SCIENZA E RICERCA

Rispunta l’ipotesi falsificata dell’origine multipla della nostra specie

Chi pensava, e noi tra questi, che l’ipotesi dell’origine multipla della nostra specie fosse ormai null’altro che un argomento della storia dell’antropologia deve ricredersi. E vedremo il perché più avanti, dopo aver ricostruito il percorso e la falsificazione di quel concetto.

L’idea dell’origine singola o multipla della nostra specie ha costituito un terreno di confronto in cui si sono cimentati molti antropologi otto-novecenteschi. In Italia, il problema è stato alla base della nascita dell’antropologia nel nostro paese nel corso dell’Ottocento. Infatti, Paolo Mantegazza, il fondatore della scuola fiorentina di antropologia, era uno strenuo sostenitore dell’origine unica; mentre Giuseppe Sergi, il fondatore della scuola romana, sosteneva l’origine multipla. E quello aveva ragione e questo torto: come riferiremo.

I paleoantropologi avevano definito due modalità alternative per spiegare la nascita della nostra specie. I fautori del modello “multiregionale” pensavano che dopo la prima uscita dall’Africa dell’umanità, avvenuta circa 2 milioni di anni fa con l’Homo ergaster, e la sua dispersione in Asia ed Europa, in ciascuno dei tre continenti si sarebbero sviluppate linee evolutive diverse che comunque sarebbero terminate con l’apparire dell’Homo sapiens. L’ipotesi era decisamente bizzarra, perché la probabilità che tre linee evolutive diverse potessero sfociare nella stessa specie era praticamente nulla. E proprio per correggere tale stranezza, altri paleoantropologi hanno definito un modello evolutivo più coerente: il modello “fuori dall’Africa”. Quest’ultimo, prevedeva ancora la prima uscita da quel continente dell’umanità che aveva colonizzato tutto il Vecchio Mondo ma seguita dalla nascita molto recente in Africa della nostra specie che poi sarebbe anch’essa uscita per colonizzare prima il resto del Vecchio Mondo, e sostituire le altre specie che lì vivevano, e poi arrivare anche nel Nuovo Mondo.

Poiché l’analisi dei dati morfologici ricavati dallo studio dei fossili non consentiva di giungere alla validazione di uno dei due modelli e alla falsificazione dell’altro è stato necessario che divenisse possibile studiare direttamente il DNA per trovare la soluzione del problema. E alla fine degli anni Ottanta del Novecento, l’antropologia molecolare ha appunto falsificato il multiregionalismo e con esso la suggestione della nostra origine multipla.

L’esperimento decisivo è stato condotto da Rebecca Cann, Mark Stoneking e Allan Wilson. E il risultato è stato pubblicato nel 1987, sul numero 325 di Nature, intitolato: Mitochondrial DNA and Human Evolution. I tre scienziati hanno analizzato il DNA mitocondriale, quello cioè di origine materna, in un gruppo di individui provenienti da tutti i continenti e hanno poi composto i diversi tipi trovati in un albero filogenetico. Lo schema ha mostrato due rami principali: uno formato esclusivamente da tipi mitocondriali rinvenuti in alcuni soggetti di origine africana; e l’altro dai rimanenti tipi riuniti in gruppi corrispondenti alle ampie aree geografiche di provenienza delle persone studiate. E a ognuno di questi blocchi territoriali del secondo ramo si è unito qualche tipo africano che non era entrato a far parte del primo ramo. La tipologia dell’albero così ricostruita ha mostrato chiaramente che l’origine dell’antenata comune dell’intera nostra specie era africana e che alcuni suoi discendenti, cioè i tipi mitocondriali africani entrati nei diversi raggruppamenti geografici non africani, avevano colonizzato il resto del mondo e dato i natali alle altre popolazioni locali. Una volta risolto il problema dell’origine, i ricercatori si sono applicati a stabilire quando fosse nata la nostra specie. E l’orologio molecolare, basato sulla frequenza di accumulo delle mutazioni nel DNA, ha indicato la data di circa 200.000 anni fa.

