SOCIETÀ
Scienza d’inchiesta #3: un’alleanza tra giornalismo e ricerca contro il greenwashing
Foto di Rhett A. Butler
Come ricordavamo all’inizio in questa mini-serie di articoli, dedicata all’inchiesta pubblicata su The Guardian, Die Zeit e SourceMaterial, esiste una parte giornalistica e un’altra scientifica del lavoro investigativo che ha rivelato quanto sia gonfiata la riduzione delle emissioni rivendicata da progetti forestali REDD+ certificati con le metodologie di Verra.
L’inchiesta giornalistica
Il lavoro giornalistico, che è durato 9 mesi, è consistito in dozzine di interviste sul campo a scienziati, a persone che lavorano nel settore delle compensazioni (offsets) in possesso di informazioni riservate (insiders), nonché a individui delle popolazioni indigene che vivono in quelle aree di foresta tropicale dove venivano sviluppati i progetti. Tra le tante ombre che emergono da questa inchiesta infatti c’è anche quella della violazione dei diritti umani di coloro che abitano porzioni di foresta che non solo non sarebbero state tutelate ma addirittura abbattute.
I giornalisti inoltre, partendo dai risultati pubblicati su riviste scientifiche prodotti da due gruppi di ricerca (che in seguito vedremo più in dettaglio), hanno effettuato un’analisi ulteriore. Come riporta il Guardian, la deforestazione che i progetti stimavano di evitare è risultata gonfiata del 400% e di conseguenza i crediti associati facevano riferimento a una compensazione delle emissioni che in realtà non è mai avvenuta, o per lo meno non nella misura dichiarata. Tuttavia, senza considerare 3 progetti in Madagascar, che hanno avuto un reale beneficio sul clima, l’esagerazione raggiungerebbe il 950%.
Il Guardian riporta che più del 90% dei crediti valutati non corrisponde a una reale compensazione delle emissioni. Uno studio rivela che di quasi 100 milioni di crediti, corrispondenti a quasi 100 milioni di tonnellate di CO2, solo 5,5 milioni sono associabili a una reale riduzione delle emissioni, riporta invece SourceMaterial.
Secondo Barbara Haya, direttrice del Berkeley Carbon Trading Project, le implicazioni di questa inchiesta sono enormi, perché i problemi evidenziati non si limiterebbero ai progetti in foresta tropicale REDD+, che oggi sono tra i più comuni in questo mercato, ma sarebbero estendibili a gran parte di tutte le altre forme di crediti, dichiara al Guardian. Haya ha iniziato 20 anni fa a studiare questo settore e oggi lamenta di avere le stesse conversazioni che aveva allora: “Il mercato delle compensazioni non funziona” ammette.
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L’inchiesta scientifica
Ma veniamo al lavoro scientifico da cui l’inchiesta giornalistica è partita. In totale sono stati prodotti tre articoli scientifici a cui hanno lavorato due gruppi di ricercatori, molti dei quali affiliati all’università di Cambridge. Il primo gruppo, internazionale e guidato da Thales A. P. West, ha pubblicato due lavori, uno su PNAS nel 2020 e l’altro in preprint su arXiv a inizio 2023. Il secondo gruppo invece, britannico e guidato da Alejandro Guizar-Coutiño, ha pubblicato i propri risultati nel 2022 su Conservation Biology. Vediamoli nel dettaglio.
PNAS
Quello pubblicato nel 2020 su PNAS ha considerato 12 progetti REDD+ dell’Amazzonia brasiliana, realizzati tra il 2008 e il 2019. La loro capacità di ridurre le emissioni è stata valutata con un metodo alternativo al VCS di Verra e basato su un’analisi di immagini satellitari di cui sono stati considerati poligoni geospaziali che delimitano l’area del progetto (il metodo è chiamato di controllo sintetico per l’inferenza causale, synthetic control methods for causal inference). “Complessivamente non troviamo alcuna evidenza che i progetti REDD+ nell’Amazzonia brasiliana abbiano mitigato la perdita forestale” e che quindi siano corrisposti a un assorbimento di emissioni, scrivono gli autori.
Nel valutare l’impatto ambientale di un progetto, l’errore perpetrato dalla metodologia VCS di Verra, secondo i ricercatori, sta nel fissare come termine di confronto (baseline) un periodo in cui il tasso di deforestazione è stato particolarmente elevato, come quello registrato nel 2004 in Brasile. Così facendo, l’impatto benefico del progetto risulta maggiore di quanto in realtà non sia.
Inoltre, il metodo di Verra non sarebbe in grado di distinguere in modo adeguato quanto la diminuzione del tasso di deforestazione sia merito dei progetti REDD+ o invece delle politiche del governo brasiliano, che infatti lo hanno drasticamente ridotto dal 2004 al 2012.
Il metodo proposto da West e colleghi invece tiene in considerazione più fattori al contorno, quali i prezzi dei beni agricoli (che possono incentivare o meno la deforestazione in favore di nuove piantagioni), i tassi di cambio delle valute e le politiche regolatorie ambientali.
