SCIENZA E RICERCA

Microplastiche, quanto resistono e come vengono trasportate nell'ambiente?

Quanto durano i beni di plastica nell'ambiente? Questa la domanda a cui hanno cercato di rispondere, in un articolo pubblicato su PNAS, Collin P. Ward e Christopher M. Reddy del dipartimento di chimica e geochimica marina dell'organizzazione di ricerca no profit Woods Hole Oceanographic Institution del Massachussets. I ricercatori hanno comparato diversi studi sull'argomento condotti da vari enti di ricerca, agenzie governative, università e industrie, e hanno notato una mancanza di prove scientifiche univoche che possano guidare le scelte dei legislatori e l'azione dei singoli.
Ciò che manca, come sostengono gli autori dell'articolo, è quindi “una comprensione completa della durata dei beni di consumo in plastica nell'ambiente”.

Lo scopo di questa indagine era quella di fare ordine tra le diverse informazioni riportate in studi condotti da enti governativi e non, accademie e riviste peer-reviewed, analizzando con attenzione 57 grafici e documenti che illustrano la durata di vita dei diversi prodotti di plastica nell'ambiente. In particolare, i dati raccolti provengono soprattutto da ricerche condotte in parchi pubblici, spiagge e acquari.

Ciò che hanno potuto constatare è che i diversi tipi di plastica impiegano tempi molto differenti a degradarsi nell'ambiente, variando sostanzialmente da “un anno” a “per sempre”, e che i vari studi calcolano durate differenti per lo stesso materiale. Uno dei motivi è che il degrado della plastica avviene in tempi e modalità diverse a seconda dell'ambiente in cui si trova; inoltre, la recente letteratura scientifica peer-reviwewed sull'argomento suggerisce che tale degrado avvenga in gran parte a causa della luce solare, e non dei microbi.

Quella che manca, inoltre, è una definizione univoca di degrado. Il calcolo di quanto tempo ci mette la plastica a degradarsi completamente in anidride carbonica è naturalmente diverso da quello che impiega a degradarsi parzialmente in diversi prodotti chimici oppure in pezzetti di dimensioni molto ridotte.

Il deterioramento della plastica infatti, causa la formazione delle cosiddette microlplastiche, detriti che hanno una dimensione minore di 5 mm, che sono già da tempo stati individuati come inquinanti oceanici. Le microplastiche, però, non si trovano solo negli oceani, ma entrano a far parte dei cicli biogeochimici globali, inserendosi così all'interno di tutti gli ecosistemi, nel biota, nel suolo e nell'atmosfera terrestre.

Un recente studio, pubblicato su Science, ha mostrato infatti che gli oceani non sono che una delle tante tappe del viaggio percorso dalle microplastiche, e non per forza la loro destinazione finale, come testimoniano gli accumuli di microplastiche in ogni ambiente terrestre, anche nelle aree protette e nelle zone di natura selvaggia.
Prima autrice della pubblicazione è Janice Brahney, professoressa associata di scienze del bacino idrografico alla Utah State University. Lei e il suo team di ricerca hanno stimato che ogni anno sono ben 122 le tonnellate di microplastiche che si depositano nelle aree protette degli Stati Uniti occidentali e che, a questa velocità, entro l'anno 2025 ci saranno 11 miliardi di tonnellate di plastica accumulate nell'ambiente.

Indagare il cosiddetto “ciclo della microplastica”, significa individuare non solo le fonti a partire dalle quali le microplastiche si originano, ma comprendere anche come vengono trasportate nell'ambiente e come si trasformano durante questo percorso. I meccanismi di questo ciclo non sono ancora chiari agli scienziati, che li studiano da molti anni. Comprenderne il funzionamento, che per alcuni versi è simile ai cicli biogeochimici globali di azoto, carbonio e acqua, però, aiuterebbe a studiare più dettagliatamente l'accumulo delle microplastiche.

Le correnti superficiali degli oceani sono state considerate per molto tempo un meccanismo chiave per il loro trasporto globale, ma gli studi più recenti hanno portato in luce altre verità: hanno scoperto che le microplastiche sono in grado di viaggiare, infatti, anche attraverso le correnti più profonde e nelle acque dolci. Inoltre, successive ricerche ne hanno rintracciato la presenza anche sul suolo terrestre e nell'atmosfera.

Lo studio di Branhley e coautori ha permesso, in particolare, di chiarire i processi in cui avviene il trasporto atmosferico e la deposizione delle microplastiche in condizioni umide o secche, analizzando dati spaziali e temporali ad alta risoluzione.
I ricercatori hanno quindi focalizzato la loro attenzione su qualcosa che negli studi precedenti era stato spesso trascurato: il trasporto atmosferico delle microplastiche presenti nell'aria, che si depositano sul suolo, sia nelle aree urbane, sia negli ambienti naturali, in depositi umidi (come la neve o la pioggia) e asciutti.

I dati raccolti hanno evidenziato che durante gli eventi umidi, come quando si verificano le tempeste regionali, avviene il deposito delle microplastiche dalle dimensioni maggiori, provenienti con molta probabilità dalle aree urbane nelle vicinanze. I detriti più piccoli e quindi più leggeri, invece, vengono trasportati per distanze maggiori, e il loro deposito è legato a condizioni climatiche più secche. Sono questi ultimi che costituiscono la quantità maggiore di microplastica depositata.

Gli studiosi hanno inoltre applicato gli strumenti solitamente utilizzati per calcolare il trasporto globale di polveri naturali a quello delle microplastiche, la maggior parte delle quali, infatti, ha una dimensione minore di 25 µm, proprio come le polveri, anche se la loro bassa densità fa sì che possano percorrere distanze ancora maggiori.

I risultati confermano quindi che le microplastiche, come la polvere, possono essere trasportate facilmente da un luogo a un altro, entrando anche negli organismi e nel cibo che ingeriamo. Il loro moviemento attraverso i diversi ecosistemi, tramite il loro continuo depositarsi e risospendersi in ambienti diversi del pianeta e nell'atmosfera, permette loro di entrare a far parte anche delle reti alimentari degli organismi viventi, subendo trasformazioni abiotiche e biotiche.
Resta ancora da indagare, inoltre, se anche le microplastiche, come la polvere, possano fare da vettore per il trasporto di contaminanti chimici e microbi nell'atmosfera.

È di fondamentale importanza che le ricerche successive continuino a indagare i processi di trasporto delle microplastiche, a partire dalla distanza che queste sono capaci di percorre all'interno dell'atmosfera, concentrandosi non solo sul loro accumulo negli oceani, ma pensando il loro spostamento come un ciclo globale, da studiare in modo simile a quelli naturali.

Ci sono quindi ancora molte domande a cui la ricerca scientifica deve dare una risposta, per quanto riguarda l'inquinamento causato dalla plastica nell'ambiente. Anche perché, come sostengono Ward e Reddy nel loro articolo, sono necessarie delle informazioni affidabili, provenienti da studi scientifici trasparenti sulla persistenza ambientale dei prodotti in plastica perché i legislatori e il pubblico possano prendere decisioni consapevoli.

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012