Da quel momento è stato chiaro che la nostra specie si è originata una sola volta in Africa e in un’epoca molto recente. E le successive ricerche dell’antropologia molecolare hanno confermato quanto scoperto sperimentalmente da Cann, Stoneking e Wilson. Si faccia attenzione. Abbiamo fatto precedere la data di 200.000 anni fa da “circa” e ciò perché le datazioni definiscono sempre un intervallo temporale e anche perché il sistema di datazione molecolare dipende dal tratto di genoma che si utilizza. E gruppi diversi di studiosi hanno fornito stime diverse della nascita della nostra specie. Il DNA del cromosoma Y, cioè il paterno, si è attestato su una data decisamente più recente e compresa tra 100.000 e 50.000 anni fa; e infine, quello autosomico ha fissato la venuta al mondo dell’Homo sapiensa circa 160.000 anni fa. Come si vede tutte queste datazioni sono assolutamente compatibili con quanto suggerito dal modello della nostra origine africana e recente o modello “fuori dall’Africa”.

Nel corso degli anni Novanta del Novecento e subito dopo, però, i sostenitori dell’origine multipla, o del modello “multiregionale”, si sono dati molto da fare per cercare di confutare la nostra origine unica, africana e recente ma sono sempre stati smentiti dai risultati sperimentali ottenuti dagli antropologi molecolari. In questi ultimi anni sembrava che la questione fosse stata ormai superata e che i paleoantropologi multiregionalisti avessero trovato pace, non essendo stato loro possibile produrre risultati sperimentali a favore di quanto da essi sostenuto.

Un’altra questione si è intrecciata a quella dell’origine singola o multipla della nostra specie e ha riguardato il luogo dove fosse nata sei milioni di anni fa la linea evolutiva umana: cioè quale parte del mondo fosse stata la culla della sottofamiglia ominina, che comprende i generi OrrorinArdipithecusAustralopithecusKenyanthopusParanthropusHomoQuesto dibattito, che ha coinvolto nell’Ottocento alcune delle figure più importanti dell’evoluzionismo, è stato risolto da Charles Robert Darwin che, in contrapposizione a chi poneva la terra natale in Asia come Alfred Russell Wallace, ha proposto l’Africa perché in quel continente vivevano i primati non umani più simili a noi. E successivamente l’assunto darwiniano ha trovato conferma nel fatto che tutti i fossili dei generi più antichi della nostra linea evolutiva sono venuti alla luce lì. Quindi l’Africa, oltre a essere la culla dell’Homo sapiens, è la culla dell’intera umanità, cioè della sottofamiglia ominina.

Veniamo ora al perché si devono ricredere tutti quelli, e sono la quasi totalità degli antropologi, che ritenevano ormai superata la discussione sull’origine singola o multipla e sul luogo di nascita in Asia o in Africa dell’Homo sapiens.

SorprendentementeLa Lettura del Corriere della Sera ha pubblicato domenica 24 luglio 2018 un articolo del fisico Claudio Tuniz che ripropone i temi del vecchio e superato dibattito. Un pezzo quindi destinato alla divulgazione scientifica e che, come tale, dovrebbe aiutare i non specialisti a comprendere il lavoro degli scienziati e non già a colpire l’immaginazione del pubblico con notizie sulle quali l’ambiente scientifico non va oltre lo scetticismo o la noncuranza. I caratteri scelti per il titolo sono di notevoli dimensioni e il colore un bell’azzurro carico. Il titolo dice cosìL’Homo sapiens arriva dall’Asia. E sovrasta un grande punto interrogativo in grigio chiaro. Il fatto che il punto interrogativo sia in secondo piano e in colore meno appariscente sembra indicare più un guizzo prudente di resipiscenza che instillare un messaggio di cautela e dubbio nel lettore, una volta che si è scelto di dare una notizia che se fosse stata vera avrebbe mutato drasticamente quanto finora acquisito sulla nostra venuta al mondo come specie e che ci avrebbe costretto a riscrivere i libri di antropologia. Insomma, un titolo per non passare inosservato ma dedicato a una proposta scientifica che definiamo inconsistente per non usare parole forti.

Dopo aver tracciato la storia della scomparsa dei fossili dell’uomo di Pechino, o Homo erectus, avvenuta nel 1941 a seguito dello scoppio del conflitto cino-giapponese, Tuniz così scrive su La Lettura:

