi arriva dall’esterno, lo ha studiato verificando che è coinciso con un aumento strutturale dell’immigrazione extraeuropea. Qui l’autore cita positivamente anche gli studi della sociologa italiana Simona Vezzoli, sua ex collega a Oxford.

Arriviamo così al ventiduesimo e ultimo mito che l’autore vuole smontare: “il cambiamento climatico porterà a una migrazione di massa”. L’autore ragiona negli stessi termini sociologici e scientifici dei capitoli precedenti e il suo sforzo argomentativo va preso ancora una volta sul serio, non è banale e coglie questioni effettivamente controverse e complesse (alcune delle quali sono state affrontate di recente anche sul nostro magazine, come altre volte in passato, per esempio nel 2022 o nel 2023). Secondo De Haas, ecco come funzionerebbe davvero. Il cambiamento climatico è reale, ma non porterà a una migrazione di massa; le inondazioni stagionali sono una maledizione e una benedizione insieme, perché i sedimenti trasportati dall’acqua fertilizzano il terreno (“la terra è buona dove c’è la piena”); anche le terre si alzano mentre si alza il livello del mare.

Ancora: i pericoli ambientali possono condannare i poveri all’immobilità; sarebbe un mito anche l’avanzata del deserto; è lo sprofondamento del suolo, non l’innalzamento del livello del mare, la causa principale del crescente rischio di alluvioni nelle piane agricole e in città costiere; è molto improbabile che il cambiamento climatico “porti” a una migrazione internazionale di massa, tantomeno della scala pronosticata, sono i governi, non il clima, a spostare le persone; oltre ai conflitti e alle persecuzioni, sono i progetti di sviluppo (dighe, miniere, aeroporti, zone industriali, complessi residenziali per la classe media, turisti) una delle cause principali del fenomeno degli sfollati, lo spostamento indotto dallo sviluppo è la forma più diffusa di migrazione forzata; lo sforzo sincero di ridurre l’impatto del cambiamento climatico dovrebbe concentrarsi sul trovare il modo di aiutare proprio coloro che non sono in grado di muoversi affatto.

De Haas vuole difendere la migrazione da una narrazione propagandistica piena di miti e falsità, vuole tener fuori il fenomeno migratorio da analisi frettolose e schematiche, vuole evitare che si assegni al migrare e ai migranti ruoli stratosferici rispetto a quantità non enormi e a qualità potenzialmente arricchenti. Non nega i cambiamenti climatici antropici globali e denuncia opportunamente alcuni “presupposti semplicistici sul rapporto fra trasformazioni ambientali e migrazione”. Gli manca però un serio approccio evoluzionistico. Il cosiddetto clima (degli ecosistemi in evoluzione e dello stesso ecosistema globale) c’è da prima degli animali, dei mammiferi e degli umani; da sempre ha indotto specie e comunità di singole specie a tentare di cambiare residenza e forse adattarsi altrove (oppure ad adattarsi al cambiamento quando il medesimo luogo cambiava clima, per esempio da pianura a ghiaccio, da bosco a deserto); da sempre ha modificato la biodiversità del pianeta, anche con le migrazioni (che pure modificano gli ecosistemi di partenza, di transito e di arrivo).

Il fenomeno migratorio è diacronico e asimmetrico. Le specie animali modificano, a loro volta, ecosistemi e clima nel loro sopravvivere, riprodursi, migrare. E le specie umane, particolarmente i sapiens, hanno indotto trasformazioni ambientali e migrazioni. È giusto non “dare la colpa al clima” di tutto e di ogni migrazione futura. Tuttavia, un’analisi scientifica degli impatti rende plausibile pensare che tanti rischiano di morire in loco (come anche De Haas nota) e che molti altri riflettano da subito sulla possibilità di spostarsi, con un livello meno o più alto di libertà e di capacità.  

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