SOCIETÀ

Il modello scandinavo: Svezia, Danimarca e Norvegia alla prova migranti

Svezia, Danimarca e Norvegia sono dei candidati perfetti per fare uno studio comparativo sulle diverse politiche migratorie. Tutti e tre gli stati scandinavi infatti sono simili dal punto di vista del welfare economico.

Se si analizzano però le visioni sul tema dei migranti si possono storicamente riscontrare diverse differenze.

Danimarca e Svezia in particolare si posizionano agli antipodi, con i danesi che hanno una visione restrittiva, mentre gli svedesi sono storicamente più permissivi, anche se ultimamente le cose sembrerebbero cambiare anche per loro. La Norvegia infine si inserisce nel mezzo di questa diatriba, con un programma di introduzione obbligatorio ed un test di lingua e conoscenza relativamente “semplice” per la naturalizzazione.

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I numeri

I paesi scandinavi a livello europeo sono costantemente tra i primi posti per quanto riguarda il numero dei rifugiati. In particolare la Svezia, secondo i dati UNHCR riferiti al 2016, è il primo paese in Europa per numero di rifugiati ogni mille abitanti. Con 23 rifugiati per mille abitanti è nettamente il primo paese, staccando di molto Malta che è secondo con 11 rifugiati. Il terzo paese europeo per numero di rifugiati per mille abitanti infine è proprio la Norvegia, mentre la più conservatrice Danimarca è al nono posto dietro paesi come l’Olanda, la Germania, la Svizzera e Cipro.

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Il caso svedese

La Svezia da diversi anni è, all’interno dell’Unione Europea, uno degli stati cardine per quanto riguarda l’integrazione. Nel 2015 infatti, era lo Stato membro dell'UE con il tasso di naturalizzazione più elevato (6,7 acquisizioni per 100 stranieri residenti), e, soprattutto, con il numero di rifugiati maggiore per ogni mille abitanti (23,4 rifugiati per mille abitanti, al secondo posto c’è Malta con 18,3, al terzo la Norvegia con 11,4 mentre l’Italia ne ha 2,4, secondo i dati UNHCR riferiti al 2016).

Il caso svedese però è emblematico di come siano cambiati i flussi migratori verso l’Europa. Negli anni ‘90 (dal 1990 al 1994) in Svezia arrivarono circa 100mila rifugiati, provenienti principalmente dall’ex Jugoslavia. Questo periodo sancisce anche la prima fare delle politiche migratorie svedesi. Storicamente infatti la Svezia ha vissuto tre diverse fasi che avevamo approfondito dettagliatamente qualche settimana fa. L’aspetto che attira però più l’attenzione, cercando di fare un’analisi comparativa con gli altri paesi scandinavi, è il mutamento delle politiche avvenuto nel 2016. Dal 2016 infatti, il governo svedese ha introdotto un permesso temporaneo di 3 anni (che si riduce a 13 mesi per chi ha uno status di rifugiato sussidiario), limitando anche il ricongiungimento familiare.

Questa legge sarebbe dovuta restare attiva fino al 2018, condizionale d’obbligo visto il risultato delle recenti elezioni politiche. Il risultato di tali politiche più restrittive, è stato quindi un drastico calo delle richieste di asilo, che sono passate dalle 162mila del 2015 alle 28mila del 2016.

Una situazione che vede anche l’ascesa politica del partito di estrema destra che alle ultime elezioni ha conquistato il 17,6% dei voti.

Il caso danese

Come gli altri paesi scandinavi, anche la Danimarca storicamente è considerata un posto in cui la qualità della vita è alta ed il welfare è di quelli da prendere a modello. Queste qualità però non sembrerebbero riferirsi a chi in Danimarca migra o si rifugia. Il governo danese infatti, ad inizio marzo, ha approvato un pacchetto di leggi finalizzate a regolamentare la vita delle persone che vivono nei “ghetti”, che sono localizzati in 25 diverse zone del paese. Questi luoghi sono abitati principalmente da immigrati, i più di religione musulmana.

Come ha riportato il New York Times, la legge prevede che i bambini provenienti da questi “ghetti” vengano separati dalle loro madri a partire da un anno di età per 25 ore settimanali, durante le quali riceveranno un’istruzione obbligatoria dei “valori danesi”. Un modo forzato quindi per far apprendere ai bambini i principi costituzionali dello Stato danese, la cultura, la lingua e le rispettive tradizioni. Anche i cittadini danesi sono liberi di poter iscrivere i propri figli in età prescolare a questi “corsi di formazione”. La mancata partecipazione dei bambini dei “ghetti” alla formazione comporterebbe però l’interruzione del pagamento del welfare, che significa l’impossibilità ad esempio di usufruire del sistema sanitario nazionale.

Il governo danese ha quindi concentrato le proprie attenzioni sui quartieri urbani in cui c’è la più alta concentrazione di immigrati. Nel gennaio 2018 è stato direttamente il Primo Ministro danese Lars Løkke Rasmussen, a parlare di questa svolta politica, raccontando i “ghetti” come dei luoghi in cui: “i bambini crescono in un ambiente in cui non è normale che i genitori vadano a lavorare [...]. Dove i giovani sono costretti a sposare una persona che non amano e dove le donne sono considerate meno importanti degli uomini. […] Posti in cui le persone non si assumono responsabilità, non partecipano, non sfruttano le opportunità che abbiamo in Danimarca, ma stanno fuori dalla comunità”.

