SCIENZA E RICERCA

Non tutto il turismo spaziale nuoce alla scienza (anzi)

Non ci sono mai state così tante persone nello spazio come in quest’ultimo periodo. E ce ne saranno sempre di più. Attenzione: non si parla di astronauti con la A maiuscola, insomma di quelli che siamo abituati a ricordare dal passato, come Neil Armstrong, o di quelli “moderni” e più italiani come Luca Parmitano o Samantha Cristoforetti. Insomma, chi va nello spazio non è (più) solo un professionista, addestrato per anni a farlo, ma un “semplice” turista. Una gita di questo tipo è sicuramente onerosa in termini economici, ma non è questo l’aspetto che interessa maggiormente oggi.

Sì, perché se da un alto si potrebbe storcere il naso su questioni legate alla sicurezza di far andare oltre l’atmosfera terrestre delle persone non del tutto addestrate allo scopo, dall’altra questa aumentata presenza di persone in orbita, rappresenta un’occasione di studio importante per il mondo della ricerca scientifica.

Facciamo un passo indietro

Fino a pochi anni fa, l’idea del turismo spaziale poteva sembrare fin troppo embrionale, se non ancora qualcosa di fantascientifico. Dall’inizio dell’esplorazione spaziale, solo la NASA aveva avviato un programma di missione che prevedeva l’invio di civili con lo Space Shuttle. Il caso più tristemente famoso è quello dell’insegnante americana Christa McAuliffe: la donna – nel 1984 – era stata selezionata all’interno del progetto Teacher in Space per partire a bordo dello Shuttle Challenger e impartire alcune lezioni di scienze in microgravità. L’intento del piano, fortemente voluto dall’allora presidente USA, Ronald Reagan, era di stimolare le nuove generazioni allo studio delle scienze. Per un problema tecnico, lo Shuttle esplose, 73 secondi dopo il decollo, lasciando un’impronta indelebile nell’immaginario collettivo e bloccando i voli con equipaggio per i due anni successivi al 1986. Solo nel 1998 si vide una prima civile nello spazio: si trattò di Barbara Morgan, la sostituta della defunta MacAuliffe che potette fare quello che non riuscì alla sua collega. Altri programmi simili vennero cancellati dalla NASA.

Otto anni prima, nel 1990, la crisi dell’Unione Sovietica mise in forte dubbio il suo programma spaziale. Fu allora che una televisione giapponese pagò la cifra record di 28 milioni di dollari per inviare a bordo della stazione spaziale MIR il conduttore televisivo Toyohiro Akiyama che rimase una settimana in orbita.

Non fu propriamente il primo caso di turista spaziale. Per arrivare ad esso, si dovette attendere il 2001, quando l’uomo d’affari Dennis Tito pagò 20 milioni di dollari per essere il primo civile pagante a rimanere a bordo della Stazione spaziale internazionale (ISS) per sette giorni. Dal 2001 al 2009 furono altre sette le persone a poter volare nello spazio, tutte partite da terra con il lanciatore russo Soyuz. I voli turistici vennero interrotti nel 2010 per garantire la massima capienza possibile delle capsule russe per i trasferimenti degli astronauti da e per la ISS.

La situazione ai giorni nostri

Tornando all’oggi, la situazione è completamente mutata: l’arrivo, nello scenario dei viaggi spaziali, di compagnie private ha modificato totalmente l’approccio al volo turistico, aumentando notevolmente le possibilità, per chi ha a disposizione comunque ingenti somme di denaro, di fare una gita nello spazio. Il vettore privato che più ha contribuito a questo aumentato afflusso di space tourist è sicuramente Space X che con il suo lanciatore riutilizzabile Falcon e la sua capsula Crew dragon sta contribuendo notevolmente a questo nuovo fenomeno. Altri attori privati sono presenti (Virgin Galactic e Blue Origin), ma con un minore impatto rispetto alla compagnia fondata dal controverso miliardario high-tech Elon Musk.

Ora, al di là del mero aspetto remunerativo (per le compagnie private) e che poco ci interesserebbe in questa sede, la crescita di voli spaziali non effettuati da professionisti addestrati ha delle dirette conseguenze (positive) sulla possibilità di effettuare studi scientifici sugli effetti dello spazio sul corpo umano rispetto a solo pochi anni fa.

Ne è un esempio l’ultima missione privata, decollata il 10 settembre 2024, a bordo di una Crew dragon. Il suo nome è Polaris Dawn e ha portato nello spazio un equipaggio formato da Jared Isaacman, Scott Poteet, Sarah Gillis e Anna Menon. La missione ha fissato dei record spaziali non indifferenti: è stato il primo volo a un’altitudine superiore ai 1.400 chilometri dall’epoca delle missioni Apollo e il primo a vedere una passeggiata spaziale commerciale con la sperimentazione di una nuova tuta EVA (attività extra veicolare). Record sicuramente impressionanti, ma con la capsula Crew dragon e i suoi inquilini privati, viaggiavano anche 36 esperimenti scientifici. Come riporta Nature, per il genetista Christopher Mason, responsabile di un database biomedico degli astronauti, “è probabilmente il periodo più eccitante dei voli spaziali dal 1960”. Come si diceva, più persone nello spazio è uguale ad avere molti più dati scientifici a disposizione per poter analizzare e capire meglio il comportamento del corpo umano nello spazio. In un’ottica di spinta verso la corsa alla Luna e – in un futuro non ancora certo – a Marte, riuscire ad avere più dati medici possibili garantirà di poter progettare viaggi con equipaggio umano con minori rischi. Polaris Dawn, record a parte, ha permesso di testare la tuta extra veicolare che, nelle intenzioni di Space X, dovrebbe proteggere gli astronauti sulla Luna e, infine, su Marte. La missione, finanziata da Jared Isaacman, CEO di un’importante azienda per i pagamenti elettronici, è solo la prima di tre. In quella appena archiviata con successo, ricercatori hanno raccolto dati sullo stato di salute dell’equipaggio, altri hanno effettuato dei controlli ai raggi X dei polsi e delle anche dei passeggeri per verificare gli effetti della microgravità sulla struttura delle ossa. I dati saranno incrociati con quelli già in possesso e raccolti sui membri in orbita sulla ISS. “Avere i privati nello spazio è un’occasione incredibile – spiega uno dei medici coinvolti nella ricerca – è difficile studiare gli astronauti professionisti perché ci vuole sempre molto tempo prima che partano per una missione”. Un’altra ricerca approfitterà di Polaris Dawn per studiare la sindrome SANS, una condizione neuro-oculare in cui gli astronauti sperimentano una modifica permanente della loro vista, se non – nei casi peggiori – dei danni permanenti.

Infine, qui più per fini di ricerca commerciale e tecnologica, l’ultima missione di Polaris – salvo modifiche in corsa – sarà quella che vedrà il primo test con equipaggio del nuovo razzo di Space X: si tratta di Starship, il lanciatore progettato per garantire l’arrivo sulla Luna e poi su Marte degli astronauti e delle componenti necessarie per realizzare le future basi sul nostro satellite.

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