SCIENZA E RICERCA

Nuove scoperte sugli incroci fra Neanderthal ed esseri umani moderni

Che il nostro DNA contenga anche una certa percentuale di geni neandertaliani è noto da tempo, ma se ci sono stati degli incroci fra Homo sapiens e altri gruppi di ominidi oggi scomparsi, se ne dovrebbe trovare traccia anche nei genomi di questi ultimi. Questo aspetto è stato molto poco studiato, ma di recente un gruppo di ricerca internazionale ha mappato il flusso genico tra vari gruppi di ominidi negli ultimi 250 mila anni, confrontando i genomi di esseri umani viventi con quelli di Homo neanderthalensis e Denisova. Lo studio ha gettato nuova luce sulla storia evolutiva che condividiamo in parte con questi antichi ominidi, ed è stato pubblicato su Science a firma di Liming Li (della Southeast University di Nanchino, Cina) e altri.

A partire dall’estate del 1856, quando dei cavatori di calcare trovarono le prime ossa riconosciute di Neanderthal in una grotta in Germania, sono stati scoperti moltissimi altri reperti e la curiosità (scientifica e non) attorno a questi ominidi non si è mai spenta. Una volta capito che i nostri antenati H. sapiens avevano convissuto a lungo con le popolazioni di Neanderthal, ci siamo posti molte domande: quanto eravamo simili o diversi? Ci facevamo la guerra o ci incrociavamo?

Un punto di svolta è arrivato nel 2010 quando viene pubblicata la prima bozza dell’intero genoma neandertaliano, grazie alle ricerche del genetista svedese Svante Pääbo e del suo gruppo. Dodici anni dopo, il premio Nobel per la medicina o fisiologia viene assegnato proprio a Pääbo “per le sue scoperte sui genomi degli ominini estinti e sull’evoluzione umana”.

Segui il flusso genico e capirai chi sei

Nello studio pubblicato su Science, gli autori descrivono una storia di interazioni genetiche tra questi gruppi umani che suggerisce un legame molto più stretto rispetto a quanto si pensasse finora. Il team, composto da genetisti ed esperti di intelligenza artificiale e guidato da Joshua Akey (professore al Lewis-Sigler Institute for Integrative Genomics di Princeton), ha identificato per la prima volta ondate multiple di incroci tra umani moderni e Neanderthal.

Infatti, dal punto di vista evolutivo il ramo degli esseri umani moderni ha iniziato a separarsi dall’albero genealogico (anche se sembra più un cespuglio) che abbiamo in comune con H. neanderthalensis circa 600 mila anni fa. Ma per circa 200 mila anni, le popolazioni dei nostri antenati hanno interagito con quelle neandertaliane, prima che queste ultime scomparissero e H. sapiens diventasse l’ultima specie di ominidi rimasta.

Sappiamo che per gran parte della storia umana, il nostro è stato solo uno dei diversi gruppi di ominidi che hanno camminato sulla Terra. Come si legge nell’introduzione del paper, vari “studi sul DNA antico e moderno hanno dimostrato che si sono verificati molteplici incroci tra diverse linee di ominidi, inclusi gli antenati degli umani moderni e i Neanderthal”. Eppure, le conseguenze di questi incroci sono state quasi sempre analizzate sul nostro genoma, mentre le tracce lasciate nel genoma neandertaliano hanno ricevuto meno attenzione.

Il gruppo di Akey ha cercato di fare luce su questi aspetti ananlizzando i genomi di 2000 esseri umani viventi (con provenienze geografiche diverse e sequenziati dal progetto 1000 Genomes), quelli di tre Neanderthal e di un esemplare denisovano. I ricercatori hanno così mappato il flusso genico tra questi ominidi negli ultimi 250 mila anni, usando uno strumento messo a punto qualche anno fa e chiamato IBDmix, che utilizza tecniche di machine learning per decodificare il genoma.

