SCIENZA E RICERCA
Sapiens e Neanderthal. L’incontro che ha determinato il futuro della nostra specie
Il dna antico continua a rivelare nuove preziose informazioni sul nostro passato più remoto. Due nuovi studi, pubblicati nel dicembre 2024, approfondiscono un capitolo particolarmente cruciale della storia della nostra specie, quello dell’incontro con i Neanderthal. I risultati suggeriscono che gli accoppiamenti tra Sapiens e Neanderthal siano avvenuti in maniera costante per circa 6000-7000 anni tra i 50.500 e i 43.500 anni fa, lasciando tracce profonde nelle popolazioni non africane contemporanee.
Secondo l’ipotesi scientifica attualmente più condivisa, Homo Sapiens ha avuto origine in Africa circa 200.000 anni fa. Le principali ondate migratorie fuori dal continente africano sarebbero avvenute intorno ai 60.000 anni fa. Alcuni studi suggeriscono infatti che le prime popolazioni di Sapiens abbiano raggiunto allora il Medio Oriente e che poi da lì si siano distribuite progressivamente in tutta l’Eurasia nel corso dei successivi millenni.
Quando i Sapiens raggiunsero l’Europa, incontrarono un’altra specie umana che già abitava nel continente da centinaia di migliaia di anni: i Neanderthal. Sebbene la convivenza sia durata “solo” poche migliaia di anni – i Neanderthal, infatti, si sono estinti circa 40.000 anni fa – le loro interazioni sono state determinanti per il futuro della nostra specie. Ancora oggi le popolazioni umane non africane conservano circa il 2% di dna neanderthaliano.
Non è facile ricostruire i primi flussi migratori dei Sapiens fuori dall’Africa e le tempistiche del loro incontro con i Neanderthal, soprattutto perché sono stati ritrovati pochissimi campioni genetici di esseri umani moderni vissuti più di 40.000 anni fa.
Un gruppo internazionale di ricercatori coordinato da alcuni antropologi evoluzionisti del Max Plank Institute, della UC Berkeley e dall’università di Rochester ha condotto uno studio su 334 genomi antichi e moderni risalenti agli ultimi 50.000 anni. Il loro obiettivo era quello di tracciare una cronologia più precisa degli incontri tra Sapiens e Neanderthal e scoprire perché alcuni geni neandertaliani siano sopravvissuti nel nostro dna attraverso la selezione naturale.
Secondo i risultati di questo lavoro, pubblicato su Science con la prima firma di Leonardo Iasi, i primi Sapiens giunti in Eurasia si incrociarono con un’unica popolazione Neanderthal (o con più popolazioni imparentate tra loro) circa 47.000 anni fa. Le due specie si mescolarono continuativamente per 6000-7000 anni (ovvero tra i 50.500 e i 43.500 anni fa). Di conseguenza, la stragrande maggioranza delle sequenze di dna neandertaliano ancora presenti negli individui contemporanei non africani deriva da questo periodo di ibridazioni.
New timeline for #Neandertal gene flow event. An intl. research team led by @IasiLeonardo & @benmpeter @MPI_EVA_Leipzig & @moorjani_priya @UCBerkeley unravels timing & impact of Neandertal gene flow into early modern #humans. https://t.co/HEyMn1fRsM & https://t.co/gplNUzYP7P pic.twitter.com/Ja3OqML3Bx
— MPI-EVA Leipzig (@MPI_EVA_Leipzig) December 12, 2024
Questi risultati sono corroborati da quelli di un altro studio condotto dallo stesso gruppo di ricercatori del Max Plank Institute e pubblicato su Nature con la prima firma dell’antropologa evoluzionista Arev Pelin Sümer.
Sümer e coautori hanno analizzato i genomi di sei individui vissuti tra i 42.200 e i 49.540 anni fa ritrovati nel sito archeologico di Ranis, in Germania, i quali costituivano una sorta di “famiglia allargata”: tra loro è stata accertata infatti la presenza di una coppia madre-figlia e di altre relazioni di parentela di secondo e di terzo grado.