Oltre a questa direttiva, il pacchetto di nuove norme inasprisce anche le pene per i reati commessi in una di queste 25 zone. Ci sono state anche alcune bocciature alla legge, come la proposta del partito di estrema destra, il Partito Popolare Danese, che aveva avanzato la proposta di vietare ai bambini dei “ghetti” di uscire di casa dopo le ore 20.

Rasmussen ha infine dato la colpa a “decenni di politica lassista sull’immigrazione”.

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In Danimarca il numero di immigrati è di 5 ogni mille abitanti e, grazie ad una legge approvata nel gennaio 2016, chi giunge nel paese scandinavo deve lasciare allo stato i beni che valgono più di 1.300 euro, per contribuire alle loro spese di mantenimento e a quelle burocratiche per la richiesta di asilo.

Con un post su facebook infine, la ministra per l’immigrazione danese Inger Støjberg, ha ribadito che la Danimarca “sta ancora lottando per far sì che coloro che sono arrivati diventino parte della normale vita quotidiana danese”, motivo per cui crede che il paese non debba prendere la sua “quota” di migranti decisa dall’Unione Europea.

Il caso norvegese

In Norvegia dal 2013 ad oggi ha sempre governato il centrodestra, che si è confermato vincente anche alle ultime elezioni tenutesi nel settembre dello scorso anno. A capo del governo c’è Erna Solberg, leader del partito conservatore e premier norvegese dal 2013. Alleato del più moderato partito conservatore però, c’è il Partito del Progresso, una formazione politica che racchiude in sé alcuni esponenti più volte tacciati di xenofobia. È balzata agli onori della cronaca solo pochi mesi fa la vicenda di Per Sandberg, ministro norvegese della Pesca e rappresentante del Partito del Progresso che è stato costretto a dimettersi, dopo essere stato scoperto in viaggio verso l’Iran con Bahareh Letnes, ex miss Iran di cui, per sua stessa ammissione, si era innamorato.

La Norvegia, in quanto Stato non UE, è un’eccezione per quanto riguarda la questione dell’asilo politico.

Il paese storicamente non è considerato uno stato soggetto a migrazioni. Fino al 1960 infatti, come riportato da uno studio dell’università di Oslo, in Norvegia non c’è stato alcun significativo flusso migratorio, anche se il paese aveva firmato sia la dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti umani (1948) che la Convenzione sui rifugiati (1951). I primi significativi flussi migratori si iniziarono a vedere verso la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70. Ciò è accaduto congiuntamente a una più ampia tendenza europea di aumento della migrazione di “forza lavoro” sia internamente in Europa che da paesi esterni Europa. Quest’ondata portò persone adatte ad una manodopera poco qualificata provenienti principalmente da: Marocco, Turchia, Pakistan e Jugoslavia.

Come avevamo già notato con la Svezia, anche in Norvegia all’inizio degli anni ‘90 ci fu una grande migrazione di persone (circa 13mila) provenienti dall’ex Jugoslavia a cui fu dato diritto di residenza. Anche in Norvegia negli ultimi 10 anni c’è stato un incremento di richieste di asilo politico da migranti, prima provenienti principalmente dall’Afghanistan e dell’Iraq e poi, dal 2014, dalla Siria. Inizialmente a questa crisi dei rifugiati la Norvegia reagì in un modo più “aperto”, fino a quando, nel 2015 i laburisti, i conservatori ed il Partito del Progresso si trovarono d’accordo a sospendere il trattato di Schengen.

La Norvegia oggi (dati UNHCR riferiti al 2016) è il terzo paese europeo per numero di rifugiati ogni mille abitanti nonostante il cambiamento di politica. L’inversione di tendenza maggiore infatti, si è registrata nel 2016, quando le richieste di asilo politico (come prima richiesta) erano state 3.485, un numero ben inferiore alle 31.110 dell’anno precedente.

La politica restrittiva degli ultimi anni però non è stata esente da contestazioni. Ad inizio 2018 infatti, c’è stata una mozione, poi respinta, per chiedere al governo norvegese di bloccare i rimpatri dei richiedenti asilo afghani. Secondo un rapporto di Amnesty International infatti, “la Norvegia rimpatria più afghani di ogni altro paese europeo. Secondo le autorità di Kabul, il 32 per cento (97 su 304) degli afghani rimpatriati nei primi quattro mesi del 2017 provenivano dalla Norvegia”.

Numeri che, secondo l’ONG, destano preoccupazione, essendo l’Afghanistan terra ancora insicura. “Secondo la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) - dichiara una nota di Amnesty International - nel 2016 sono state uccise o ferite 11.418 persone. Nei soli primi sei mesi del 2017 le vittime civili documentate da Unama sono state 5.423”.

Il modello scandinavo di integrazione quindi non può essere visto in modo unilaterale. Come abbiamo notato però ci sono alcune analogie, sia dal punto di vista legislativo che politico. L’estrema destra negli ultimi anni è in ascesa ed è difficile non riuscire a correrarla con una crescente preoccupazione per quanto riguarda le migrazioni. Che sia nella più permissiva Svezia, che in Danimarca o Norvegia, le politiche migratorie negli ultimi anni si stanno irrigidendo, segno che la mancanza di una forte e condivisa politica europea su queste tematiche rischia di tradursi in un aumento del sentimento nazionalista.

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