CULTURA

Lamberti e colleghe: la nuova scrittura per un nuovo tempo

Si fa strada una nuova forma di scrittura. Lo fa silenziosamente, senza dirlo. Ci troviamo in mano romanzi che non hanno niente di programmatico, eppure cercano – a loro modo, e di fatto con esiti molto interessanti – di scardinare strutture note, di sondare paesaggi inesplorati, spesso futuri, e rileggere pensieri troppe volte pensati come se, per la prima volta, fossero dati i nomi alle cose. Persino l’inconscio, che da quando è vissuto Freud abita le pagine del romanzo secondo dinamiche note, è come trovasse voce solo adesso e non seguisse regole. Anche la Natura, che in questi romanzi "nuovi" spesso è un bosco, un bosco che non è più, una piana riarsa, una casa con animali selvatici, un sottosuolo dove nascondere gente, vuole dire la sua. La nuova scrittura, in definitiva, si fa su cera levigata che quasi non contiene traccia degli immaginari passati. Chapeau.

A farlo sono un certo numero di romanziere, con sulle spalle un certo numero di prove, ma sufficientemente giovani per poter essere riconosciute come una generazione di voci nuova. Sono Ginevra Lamberti, classe 1985, al quarto romanzo, Claudia Durastanti, classe 1984, al quinto romanzo, Viola Di Grado, classe 1987, al sesto romanzo, Maddalena Vaglio Tanet, classe 1985, al primo romanzo per adulti e al terzo per ragazzi, solo per citarne alcune, e questa rivoluzione pare stia accadendo qui, ora, tutta insieme, senza che le scrittrici si siano in nessun modo confrontate. Sarebbe bello, anzi, poterle mettere sedute l’una accanto all’altra su un divano e vederle argomentare, o stare in silenzio e infine trovare le parole per raccontare da dove viene lo sperimentalismo della loro scrittura, capace di delineare tempi nuovi e modi di sentire desiderosi di tagliare con un passato che non sopportiamo più. Oppure di riscriverlo, questo passato, per trovare i punti di contatto con quei rivoli sotterranei di ribellione che – in silenzio – le donne (e le scrittrici) sentono di dover portare alla luce. Come esseri umani e artiste, non come esponenti di genere.

Prendiamo, per esempio, Il pozzo vale più del tempo di Ginevra Lamberti (Marsilio, 2024) – degli altri romanzi abbiamo parlato proprio su Il Bo Live qui, qui e qui –: siamo in un futuro non ben definito e vediamo accadere qualcosa che era possibile, con gli occhi del presente, immaginare per gli anni a venire del nostro mondo impazzito. Fa caldissimo (quaranta, cinquanta gradi) e dell’umanità resta poco di quel che conosciamo. La vita è dettata dalle nuove condizioni climatiche, ma, soprattutto, da un modo di sopravvivere che cristallizza una interiorità nuova. La protagonista, Dalia, è una bambina (e poi una ragazza) che rappresenta l’homo novus nella misura in cui sa adattarsi, sa guardare l’orrore e restare viva. La Natura fa lo stesso e le piante si ribellano punteggiando un paesaggio rinato come può, stravolto, ancora possibile. “Tutto questo accade molto più in alto rispetto alla valle, lontano dai Boscarato, dai Manuel, dai dottori di passaggio, dalle vecchie con la mannaia e anche da Elena che finisce di imboccare Dalia. Per vederlo è necessario superare la paura dei cani e salire finché le ginocchia dicono basta. Si arriva così a una radura che si apre nel viluppo dei rami ancora spogli. Una manciata di donne e uomini sta in semicerchio e sembra respirare ancora. Ci sono giovani e meno giovani. Anche tra loro qualcuno senz’altro si ricorda di quando la foresta si chiamava bosco, ma è un’informazione inutile, perché ogni persona presente nella radura ora ha gli occhi puntati sul vecchio con il ramo di sambuco”. E nel futuro si incastona il passato: la storia del macellaio Biasio (da cui l’omonima riva a Venezia), qui Biagio, che uccideva i bambini e nel romanzo è anche dentista, è un fatto storico che pare leggenda ma risale al Cinquecento, forse al Trecento, e viene trasfigurato qui in un terribile futuro onnipresente. L’eterno ritorno dell’uguale? Forse. O forse invece proprio no, come Lamberti fa dire a un personaggio: “La mia isola […] l’ho lasciata più di vent’anni fa, quando ho capito che il tempo che ci è dato di vivere non è qualcosa di ciclico. Niente di quello che è stato tornerà. Non possiamo fare altro che andare avanti”.