Un’umanità in continuo movimento

Grazie al metodo IBDmix, sono state identificate tre ondate di contatti fra i gruppi di ominidi: la prima è avvenuta tra 200 e 250 mila anni fa e ha lasciato un 5% di geni umani moderni inseriti nel DNA neandertaliano, a cui si è aggiunto un altro 0,5% in un’altra ondata fra 100 e 120 mila anni fa, e la più grande e recente tra 50 e 60 mila anni fa che invece ha inserito circa un 2% di DNA neandertaliano nel nostro genoma. Il termine tecnico è “introgressione”, cioè l’incorporazione permanente di geni di un gruppo geneticamente distinto - come specie o sottospecie - in un altro, causata dall’incrocio di un ibrido con uno dei gruppi parentali (il fenomeno è diverso dall’ibridazione, che può dare anche individui sterili).

Questi risultati sembrano contraddire la teoria secondo cui gli esseri umani moderni, dopo aver avuto origine in Africa circa 250 mila anni fa, sarebbero rimanendo lì per i successivi 200 mila anni, per poi disperdersi fuori dall'Africa solo 50 mila anni fa. Secondo il modello di Akey e colleghi, il periodo di stasi non ci sarebbe stato, ma la nostra specie avrebbe iniziato a migrare poco dopo la sua comparsa, prima lasciando l’Africa e poi facendovi ritorno. L’idea di un’umanità sempre in cammino troverebbe sostegno nelle ricerche paleoantropologiche e archeologiche che suggeriscono scambi culturali e tecnologici tra i vari gruppi di ominidi.

L’intuizione del gruppo di Princeton di cercare Dna umano moderno nei genomi di Neanderthal, invece che il contrario, ha permesso di guardare alle dispersioni umane in modo nuovo. Finora, la maggior parte degli studi genetici si era concentrata su come gli incroci con H. neanderthalensis avessero influito sul genoma umano moderno, ma è interessante anche capire cosa è successo nel caso inverso. I ricercatori hanno capito che la prole della prima ondata di accoppiamenti dev’essere rimasta con i Neanderthal, senza lasciare tracce negli esseri umani viventi.

La popolazione di Neanderthal stava calando nel tempo e alla fine il suo pool genico è stato assorbito in quello umano moderno. Liming Li, Joshua M. Akey et al.

Le popolazioni di Neanderthal vanno ridimensionate

Un’altra scoperta che emerge dallo studio è che l’intera popolazione neandertaliana sarebbe numericamente più piccola di quanto si pensasse. Tenendo in considerazione l’inserimento delle sequenze di DNA umano moderno (provenienti da una popolazione più grande) nel genoma di Neanderthal, si è capito che la popolazione di H. neanderthalensis andava ridotta di circa il 20%. Come risultato, le dimensioni della popolazione effettiva di Neanderthal sono state riviste al ribasso e si è passati da circa 3400 individui riproduttivi a circa 2400.

I nuovi dati ci possono anche aiutare a capire come potrebbero essere scomparsi i neandertaliani circa 30 mila anni fa. Difatti, come si legge nelle conclusioni dello studio, una “popolazione più piccola e le dinamiche di incrocio inferite sono coerenti con una popolazione di Neanderthal che stava diminuendo di dimensioni nel tempo e che alla fine è stata assorbita nel pool genico umano moderno” Insomma, l’idea di Akey e colleghi è che le popolazioni neandertaliane si siano lentamente ridotte fino a che gli ultimi individui sopravvissuti non si sono integrati nelle comunità di umani moderni. E questo è coerente con il “modello di assimilazione” proposto per la prima volta nel 1989 da Fred H. Smith, professore di antropologia all’Illinois State University.

Certamente questo studio non mette la parola fine alle ricerche sul genoma di Neanderthal, ma ha arricchito la nostra comprensione dell’evoluzione della specie umana, mostrando come le migrazioni e gli incroci tra i vari gruppi di ominidi hanno lasciato un’impronta duratura nei nostri genomi, contribuendo anche a creare la diversità genetica che osserviamo oggi.

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