CULTURA

Raccontare la fine del mondo (per come lo conosciamo)

Come imparare ad abitare l’ignoto? Ce lo siamo chiesti spesso, negli ultimi tempi. La pandemia ha bruscamente interrotto la normale quotidianità, costringendo tutti e ciascuno a ripensare – a volte in maniera radicale – la propria esistenza.

Come molti hanno sottolineato, la pandemia non è arrivata dal nulla: c’è un invisibile ma solido legame che la connette alla grande crisi della nostra epoca, quella ambientale. Anch’essa, a ben guardare, sta lentamente rendendo inevitabile la messa in discussione delle nostre più radicate abitudini, convinzioni e ideologie; ma lo fa in maniera più lenta, strisciante; i suoi effetti si dilatano nel tempo, così che non ce ne avvediamo.

Ancor più della pandemia, la crisi climatica ci sconcerta: è qualcosa di invisibile e al tempo stesso vastissimo, difficile da intercettare, comprendere, classificare. Di fronte a un simile disorientamento, tutto quel che possiamo fare è parlarne: solo in questo modo – nominandolo, descrivendolo – possiamo sperare di conoscerlo, di trovarne un senso.

Proprio per rispondere a questa esigenza, radicata nella natura umana, nasceva nel 2017 la newsletter MEDUSA, curata da Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi, che grazie a quel “laboratorio di scrittura” sull’Antropocene hanno scritto un libro: Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo) (Nero 2021).

I cambiamenti climatici sono l’entità che definisce la nostra epoca: eterei, si muovono su scala planetaria, hanno degli impatti enormi sul nostro modo di vivere e di pensare; la loro presenza è pervasiva ma difficile da afferrare fino in fond Medusa, p. 21

Medusa non è un libro divulgativo sulla crisi climatica; non è neanche un romanzo, né un racconto di finzione. Non c’è una storia o una trama da seguire. Non è uno di quei libri che si leggono tutto d’un fiato: tra un capitolo e l’altro ci si imbatte in storie, dati, citazioni e considerazioni che invitano alla riflessione, che impongono la lentezza. Eppure, vi è un chiaro filo conduttore che accompagna il lettore dalla prima all’ultima pagina, e che si esprime innanzitutto nella scelta stilistica, compiuta programmaticamente dai due autori, di fondersi in un unico “io” narrante. Quel che viene raccontato – l’Antropocene, e l’esplorazione della possibilità di convivere con un mondo che sta cambiando – riguarda ciascuno di noi, ogni essere umano; e l’“io” di Medusa dà voce a questa comunanza di destini.

“Cosa succede se lo stupore e l’alienazione diventano la norma?”, si chiedono De Giuli e Porcelluzzi nel libro. Proseguono: “I cambiamenti climatici sono l’entità che definisce la nostra epoca” (p. 21). Ecco perché bisogna partire da qui per esplorare il presente, e per tentare di trovare il bandolo della matassa.

Come ci spiega Matteo De Giuli, che abbiamo raggiunto via mail, «Quando abbiamo iniziato la newsletter, che è servita anche come laboratorio per scrivere il libro, non avevamo nessun obiettivo programmatico, avevamo voglia di scrivere di questi temi – anche se già usare la parola “temi” è fuorviante, perché ormai sembra subito un’etichetta di Netflix, una categoria merceologica. Piuttosto volevamo capire meglio noi, e poi raccontare, il rapporto tra umano e non umano in un’epoca come quella della crisi climatica che ridefinisce tutti i confini, le relazioni, i rapporti».

Raccontare: è questo il fil rouge. Nel corso del libro, ci si imbatte in moltissime figure: scienziati e studiosi, certo, ma anche moltissimi scrittori – Gadda, Calvino, Pasolini, Ortese, Bianciardi, Cassola, solo per citarne alcuni. Il dialogo con la letteratura è serrato, perché “in un mondo di storytelling a due dimensioni, la letteratura è un racconto cubico: ti racconta una storia, o l’assenza di questa, interrogandoti sul tuo rapporto con la realtà del mondo” (p. 25). Se, come avverte Amitav Ghosh nel suo La grande cecità, all’origine della crisi climatica vi è una profonda crisi dell’immaginazione, l’unico modo per uscire da questa impasse è creare nuove storie: ad esempio ridefinendo il nostro rapporto con la natura, dalla quale la narrazione moderna ci ha dipinti come del tutto separati, in un sogno di indipendenza e assolutezza da cui ci siamo bruscamente risvegliati.

“La nostra mente funziona raccontando storie e credendoci. […] E allora serve fare chiarezza, distinguere e deliberare sulla faccenda più delicata: perché la nostra vita sul pianeta è a rischio, mai come prima? E di chi è la colpa?”. Rispondere a tali domande – comprendere quel che stiamo vivendo, ricostruire la storia di come siamo arrivati fin qui – è essenziale. Ma conoscere non basta: spesso, infatti, la consapevolezza del problema non contiene in sé le sue soluzioni, non spinge all’azione. In che modo scrivere, raccontare, proporre narrazioni nuove può (se può) trasformarsi in un atto politico?

