SOCIETÀ

Paura della scienza: un fenomeno culturale complesso

Il rapporto di fiducia, talvolta complicato, nei confronti della scienza è uno degli argomenti che negli ultimi anni ha animato il dibattito pubblico tra la società civile, i ricercatori, le istituzioni e gli esperti di divulgazione e comunicazione scientifica. Cambiamento climatico, evoluzionismo, vaccini. Solo per citare alcuni dei principali temi “caldi” che continuano a dare adito a teorie antiscientifiche se non persino complottiste.

È possibile individuare le radici storiche dei principali movimenti antiscientifici? Quali contesti e percorsi di vita favoriscono l’emergere di atteggiamenti di rabbia e scetticismo che spingono a mettere in dubbio la buona fede dei ricercatori? E quand’è che questo scetticismo si trasforma addirittura in una forma di paura per la scienza?

Il rapporto tra scienza e società, con i suoi limiti e le sue contraddizioni, è uno dei temi centrali dell’edizione 2022 di Trieste Next, il festival della ricerca scientifica che si svolge ogni autunno nel capoluogo giuliano (quest’anno dal 22 al 24 settembre con un palinsesto di eventi intitolato “I confini della scienza”).

Durante l’incontro “Perché abbiamo paura della scienza”, uno dei tanti eventi organizzati nell’ambito del festival, i giornalisti Enrico Pedemonte, autore del libro Paura della scienza (Treccani, 2022) e Nico Pitrelli, responsabile dell’ufficio comunicazione della Sissa di Trieste, hanno approfondito le modalità e i contesti in cui si instaura il rapporto di fiducia tra i ricercatori e la società civile e, soprattutto, i tanti diversi motivi per cui questo rapporto può venire a mancare.

La sfiducia nei confronti della ricerca scientifica rappresenta un fenomeno complesso e stratificato che si interseca con la dimensione politica, storica ed economica e che, come sottolinea Pitrelli, non può essere riassunto in un problema di ignoranza.

Esemplificativo, in questo senso, è il caso dell’ideologia creazionista e della sua larghissima diffusione tra i membri della comunità evangelica negli Stati Uniti. Per comprendere gli aspetti più significativi di questo fenomeno, Pedemonte ha intrapreso una lunga ricerca alla scoperta delle ragioni più profonde del creazionismo.

“Gli evangelisti migrarono in America dall’Europa nel 1600, fuggendo dalle monarchie autoritarie”, racconta il giornalista. “Un loro elemento culturale caratteristico è il libertarismo: non credono nell’esistenza di un’unica autorità religiosa né allo stato forte. Con il passare degli anni, i membri di questa comunità hanno percepito un crescente attacco alla loro identità dovuto inizialmente alle intense migrazioni cattoliche provenienti dall’Europa e dall’America latina e poi, nel Dopoguerra, alla progressiva laicizzazione della scuola americana, dove è obbligatorio l’insegnamento del darwinismo. Per chi ritiene che la Bibbia vada interpretata alla lettera questa prescrizione viene vissuta come una vera e propria forma di violenza”. Di conseguenza, sviluppa un atteggiamento di chiusura e finisce per arroccarsi sempre più sulle proprie posizioni. “In queste circostanze, una scienza che parla di cambiamento climatico, darwinismo e verità antitetiche ai valori fondanti della propria cultura di riferimento viene respinta”, osserva Pedemonte.

In casi come questo, accade, comprensibilmente, che la diffidenza nei confronti della scienza si traduca anche in un mancato rapporto di fiducia nei confronti dello stato, dei governi e delle istituzioni. Tuttavia, la causa di questo circolo vizioso non è riconducibile sempre e soltanto a identità culturali. Anche gli interessi politici ed economici possono giocare un ruolo fondamentale in questa storia, arrivando a minare la fiducia collettiva nei confronti della ricerca scientifica. L’esempio più lampante su cui si concentra Pedemonte riguarda, naturalmente, lo scetticismo nei confronti del riscaldamento globale, alimentato per anni dalle ricerche finanziate dalle industrie del petrolio per dimostrare l’inesistenza del cambiamento climatico. Ma il caso del negazionismo climatico è un caso studio interessante anche per un altro motivo. La sua storia è illuminante per spiegare il legame tra fiducia (e sfiducia) nella scienza e polarizzazione politica.

