SOCIETÀ

La posizione eretta e gli arti, chiave dell’evoluzione umana, non solo sapiens

Il giovane paleoantropologo americano Jeremy Jerry DeSilva ha appena compiuto 46 anni (7 aprile 1976) e ha fatto la tesi dottorato sulla cruciale tibia oltre una ventina di anni fa. Oggi è molto noto, insegna alla facoltà di Antropologia del Dartmouth College, nei boschi del New Hampshire, e ha accumulato peculiari esperienze nello studio dei soli due arti che i sapiens hanno per camminare, dall’inizio della nostra avventura terrestre. I suoi studenti a volte gli chiedono in che periodo vorrebbe trovarsi se colleghi scienziati fisici inventassero una macchina del tempo e lui risponde senza esitazioni: in Etiopia 3,18 milioni di anni fa, minuto più minuto meno, per trascorrere una giornata con Lucy e portare con sé degli strumenti scientifici per misurare ogni dettaglio della sua camminata e calcolare quanta forza esercitava sulle sue articolazioni. 

Di Lucy esiste lo scheletro completo scoperto nel 1974, primo fossile ritrovato nel sito 288 nella località di Afar (A.L. 288-1), una nuova specie di Australopithecus. Nel marzo 2017 ad Addis Abeba, DeSilva è riuscito a studiarne i frammenti distribuiti su tre ripiani: cranio, mandibola e braccia; costole e vertebre; bacino, gambe e piedi. La prova schiacciante dell’andatura eretta si trova nel ginocchio, nell’angolo condilare (ben ritrovato fra i sodali di Lucy rinvenuti negli anni successivi): quelle ossa confermano ciò che precedenti scoperte effettuate in Sudafrica avevano solo lasciato intuire, il bipedalismo è apparso presto nella storia dell’evoluzione verso gli ominidi. Siamo in grado di collocare le origini della nostra linea evolutiva in un periodo compreso tra i cinque e i sette milioni di anni fa in Africa.

Successivamente troviamo DeSilva all’Università di Tubinga in Germania, con la paleontologa Madelaine Böhme che sosteneva che una specie appena rinvenuta (maggio 2016) di scimmia antropomorfa del Miocene camminava già su due gambe, chiamata Danuvius guggenmosi, vissuta da quelle parti undici milioni di anni fa. C’erano proprio alcune tibie da valutare, quella di Danuvius in linea con Lucy e con noi, forse camminava su due piedi sugli alberi. Ma è soprattutto in Africa e in Sudafrica che DeSilva è dovuto peregrinare nei decenni di inizio millennio, divenuto ben presto parte di vari gruppi di ricerca, in particolare di quelli che hanno descritto due importanti rami (o vicoli) dell’evoluzione, che recentemente hanno suscitato clamori discussioni ripensamenti: Australopithecus sediba e Homo naledi. Bello il libro appena uscito sul suo tragitto scientifico all’origine del bipedalismo: Jeremy DeSilva, I primi passi. Perché la posizione eretta è stata la chiave dell’evoluzione umana, traduzione di Luigi Maria Sponzilli, HarperCollins Milano 2022 (orig. 2021).

Bipedalismo: la svolta cruciale della nostra evoluzione

Secondo DeSilva il nostro insolito e straordinario bipedalismo è alla base di molti dei tratti, unici e peculiari, che ci rendono esseri umani, i soli Homo sapiens. Non è il primo ad averlo detto, comunque vi insiste e lo motiva: si tratta della svolta cruciale della nostra evoluzione. Moltissimi animali assumono una posizione eretta per scrutare l’orizzonte o per assumere un’aria intimidatoria, ma gli umani sono i soli mammiferi che camminano sempre su due gambe, gli unici mammiferi bipedi sulla superficie della Terra. La classica rappresentazione dell’evoluzione progressiva e lineare dallo scimpanzé piegato sui quattro arti a noi sapiens con la testa bella alta è sbagliata. Le continue scoperte di nuovi fossili ci stanno rivelando come si è invece davvero sviluppata la capacità di camminare eretti un po’ ovunque, prima fra gli ominidi, poi fra specie di ominini e specie del genere Homo, come infine soprattutto noi sapiens, residui dei vari Homo, ci siamo trovati a sopravvivere e riprodurci a (due) piedi. 