“[Quei resti] All’epoca erano i più antichi resti umani conosciuti. Scoperti nel 1923 a Zhoukoudian, villaggio a 50 chilometri da Pechino, avevano creato scalpore internazionale poiché ambivano a indicare la Cina come culla dell’umanità. Nei decenni successivi l’attenzione si rivolse all’Africa, e l’opinione prevalente fu che spettasse a questo continente l’onore delle nostre origini ancestrali. […] Le prime specie di Homo, che sanno costruire strumenti e controllare il fuoco, appaiono fra tre e due milioni di anni orsono. Homo ergastersarebbe stato il primo a uscire dall’Africa, spingendosi fino in Indonesia, 1,8 milioni di anni fa, e poi in Cina, un milione di anni dopo. Durante il suo lungo viaggio si andava trasformando in Homo erectus. […] In seguito l’Asia si arricchì di altre specie umane, tra cui i Neanderthal, i Denisovani e i piccoli e bizzarri Homo floresiensis: le ultime due specie rinvenute solo pochi anni fa. Tutte queste specie, sopravvissute in Eurasia a mille traversie climatiche, sarebbero state soppiantate dai Sapiens [sic! Il nome della specie si scrive con la prima lettera minuscola] usciti dall’Africa 60 mila anni fa, armati di pensiero simbolico e linguaggio complesso. Le scoperte che non confermavano questa storia non venivano prese in considerazione. Fu ad esempio accantonata l’idea che esistessero in Cina forme “di transizione” tra ErectusSapiens [sic!], risalenti a centinaia di migliaia di anni fa. Eppure resti di specie umane ibride furono rinvenute negli anni Ottanta e Novanta, a Dali e a Yunxian, nella Cina Centrale, e i relativi studi vennero pubblicati. Ora nuove scoperte impongono di riconsiderare l’ipotesi di un incrocio fra Sapiensed Erectus [sic!] e le date di arrivo di Sapiens [sic!] in Asia e Oceania”.

Il modo di ragionare di Tuniz si inserisce nel superato filone del modello evolutivo lineare che pretendeva di spiegare la comparsa dell’Homo sapiensin Oriente come semplice e graduale trasformazione dell’Homo erectus. Quello schema evolutivo è stato soppiantato dal modello dell’evoluzione per equilibri punteggiati. I fossili a cui fa riferimento Tuniz quindi non sono affatto forme di transizione o ibride tra l’Homo erectuse l’Homo sapiens quanto le discendenti di popolazioni di una specie pre-sapiens, l’Homo heidelbergensis, migrate in Asia dall’Europa o le eredi di qualche gruppo di Homo ergaster (o anche di Homo heidelbergensis africano) migrate in Oriente dall’Africa. Il centro di questa ipotesi evolutiva prevede che quell’umanità sia estranea alla nostra specie e più antica, che poi avrebbe conosciuto l’estinzione e che sarebbe stata sostituita dall’Homo sapiensproveniente dall’Africa. Quest’ultima teoria è sostenuta dall’indagine molecolare che ha permesso di considerare più coerenti gli equilibri punteggiati rispetto all’evoluzione lineare. Quanto poi alla possibilità di incroci tre l’Homo sapiense l’Homo erectus si tratta solo di aspettare quando e se saranno disponibili i dati molecolari. Ma in ciò non ci sarebbe nulla che contrasta con quello che abbiamo affermato. Infatti, l’analisi molecolare ha già dimostrato l’incrocio tra specie. E in particolare, oggi consideriamo provata sia l’evidenza di una piccola percentuale di incroci (circa il 4 per cento) tra l’Homo sapiense l’Homo neanderthalensis sia che le due sono specie diverse e che non sono mai esistite forme di transizione tra esse. Nel nostro DNA insomma ci sarebbe una piccola parte di DNA neandertaliano, appunto quel 4 per cento, acquisita per introgressione. Allo stesso modo l’Homo sapienspotrebbe essersi incrociato in minima parte anche con l’Homo erectus, perché che le specie non sono entità genetiche assolutamente chiuse, a differenza di quanto si riteneva in passato.

Gli studi molecolari hanno stimato che l’Homo sapienssia uscito dall’Africa per andare verso oriente tra 75.000 e 62.000 anni fa e che sia arrivato in Australia e Nuova Guinea circa 50.000 anni fa. Recentemente sono venuti alla luce dei reperti fossili di Homo sapiensin un sito archeologico della Cina meridionale datato tra 120.000 e 80.000 anni fa e come si vede i due dati sono tra loro coerenti relativamente all’antichità della nostra migrazione in oriente.

