SOCIETÀ

Se in Iran vincono gli oltranzisti

Considerato una delle maggiori eredità politiche di Barack Obama (e della nostra Federica Mogherini) l’accordo sul nucleare iraniano sta poco a poco smottando sotto i colpi, misti a qualche ripensamento, di Donald Trump. Con il rischio di una corsa al riarmo e di un futuro conflitto in Medioriente: ne parliamo con Paolo Cotta-Ramusino, docente di fisica matematica alla Statale di Milano e ricercatore all’Infn, ma soprattutto dal 2002 segretario delle Pugwash Conferences on Science and World Affairs, il movimento internazionale per il disarmo nucleare che nel 1995 ha ricevuto anche il Nobel per la Pace. Cotta-Ramusino è reduce proprio da un incontro, tenuto a Teheran, sulla tenuta del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), siglato nel 2015 dalle autorità di Teheran e dal cosiddetto P5+1 (i membri permanenti del Consiglio di sicurezza più la Germania) e rigettato l’anno scorso dall’amministrazione americana.

Allora professore, di cosa si è parlato con i colleghi e studiosi iraniani?

“Della situazione dopo l’uscita degli americani, che crea molti problemi perché l’accordo era ottimo: in esso l’Iran aveva accettato vincoli a cui nessun altro Paese aveva mai acconsentito, nella quantità e nel livello di arricchimento dell’uranio, persino nel numero delle centrifughe. L’obiettivo era di aprirsi al mondo esterno dal punto di vista commerciale, economico e finanziario”.

Crede davvero che l’accordo fosse così conveniente per tutti i contraenti?

“Rappresentava la fine del rischio nucleare iraniano. Il problema del nucleare è che non c’è una chiara separazione tra le applicazioni civili e quelle militari: la differenza sta nella sorveglianza internazionale, in particolare da parte dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA), e questa con l’accordo era e rimane tutt’ora fortissima. Ora Trump non solo ha rigettato l’accordo e ripristinato le sanzioni, ma ha anche emanato le cosiddette sanzioni secondarie, contro le aziende straniere e gli enti che trattano con l’Iran”.

Con il risultato paradossale che oggi si può essere sanzionati perché si rispetta un accordo emanato n ambito Onu…

“Esatto, e con la conseguenza tra l’altro che, secondo lo stesso trattato, il ripristino delle sanzioni dà diritto all’Iran di superare i vincoli disposti nell’ambito dell’arricchimento dell’uranio”.

Cosa che sta già avvenendo.

“Per ora in maniera molto moderata, con piccoli passi comunque reversibili: del resto è passato già più di un anno da quando gli americani si sono ritirati dall’accordo. Il problema più grosso per l’Iran è che non riesce a vendere il suo petrolio. Ora la leadership attuale è stata abbastanza costruttiva, ma questa situazione alla lunga rischia di indebolirla, le umiliazioni in pubblico facilitano di fatto la componente più aggressiva”.

Come vede il crescere delle tensioni e degli incidenti nel Golfo persico? C’è il pericolo di un’escalation?

“Gli iraniani dicono che se non riescono a vendere il loro petrolio allora faranno di tutto perché non lo facciano neanche gli altri. Poi bisogna vedere cosa succede, ma in caso di escalation rischia non solo l’Iran ma tutta la regione. È facile liberare l’aggressività, molto più difficile controllarla”.

Pensa che l’Accordo abbia ancora qualche speranza?

“Temo di no, se gli europei non trovano un modo di aggirare le sanzioni. In realtà il meccanismo ci sarebbe e si chiama Instex, ma per il momento non ha soldi dentro. Gli iraniani hanno il petrolio e vogliono venderlo, senza non hanno risorse per comprare tutto quello che gli serve: dai ricambi e i componenti meccanici ai materiali per le infrastrutture. Paradossalmente l’unico Paese con cui la bilancia commerciale è cresciuta nell’ultimo anno sono proprio gli Usa. L’accordo per ora è ancora in un limbo, ma certo se gli iraniani riuscissero a trarne in qualche modo un profitto questo metterebbe tutto in una posizione differente. Gioverebbe alla reputazione governo e gli darebbe la possibilità di resistere all’ala più oltranzista”.

Ma perché l’Iran continua a voler sviluppare un programma nucleare?

“Perché in ultima analisi vogliono mantenere la possibilità di acquisire una capacità nucleare. Il discorso del Medioriente come zona libera dalle armi nucleari non ha prospettiva, visto che Israele le ha già. L’Iran dice di volersi difendere, visto che è in passato è già stato aggredito da altri Paesi. Certo le armi nucleari sono una cosa negativa, ma già il presidente pakistano Zulfiqar Ali Bhutto disse ‘mangeremo erba ma costruiremo armi nucleari, se l’India le possiede’”.

Questo non è sicuramente tranquillizzante.

“C’è comunque molta prudenza in questo senso. Ho parlato con Rouhani (attuale presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, ndr) qualche anno fa, che mi disse: ‘Davvero pensate che veramente che se avessimo armi nucleari attaccheremmo Israele?’ Tutta la storia della corsa agli armamenti è segnata dal tentativo di conseguire il prestigio e dall’esigenza di difendersi dalle minacce, e non dimentichiamo che l’Iran ha una fortissima tradizione di nazionalismo e di resistenza alle influenze esterne. Anche l’Arabia Saudita del resto sta sviluppando il nucleare civile. Il nostro problema comunque non è quello di dare giudizi, ma di come creare meccanismi per abbassare i toni e smorzare le ostilità, cosa non facile”.

Negli ultimi anni ha esteso la sua influenza in Siria, Libano e Yemen: secondo lei è un partner affidabile? Il timore è che l’obiettivo sia Israele.

“L’intervento in Siria è in parte dovuta alla presenza dell’Isis in quella regione, di fatto sostenuta e finanziata non tanto dall’Arabia Saudita, quanto da molti sauditi. Anche in Yemen c’è attrito con i sauditi; i ribelli Huthi sono zayditi, non necessariamente assimilabili agli altri sciiti, ma in questo contesto si sono ovviamente avvicinati all’Iran. Infine anche con Hezbollah la relazione è spontanea ma complessa, per un certo periodo anzi è stato più Hezbollah a influenzare l’Iran che non viceversa. Per quanto riguarda  Israele, i conflitti risalgono soprattutto alle dichiarazioni di Ahmadinejad, personaggio rozzo e particolarmente irresponsabile”.

Cosa dovrebbe fare secondo lei soprattutto l’Europa?

“Ci sono diverse attitudini, gli inglesi sono ad esempio meno interessati a venire incontro all’Iran rispetto ai tedeschi. Le compagnie europee non vogliono subire le sanzioni secondarie da parte degli Usa, quindi per il momento si fa poco o nulla. In realtà si potrebbero dare crediti all’Iran, garantiti dal petrolio, per sviluppare l’economia, che in questo caso non sarebbero sanzionabili. Ma si tratta di un problema politico: di coordinamento, di autonomia e di coraggio”.

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