Conservation Biology
Il paper pubblicato su Conservation Biology pur utilizzando sempre immagini satellitari, adotta un’altra metodologia basata non sull’analisi di poligoni, ma di singoli pixel. Il lavoro prende in considerazione 40 progetti REDD+ distribuiti in 9 Paesi e 3 continenti (Sud America, Africa e Sud-est asiatico) per un totale di oltre 8,3 milioni di ettari.
In questo caso gli autori riscontrano che i progetti REDD+ risultano complessivamente efficaci nel ridurre la deforestazione e la degradazione, soprattutto nelle aree in cui tali minacce erano maggiori prima dell’inizio dei progetti. Alcuni dei dati per compiere questo studio sono stati forniti direttamente da Verra ai ricercatori.
In ogni caso, i benefici riscontrati risultano molto minori rispetto a quelli rivendicati dal sistema di assegnazione dei crediti. SourceMaterial riporta che invece di tutelare un’area delle dimensioni dell’Italia, tali progetti in realtà proteggono un’area grande come la città di Venezia.
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Preprint su arXiv
Il terzo lavoro condotto sempre dal gruppo di West, e in procinto di venir pubblicato, considera 27 progetti di conservazione forestale in 6 Paesi di tre continenti: Colombia, Perù, Tanzania, Repubblica Democratica del Congo, Zambia e Cambogia.
Di nuovo, il metodo adottato è quello del lavoro su PNAS del 2020 e “i risultati mostrano che la maggior parte dei progetti non riducono la deforestazione. Per quelli che lo fanno, le riduzioni sono sostanzialmente minori di quanto rivendicato” scrivono gli autori. “Le metodologie per costruire i confronti (baseline) per gli interventi di compensazione carbonica necessitano pertanto di urgenti revisioni per arrivare ad attribuire correttamente la ridotta deforestazione agli interventi di conservazione”.
In questo lavoro i ricercatori individuano tre possibili ragioni alla base delle valutazioni eccessivamente gonfiate. La prima riguarda una scarsa capacità di previsione: “i progetti potrebbero aver involontariamente sovrastimato la deforestazione basandosi su trend storici allarmanti che però non rappresentano le condizioni attuali”. La seconda è l’aver trascurato i cambiamenti avvenuti: “i confronti (baselines) su cui si basano i progetti REDD+ tendono a rimanere gli stessi per 10 anni, scoraggiando possibili aggiustamenti che riflettono i cambiamenti nel tempo dei fattori che causano la deforestazione”. La terza, riportano esplicitamente gli autori, è l’azzardo: “i confronti (baselines) potrebbero esser stati strategicamente gonfiati per massimizzare i profitti derivanti dalla vendita delle compensazioni”.
Le stime prodotte ex-ante infatti avrebbero valutato in 89 milioni i crediti associati alle compensazioni che i progetti REDD+ (considerati dallo studio) avrebbero potuto generare. 63,2 milioni, ovvero il 71% sarebbero derivati da progetti che in realtà non avrebbero significativamente ridotto la deforestazione e quindi le emissioni. 25,8 milioni (il 29%) sarebbero invece stati associati a progetti che hanno sì avuto un impatto benefico, ma molto minore di quanto rivendicato.
Il metodo alternativo usato invece dai ricercatori guidati da West mostra che solo 5,5 milioni di crediti (il 6,2%) avrebbe effettivamente ridotto delle emissioni.
A 18 progetti REDD+ considerati nello studio sono stati effettivamente assegnati 62 milioni di crediti per compensazioni, riportano gli autori. Di questi, 14,6 milioni (il 24%) sono già stati acquistati da individui e aziende in giro per il mondo, che li includono nel conteggio della riduzione delle proprie emissioni. Secondo le stime dello studio si tratta di un valore 3 volte più grande delle emissioni che in realtà hanno ridotto. Nel frattempo, altri 47,4 milioni di crediti legati a questi progetti di compensazione restano disponibili sul mercato.
La proposta di un metodo alternativo
In conclusione del lavoro disponibile in preprint, i ricercatori propongono di modificare le metodologie con cui si stabiliscono i tassi di deforestazione a cui i progetti devono fare riferimento per calcolare il proprio impatto. Invece di utilizzare valutazioni ex-ante, che restano fisse per anche 10 anni, e che fanno riferimento a momenti in cui, come nel 2004, i tassi erano molto alti, West e colleghi propongono di adottare “confronti dinamici” (dynamic baselines), che usino scenari controfattuali ex-post, che siano in grado di integrare gli effetti dei cambiamenti in corso e che siano in grado di stimare con maggiore precisione quanta deforestazione ci sarebbe in quella data area se il progetto non ci fosse, e conseguentemente quanta il progetto effettivamente ne previene.
Un’alternativa più semplice da mettere in pratica potrebbe essere anche quella di far utilizzare a tutti i progetti valutazioni ex-ante che siano stabilite però per legge da agenzie governative e aggiornate regolarmente. “Trasferire la responsabilità di fissare i confronti (baseline) dagli sviluppatori dei progetti a enti giuridici potrebbe ridurre lo spazio di azzardo su tali confronti”.
I ricercatori dovrebbero lavorare insieme a coloro che operano nel settore per affrontare queste sfide, concludono West e colleghi, per aiutare i progetti REDD+ a mantenere le loro originarie promesse.
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