Nello sviluppo del suo articolo, Tuniz continua a proporre l’idea dell’esistenza degli ibridi. Una questione quella degli ibridi sorta già alla fine degli anni Novanta del Novecento con il fossile di un fanciullo di quattro anni rinvenuto in Portogallo, ad Abrigo do Lagar Velho, e datato a 25.000 anni fa. Sebbene la sua appartenenza tassonomica all’Homo sapiens fosse certa, Erik Trinkaus era convinto di notare nella sua anatomia la persistenza di tratti neandertaliani, si sarebbe trattato cioè un ibrido, ma non è riuscito a convincere la comunità scientifica perché non è possibile conoscere come dovrebbe essere una morfologia ibrida e in più le misure e le forme del fossile cadevano perfettamente all’interno della variabilità nota per l’uomo attuale. Insomma, si lascino perdere gli ibridi. L’altra suggestione da cui non sembra possa distogliersi Tuniz riguarda l’origine multipla. E infatti così continua:

“Si sta quindi affermando l’idea che i nostri antenati diretti uscirono dall’Africa almeno 120.000 anni fa, disperdendosi a ondate in diverse parti dell’Asia. Il loro arrivo anticipato in Asia aumentava le probabilità di incroci con altre specie asiatiche, ma come spiegare gli ibridi Erectus/Sapiens [sic!] cinesi più antichi? È possibile che alcuni Sapiens[sic!] si siano evoluti dall’Erectus [sic!] locale? Questo significherebbe ammettere la possibilità di una evoluzione multipla di Sapiens [sic!], in contrasto con le teorie accettate. Anche se il DNA degli attuali Sapiens [sic!], inclusi i cinesi, suggerirebbe una linea di discendenza da un’antica popolazione africana”.

Bontà sua. Anche lui sembra accorgersi dell’insipienza e della contraddittorietà della tesi che sta presentando. Il DNA non racconta altro che la storia ormai accertata della nostra origine africana e recente. Ma il tarlo dell’origine multipla lo ha irrimediabilmente contaminato e ha ritenuto di trovarne conferma in un articolo di María Martinón-Torres, Song Xing, Wu Liu e José María Bermúdez de Castro dal titolo: A «source and sink» model for East Asia? Preliminary approach through the dental evidence, pubblicato nel numero 17 del 2018 della rivista Comptes Rendus Palevol. Ecco come prosegue Tuniz:

“In collaborazione con alcuni colleghi cinesi, María Martinón-Torres, direttrice del Centro Nacional de Investigación sobre la Evolución Humana di Burgos, ha proposto una nuova teoria che tiene conto del ruolo dell’Asia nelle nostre origini. Essa si basa su un approccio ecologico in cui si studiano le dinamiche tra popolazioni “sorgente” (source) e popolazioni “pozzo” (sink). Nelle prime si forma un surplus di individui, favorito da una maggiore disponibilità di risorse. Nelle seconde, la scarsità delle risorse abbassa la natalità e riduce la popolazione. Durante i periodi glaciali, l’Asia centrale e le steppe del Nord diventavano poco abitabili, trasformandosi in “pozzi” per le specie umane, mentre le zone più meridionali offrivano rifugi adatti alla loro sopravvivenza. Il Medio Oriente, secondo questa teoria, sarebbe divenuto un’occasione per gli incroci inter-specifici e una “sorgente” da cui germogliavano i rami di nuove specie umane. Una volta riaffermatesi condizioni climatiche più favorevoli, intorno a 400 mila anni fa, il ramo evolutivo dei Neanderthal avrebbe popolato tutta l’Eurasia occidentale, quello dei Denisovani l’Asia nordorientale e l’Oceania e le diverse forme “transizionali” non identificate la Cina. Uno di questi germogli avrebbe potuto raggiungere l’Africa, diventando il ramo dei Sapiens [sic!], che poi popolerà tutto il mondo. Ma si tratta di ipotesi, l’ultima delle quali sorprendente. Per confermare queste idee serve estrarre nuovi dati dai reperti fossili”.

Eccellente, davvero eccellente. Tuniz parla di forme “transizionali” non identificate e di ipotesi sorprendenti per confermare le quali non si hanno ancora dati. Davvero non sembra serio praticare la divulgazione scientifica in questo modo. Ma non è ancora tutto. María Martinón-Torres e i suoi colleghi espongono nel loro articolo il modello “source and sink” per cercare di comprendere il popolamento dell’Asia e non fanno cenno all’origine asiatica dell’Homo sapiens. Inoltre, essi usano sempre il termine ominini mentre Tuniz quello di ominidi per la linea evolutiva umana. Questa è una differenza sostanziale. Per lungo tempo le linee evolutive nostra e degli scimpanzé, diversificatesi a partire da 6 milioni di anni fa, erano considerate tassonomicamente due famiglie: gli ominidi e i pongidi (che comprendevano anche il gorilla e l’orango). Ma la somiglianza genetica al 99 per cento tra noi e gli scimpanzé, in particolare il bonobo, ha convinto la quasi totalità della comunità antropologica a inserirci entrambi nella medesima famiglia degli ominidi e di conseguenza la linea umana è divenuta tassonomicamente la sottofamiglia ominina e la linea degli scimpanzé la sottofamiglia pongina. Solo chi non ha ancora accettato l’origine recente e africana della nostra specie, ovvero le informazioni che fornisce l’antropologia molecolare, si ostina a parlare di ominidi.