Il bipedalismo viene sostanzialmente prima rispetto all’ingrandirsi del cervello o alla cura neonatale o alla capacità migratoria intercontinentale o al linguaggio comunitario, tanto più che specie diverse hanno camminato in modo diverso con i due piedi, le loro ossa e le loro orme ce lo segnalano, risultando comunque perlopiù capaci nel lungo periodo di gestirne i conseguenti vantaggi (maturati lentamente) e svantaggi (come la minore velocità nella corsa, il parto più difficile e pericoloso, patologie quali ernie e scoliosi). I cambiamenti anatomici necessari a camminare dritti in modo efficiente hanno influito e influiscono anche sulla vita degli individui umani di oggi, dai primi passi che compiamo agli acciacchi e ai dolori che ci colpiscono invecchiando: “non è stato Homo sapiens a creare il bipedalismo, bensì il contrario” (Kagge, 2018).

DeSilva è specializzato nella locomozione e ricostruisce ottimamente il bipedalismo come “caduta controllata”, nelle dinamiche posturali ed energetiche, discutendo continuamente lo stato attuale delle domande giuste da porsi e delle risposte più o meno confermate dai fatti conosciuti, le prime comunque più delle seconde. Nella storia del regno animale gli umani non sono stati i primi, bisogna scavare più profondamente nel passato, almeno fino all’epoca precedente ai dinosauri, capire quando e perché si è camminato e possano essere emersi vicoli ciechi dell’evoluzione, visto che gli antenati comuni a entrambe le linee evolutive di coccodrilli e alligatori o dinosauri e uccelli conoscevano pure l’andatura bipede. L’evoluzione si applica solo su strutture preesistenti. Non siamo prototipi creati da zero. 

Ci sono molti modi di percorrere un chilometro

Siamo scimmie antropomorfe modificate e, rispetto alla linea evolutiva degli uccelli, siamo bipedi da poco tempo. Poi bisogna tener conto della separazione fra ecosistemi (per esempio a causa del livello del mare) e delle migrazioni delle specie (in particolare di quelle che non solo volano né solo nuotano). La struttura in tre parti (come si è iniziato a camminare eretti, diventare un essere umano, camminare è vivere) e in quindici capitoli complessivi è cronologica rispetto alle scoperte dei fossili nell’ultimo cinquantennio (talora contraddittorie, talora dirompenti) più che rispetto all’evoluzione temporale (con qualche riferimento alla genetica). Si accenna alle manifatture e al pollice opponibile (ma non a Gould), pur se l’attenzione è concentrata prevalentemente su gambe e piedi, sull’andatura eretta, diversamente eretta da milioni di anni.

DeSilva ribadisce che gran parte della storia umana deve ancora essere scritta e collega giustamente e continuamente questa incertezza al fenomeno migratorio: “l’evoluzione umana e le migrazioni degli ominini in giro per il pianeta furono molto più complesse, e anche più interessanti, di quanto abbiamo mai osato immaginare”. Non una tipologia specifica e incommensurabilmente diversa dalle migrazioni moderne, non una diffusione, non una progressione, non un senso unico. Piuttosto un processo diacronico e multidirezionale, molto articolato e diversificato nel tempo e nello spazio, con vicoli ciechi di estinzioni, andate e ritorno, incroci: “un processo dinamico che nessuna mappa è in grado di registrare”. L’autore prende in considerazione tutti i più noti siti di grotte e reperti, dove ha fra l’altro avuto spesso un ruolo di coprotagonista per il loro esame o riesame nell’ultimo ventennio. 