“Prima del 2000 non c’era grande differenza di opinione sul tema del riscaldamento globale tra i leader democratici e repubblicani negli Stati Uniti”, racconta Pedemonte. La situazione inizia a ribaltarsi proprio all’inizio del nuovo millennio, quando la posizione assunta nei confronti della crisi climatica diventa una questione legata al proprio schieramento politico, con la stragrande maggioranza dei democratici che crede al riscaldamento globale e la gran parte dei repubblicani che invece ne rifiuta l’esistenza.

“Molti americani non credono al riscaldamento globale per effetto di una identificazione con una parte politica che ha sposato le tesi dell’industria che, analogamente al caso dei creazionisti, ha costruito per queste persone una realtà alternativa”, continua Pedemonte. “Dagli anni Novanta in poi, il colossale impegno profuso da parte dell’industria petrolifera per difendere i propri interessi negando i risultati della scienza – puntando sulla loro intrinseca incertezza – ha creato una gigantesca polarizzazione su questo tema da parte della popolazione di tutto il mondo, a cominciare proprio dagli Stati Uniti”.


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“Siamo abituati a pensare che basterebbe diffondere maggiormente i dati scientifici per aumentare la fiducia dei cittadini”, osserva Pedemonte. “Non è così. Tendiamo a credere ai fatti, anche a quelli scientifici, solo se essi corroborano la nostra visione del mondo. Quando questo non succede, i fatti in questione vengono rifiutati e si rischia di costruire una realtà alternativa”.

“Per par condicio, dobbiamo ricordare che questa tesi, dimostrata da diversi studi di psicologia sociale, è vera per qualunque schieramento”, aggiunge Pitrelli. “Sono diversi gli argomenti scientifici che risuonano maggiormente a seconda dell’orientamento politico di riferimento. Il dibattito sul nucleare, ad esempio, vede tendenzialmente i conservatori a favore e i progressisti contro. Spesso, l’aderenza o meno a una tesi scientifica dipende da un’identità culturale profonda, piuttosto che dal possesso di specifiche conoscenze”.

È possibile infine ritrovare un’altra delle molte dimensioni che costituiscono il fenomeno della paura della scienza nell’ultimo tema affrontato da Pedemonte e Pitrelli, ancora molto dibattuto tra gli stessi esperti del campo: quello che riguarda i possibili sviluppi dell’intelligenza artificiale.

“Siamo entrati in un’epoca in cui i modi per produrre conoscenza stanno cambiando in maniera rapidissima”, sottolinea Pedemonte. “Un tempo gli esseri umani raccoglievano i dati, li analizzavano e ipotizzavano l’esistenza di leggi naturali che poi verificavano interrogando la realtà. Oggi, invece, esistono algoritmi che sono in grado di analizzare con estrema rapidità quantità immense di dati.

Questa capacità, di una complessità per noi inimmaginabile, porterà a nuove scoperte e ad altre dimensioni del nostro vivere sociale, ma renderà anche possibili nuove forme di monitoraggio e controllo degli esseri umani. Basti pensare ai social: creano dipendenza, sorvegliano le nostre attività e spesso i loro algoritmi sono “opachi” nelle decisioni che prendono, basate su logiche a noi incomprensibili”.

Questi sono i motivi per cui le tecnologie di intelligenza artificiale possono creare sfiducia, spingendoci a immaginare scenari alquanto inquietanti. Una delle grandi sfide per il futuro sarà proprio quella di capire che spazio possono trovare, nella ricerca scientifica, i timori suscitati dagli aspetti più controversi di queste nuove tecnologie.

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