Si potrebbe concludere: tanto rumore per nulla. O anche, un articolo di divulgazione che non divulga perché privo di notizia.

In realtà, l’aver risollevato in maniera tanto disinvolta un dibattito antropologico ormai risolto è servito solo per poter presentare enfaticamente un risultato di ricerca di per sé inidoneo ad essere materia di divulgazione scientifica. Il gruppo di ricerca di cui fa parte Tuniz ha studiato gli unici quattro denti non andati perduti dell’Uomo di Pechino, sottoponendoli alla microtomografia ai raggi X. E per dare conto del risultato dello studio, ricorriamo alle stesse parole di Tuniz che concludono l’articolo su La Lettura: “Il nostro lavoro ha permesso di identificare le somiglianze evolutive dell’Erectus [sic!] cinese con i primi Erectus [sic!] indonesiani, ma serviranno molti altri studi genetici e morfologici per catalogare nel tempo e nello spazio tutti i diversi ominidi dell’Asia e trovare la loro parentela con noi Sapiens [sic!] di oggi”. Ecco appunto, tutto quello che è stato scritto prima non ha nulla a che vedere con il lavoro sperimentale di Tuniz e dei suoi colleghi. Essi hanno semplicemente compiuto una ricerca che ha aggiunto un piccolo ma interessante tassello all’analisi della variabilità biologica dell’Homo erectus.

Stavamo per dimenticare di dare notizia dell’articolo scientifico di Tuniz e dei suoi colleghi. Ripariamo subito. Il loro lavoro è stato pubblicato sul numero 116 del 2018 della rivista Journal of Human Evolutioncon il titolo: Inner tooth morphology ofHomo erectus from Zhoukoudian. New evidence from an old collection housed at Upsala University, Sweden. E gli autori sono: Clément Zanolli, Lei Pan, Jean Dumoncel, Ottmar Kullmer, Martin Kundrát, Wu Liu, Roberto Macchiarelli, Lucia Mancini, Friedemann Schrenk e Claudio Tuniz.

Ancora nel 2018, Eleonor Scerri ha pubblico, quale prima firmataria per un folto gruppo di ricerca, un articolo sulla rivista Trends in Ecology & Evolution (doi.org/10.1016/j.tree.2018.5.005) con il titolo: Did Our Species Evolve in Subdivided Populations across Africa, and Why Does It Matter? E in esso è stata avanzata l’idea di un multiregionalismo africano, con le seguenti parole: "Noi sfidiamo l’interpretazione che la nostra specie, Homo sapiens, si sia evoluta all’interno di una singola popolazione e/o regione dell’Africa. La cronologia e la variabilità morfologica dei fossili umani del Pleistocene suggeriscono che popolazioni morfologicamente diverse siano appartenute al clade [gruppo] H. sapiensvissuto attraverso tutta l’Africa". Per gli estensori dell’articolo quindi i più antichi fossili della nostra specie non dimostrerebbero una progressione lineare verso la nostra attuale morfologia ma piuttosto notevoli diversità di morfologia e distribuzione geografica. E di conseguenza, essi suggeriscono che l’Homo sapienssi sarebbe evoluto all’interno di un gruppo di popolazioni, legate da interscambi genetici, che vivevano distribuite in tutto il territorio africano e che insieme sarebbero mutate nel corso del tempo. Inoltre, essi prospettano un’età forse un poco più antica per la nostra nascita. Scerri e il gruppo di ricerca a cui appartiene hanno ristretto il multiregionalismo al nostro continente culla ma non possiamo non sottolineare come la proposta sia passata all’interno della comunità scientifica senza ricevere il consenso che sperava e ciò soprattutto per la mancanza di un qualunque supporto a livello molecolare. Almeno per ora.

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