Mi risponde ancora una volta Matteo De Giuli: «La politica, il conflitto tra ideologie, è anche una questione di comunicazione, è una guerra di narrazioni. Nel libro citiamo un saggio che per noi è stata una lettura rivelatrice, Dominio, di Marco D’Eramo, che racconta proprio gli scontri di framing in Occidente, nel mondo capitalista, negli ultimi cinquant’anni, e inizia con un’analisi dei manuali di controguerriglia dell’esercito americano. I militari hanno sempre preso molto sul serio, senza farsi troppa pubblicità, alcune questioni decisive dei nostri tempi. Compresa la questione climatica, che hanno iniziato a ponderare e analizzare molto prima delle altre istituzioni e dell’opinione pubblica. D’altra parte la crisi climatica sconvolgerà anche gli equilibri geopolitici, quindi c’è un interesse diretto degli eserciti nel cercare di capire e anticipare gli scenari futuri di questo tipo. Dominio racconta perfettamente in che modo le ideologie compattano gli individui e le società proprio attorno alla diffusione di alcune narrazioni. Quindi sì, il racconto è un atto politico.

Ma il racconto a cui ci si riferisce in questo caso è quello che pertiene agli attivisti, ai politici, ai giornalisti. Quando si passa al racconto nella scrittura, alla narrativa quindi, le cose si complicano. Perché la letteratura, almeno per come la intendiamo oggi, è uno specchio deformante che rielabora la realtà in maniera a volte anche ambigua, imprevedibile. L’idea che ci possa o peggio ancora ci debba essere una letteratura programmatica, che fa da ancella a questioni sociali, è mortificante. E porta spesso, semplicemente, a romanzi brutti. Il che, a sua volta, non vuol dire ovviamente che la letteratura non debba avere allora nessuna ambizione, che non debba provare a raccontare la contemporaneità, che non debba avere un rapporto etico con la realtà del mondo. Il fatto è che in questi casi una formula non ci può essere, e sarebbe stupido pensare di cercarla. Forse è proprio lombra di questo spazio indefinibile che permette alla letteratura di nascere».

L’unica soluzione è un tutto che è più grande delle parti, e il catalizzatore di questa reazione può essere soltanto un minimo di speranza Medusa, p. 144

Gli autori di Medusa sono giovani, e nel libro si intravede in filigrana l’ansietà nei confronti di un futuro incerto, la paura paralizzante di fronte alla necessità di un cambiamento troppo grande per essere compreso, e che sembra irrealizzabile. Nella crisi climatica si intrecciano innumerevoli livelli di complessità: “le crisi economiche, le questioni ecologiche, le rivendicazioni politiche e sociali sono spesso strette in un irragionevole groviglio” (p. 121). Spesso, di fronte a questo muro di complessità l’impotenza prevale. Ma allora come convivere con l’incertezza? Come trovare la forza per impegnarsi? Può la capacità di immaginazione venire in nostro aiuto?

Nicolò Porcelluzzi mi risponde che «certo, all’immaginazione tocca un ruolo centrale, nel caos in cui siamo finiti. Ma», prosegue, «non è forse la stessa capacità umana di immaginazione che continua a inventarsi nuovi modi per spaccare la roccia e pompare idrocarburi, che inventa strategie per replicare modelli di esclusione sociale, emarginazione, persecuzione? Insomma, se l’immaginazione è il nostro terreno di coltura, resta il bisogno di sapere quali siano i semi da piantare, a quali idee dare valore, tempo e speranza».

E poi non si può certo lasciare da parte l’impegno, «nel senso di fatica e dedizione, senza il quale non può conseguire niente (gli attori inquinanti, nel nostro pianeta, spesso sono mossi da grande impegno: gli va riconosciuto). L’impegno ecologista si può declinare nei modi più diversi, ci sembra: nessuno è obbligato a incollarsi e incatenarsi agli incroci stradali, imbrattare i suv, o a scriverne tutti i giorni. Sono tanti i modi e le intelligenze utili in questo conflitto, a ognuno tocca capire a cosa gli è toccato. Limpegno e lapatia sono due forze complementari; se ci si applica in una, l’altra faticherà a emergere».

Se, da una parte, il fedele racconto della realtà sembra suggerire che non c’è via d’uscita, che ormai la strada verso la peggiore delle sorti possibili per la nostra società è tracciata, dall’altra parte – scrivono gli autori – “l’ottimismo della volontà supplica di non arrenderci” (p.142). Continuare a parlarne, a scriverne, a immaginare un esito migliore aiuta a non scivolare nell’apatia del catastrofismo, a dispetto di ogni ragionevolezza. Anche il progetto di MEDUSA – raccontano i suoi ideatori – ha avuto un potere catartico: «Già dall’inizio [della pubblicazione della newsletter] – ricorda Porcelluzzi – abbiamo messo in chiaro qualcosa che non è invecchiato in questi anni di progetto, il bisogno di parlarne per aumentare la consapevolezza intorno al Problema». Nessuno, da solo, può sperare di trovare la soluzione, né portare su di sé il peso del cambiamento. Ma comprendere, condividere, narrare può lenire il disorientamento. «Più che ottimismo forse capita di essere percorsi da una qualche forma di entusiasmo per il lavoro che abbiamo scelto di fare dentro MEDUSA, perché ci interessa tutto quello che è stato costruito e distrutto dall’essere umano, e ci interessa chi lo scrive bene, lo canta e lo suona, lo danza eccetera.

Ci fa sentire meno soli».

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