I genomi in questione sono stati confrontati con quello del più antico individuo della nostra specie mai analizzato finora. Si tratta di una donna vissuta circa 45.000 anni fa, il cui cranio è stato ritrovato nel sito di Zlatý kůň, nella Repubblica Ceca (a circa 230 km dal sito di Ranis). Secondo gli autori, doveva far parte di un gruppo umano ancora sconosciuto separatosi molto presto dal resto dei Sapiens da poco usciti dall’Africa.
Sümer e coautori hanno scoperto che la misteriosa donna di Zlatý kůň era una parente di quinto o sesto grado di due individui di Ranis. Secondo la loro analisi, il gruppo Zlatý kůň/Ranis derivava quindi da una stessa popolazione di poche centinaia di individui che rappresenterebbe la prima divisione conosciuta della linea Out of Africa (ovvero il ramo evolutivo di Homo Sapiens emigrato dall’Africa, che avrebbe colonizzato il resto del mondo).
Ma la donna di Zlatý kůň e la famiglia allargata di Ranis condividevano anche un’altra caratteristica: tutti loro discendevano dagli incroci avvenuti tra Sapiens e Neanderthal 47.000 anni fa descritti da Iasi e coautori. I genomi di tutti questi individui antichi contengono infatti una piccola percentuale di ascendenza Neanderthal (il 2,9%) riconducibile a un’unione avvenuta tra le due specie tra le 56 e le 98 generazioni prima della loro nascita.
Oldest modern human #genomes sequenced. These seven early #Europeans belonged to a small, isolated group that left no present-day descendants. Study @Nature led by @arevsumer, Kay Prüfer, Johannes Krause @MPI_EVA_Leipzig. https://t.co/thySPSDXyR & https://t.co/IDwbcYjkkF pic.twitter.com/Oucn1wnDE4
— MPI-EVA Leipzig (@MPI_EVA_Leipzig) December 12, 2024
Come già accennato, gli odierni non africani conservano ancora una piccola percentuale di dna neandertaliano. Ma quali geni abbiamo ereditato in particolare dai nostri cugini evolutivi? E perché proprio alcune specifiche sequenze genetiche – e non altre – sono “sopravvissute” fino ad oggi? Iasi e coautori hanno provato a rispondere a queste domande basandosi sul confronto tra genomi antichi e moderni.
Hanno scoperto che molte varianti genetiche neandertaliane ancora diffuse tra gli esseri umani contemporanei hanno rappresentato un vantaggio evolutivo per la nostra specie: si tratta, in particolare, di geni relativi alla pigmentazione della pelle, al metabolismo e alla risposta immunitaria. Ad esempio, uno dei geni neandertaliani ancora diffuso tra gli esseri umani moderni costituisce un fattore di protezione al Covid.
La storia, comunque, non è semplice né lineare, avvertono gli autori. In primo luogo, il periodo di mescolanza tra Sapiens e Neanderthal è stato molto complesso, con tempistiche e livelli di ibridazione molto diversi a seconda dei vari gruppi umani coinvolti. Inoltre, anche la frequenza dei geni neandertaliani nel dna dei Sapiens è cambiata nel corso dei millenni. Infatti, man mano che mutavano le condizioni climatiche e ambientali, alcuni geni si sono rivelati particolarmente vantaggiosi in determinati periodi, mentre altri, inizialmente importanti, hanno perso in seguito la loro utilità.
Questo intreccio evolutivo solleva ancora molte domande. Non è chiaro, ad esempio, perché gli asiatici orientali conservino una percentuale più alta di geni neandertaliani rispetto agli Europei e agli asiatici occidentali. La scarsità di genomi antichi provenienti dall’Asia orientale rende questa questione particolarmente difficile da risolvere.
Insomma, gli interrogativi aperti sono ancora molti. I ricercatori sottolineano la necessità di condurre ricerche basate sull’analisi di genomi antichi provenienti non solo dall’Eurasia, ma anche dall’Oceania e dal sud-est asiatico, e insistono sull’importanza di continuare a confrontare i dati archeologici con quelli genetici e paleoclimatici per evitare di semplificare una storia molto complessa.