La locomozione eretta è strettamente collegata alla nostra evoluzione come specie sociale: senza linearità causali, il bipedalismo ha messo in moto molti eventi evolutivi, dall’uso manuale di attrezzi alla condivisione della cura dei figli, dalle reti commerciali al linguaggio. E continue emigrazioni e immigrazioni sono state un decisivo fattore evolutivo: “ci sono molti modi di percorrere un chilometro” sintetizza nel titolo del capitolo settimo, vale anche e soprattutto per l’origine di noi sapiens. “Non ci siamo evoluti in un luogo particolare e in un momento preciso. La nostra specie si è evoluta mentre le popolazioni ominini attraversavano l’Africa e si scambiavano geni, alcuni di essi utili alla sopravvivenza”.

Migrare (camminando) è stato una sequenza progressiva di risposte adattative

Come noto, le oscillazioni climatiche hanno giocato un rilevante ruolo selettivo, per tutte le specie umane e all’interno della specie sapiens. Alcuni si sono adattati sotto quella pressione selettiva, restando nello stesso ecosistema. Altri sono fuggiti o hanno comunque migrato e hanno cercato un ecosistema ospitale. Alcuni lo hanno trovato, altri no, e non ce l’hanno fatta. Migrare (camminando) è stato una sequenza progressiva di risposte adattative, una strategia evolutiva di sopravvivenza e adattamento. Immaginiamo le dinamiche evolutive dell’isolamento e dell’effetto del fondatore ripetute decine, centinaia di volte, a distanza di poche generazioni l’una dall’altra, in ecosistemi che, pochi chilometri al giorno, conducono da una nicchia umana a decine e centinaia di nicchie umane per uscire dall’Africa lungo un percorso di migliaia di chilometri in latitudine, longitudine e altitudine; a decine e centinaia di altre nicchie umane lungo rotte ignote e impervie. 

Un conto è l’orizzonte tattile, visivo, uditivo, olfattivo e gustativo, ancestralmente emotivo, comunicativo e comportamentale di un gruppo di umani, in una nicchia di un ecosistema stabile; un conto è l’orizzonte in una nicchia di un ecosistema mutato dal clima o dalla geofisica; tutto un altro conto sono gli orizzonti in una moltitudine di ecosistemi tutti abbastanza diversi gli uni dagli altri e spesso mutati da clima e geofisica, nei quali mai umani della stessa specie erano stati. Ancor più quando, per la prima volta, transitano successive generazioni di umani bipedi comunicanti. Cosa e quanto tutto ciò abbia lasciato nella nostra evoluzione biologica, nei contatti sinaptici e nei modelli cognitivi della nostra evoluzione sempre più culturale è ancora da decifrare, certo un lascito di qualche rilievo. Le ondate di Homo sapiens nel Paleolitico e quelle del Neolitico sono state un fenomeno in cui l’effetto del fondatore può aver agito da moltiplicatore. 

Alcuni anni fa abbiamo scritto sulla pressione selettiva del migrare. Le ondate migratorie hanno cibato la nostra comunicazione sensoriale e linguistica di luoghi e tempi, di ecosistemi ed eventi, di relazioni e tecniche. Alcune specie umane e infine Homo sapiens hanno subito pressioni selettive qualitativamente diverse da quelle della mobilità residenziale dei raccoglitori cacciatori e dell’erranza-dispersione dell’areale. Abbiamo suggerito di chiamarla pressione selettiva migratoria per gli adattamenti sia fisiologici che genetici. L’attitudine all’esplorazione, l’imprevedibilità di alcuni comportamenti e il cosiddetto spirito d’avventura, cioè il desiderio di oltrepassare confini, sono forse fra gli effetti della pressione selettiva del migrare. Homo sapiens ha mostrato, migrando e adattandosi a contesti eterogenei, una straordinaria plasticità. Pensiamo, per aggiungere ora un aspetto, alla svolta costituita dall’aggiunta del navigare al camminare, alle straordinarie innovazioni culturali e ai nuovi meticciati genetici che la navigazione via mare nel Paleolitico superiore ha vieppiù suggerito e consentito. Le migrazioni del Neolitico non ebbero il tempo di annullare le differenze genetiche prodotte dalle precedenti migrazioni e aggiunsero nuovi caratteri. È anche così che emersero culture antiche e moderne e nuovi gradi di costrizione e libertà.

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