Cosa c’è dietro a tutto questo, e questa ricerca epistemologica che ha come mezzo la scrittura, lo abbiamo chiesto all’autrice.

I mondi che descrivi in questo tuo nuovo romanzo sono mondi altri, non tanto perché sono proiezioni di un futuro più o meno possibile, quanto piuttosto perché indagano un'interiorità alterata, in cui ciò che è in nuce dentro gli animi si è esacerbato. Quanto nei sei consapevole nel gesto della scrittura?

Non credo nelle Muse ma ho fiducia nei processi inconsapevoli, inconsci, sotterranei e nel loro procedere di pari passo con lo studio, il lavoro, l’osservazione, la stratificazione di esperienza conscia. Questa interiorità alterata forse non è altro che il noi sottratto a richieste e incombenze della vita quotidiana. Si muove su un piano fatto di questioni, istanze e necessità altrettanto reali ma invisibili.

In quel territorio possiamo essere chi vogliamo o chi temiamo, attraverso la finzione possiamo agire anche l’irreparabile. Così, provando a portare un pezzo di questa alterazione nel romanzo, familiarizziamo con le ombre e le luci che stanno dentro di noi e dentro il mondo.

Il tempo qui è fortemente lineare, irreversibile, una dimostrazione narrativa del secondo principio della termodinamica. Tutto questo non contiene nessuna forma di giudizio, anzi, ciò che scrivi può essere letto come un’esortazione silente a resistere, come fa Dalia. Che strumenti abbiamo per resistere?

Da molti decenni, almeno a partire dal boom economico, le società più benestanti di questo pianeta vivono immerse nella negazione della mortalità e della finitezza. Questo è grave e pericoloso, perché negare la finitezza dell’individuo è tutt’uno con il negare la finitezza delle risorse e di tutte le creature terrestri. Resistere è importante, ma ora dobbiamo anche riprogettare. Se vogliamo riprogettare una società consapevole, non distruttiva e autodistruttiva, non votata a un eterno consumo privo di restituzione, l’unica cosa che ci resta è il contrario del diniego.

La lingua: uno strumento di perfezione per celare ossessioni dietro a un paesaggio, a un gesto di amore stordito, a un episodio di grottesca violenza. Come si fa? Dove si cerca? Cosa si trova?

Si legge molto e tutto (i classici e le nuovissime uscite così come i post sgrammaticati di persone sconosciute o conosciute e i fotoromanzi che la vicina anziana ti chiede di andarle a prendere in edicola, quando torni al paese). Si ascolta moltissimo (quello che si dice alle conferenze dotte al pari di quello che si coglie in attesa al semaforo di un incrocio o sul vagone di un treno, quando un tizio fa una call di lavoro rumorosa, che detesti, ma in fondo puoi anche prenderci appunti). Nella migliore e più auspicata delle ipotesi alla fine si trova il peggio di quello che siamo espresso nel miglior modo che ci è dato.

Il femminile non è un tema, non più. Non vogliamo che lo sia. Le scrittrici nate negli anni Ottanta stanno trovando nuove parole per raccontare il cambiamento, la distorsione, la riduzione e insieme l’ampliamento delle possibilità, il disagio dell’anima, la catastrofe, senza mai indugiare in ruoli o schemi. C’è una volontà programmatica in questo? La vostra scrittura è "nuova" e dà l’idea di avere una grande forza. Quella della libertà...

Forse c’è un’inevitabilità di percorso. L’unico modo che ha una società per progredire è fare spazio, e fare spazio è un percorso lungo, di progettualità a lunghissimo termine, i cui esiti si vedono in capo a generazioni.

Siamo molto in ritardo nel fare spazio a tutte le voci che mancano per rendere quanto più completo possibile il quadro dell’esistere. Sussistono ancora questioni di classe che ostacolano l’accesso a competenze generatrici di opportunità (non ultima l’opportunità di partecipare alla vita intellettuale di un paese), così come questioni di razzializzazione, di genere, di omofobia, di abilismo, di blaming della persona malata. Il territorio della marginalizzazione è ancora tanto vasto da non vederne i confini. Per progredire e riprogettare abbiamo bisogno anche di tutte queste storie.

Il tempo che ci è dato di vivere non è qualcosa di ciclico. Niente di quello che è stato tornerà. Non possiamo fare altro che andare avanti Ginevra Lamberti

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012