Sciopero degli operai Pirelli fuori dalla fabbrica, (Milano 1969). Foto: Wikimedia Commons
Nasce per promuovere la giustizia sociale ma anche come eredità della prima guerra mondiale, ‘risarcimento’ per centinaia di migliaia di famiglie piegate e distrutte dallo sforzo bellico. Una contraddizione che in un certo senso caratterizza tutta la storia del nostro welfare: strumento di emancipazione ma anche – non solo durante il fascismo – di controllo e di costruzione del consenso. Storia dello Stato sociale in Italia (Il Mulino 2021), pubblicato dalle storiche Chiara Giorgi e Ilaria Pavan, è un corposo studio ricco di dati e di analisi, che per la prima volta affronta dettagliatamente lo sviluppo nel nostro Paese dei sistemi previdenziale, assistenziale e sanitario da un punto di vista complessivo e con un approccio storico, anziché economico o sociologico.
Alla vigilia del conflitto del 1915-18 l’Italia è il grande Paese europeo più arretrato dal punto di vista dei diritti: appena il 4,8% della popolazione è coperto da una qualche forma di protezione sociale, contro il 42,8% della Germania e il 36,3% della Gran Bretagna. Dal 1898 è stata resa obbligatoria l’assicurazione contro gli infortuni per gli operai ma non per i contadini, che costituiscono ancora la stragrande maggioranza della forza lavoro; l’iscrizione alla cassa previdenza per la pensione di invalidità o di vecchiaia è ancora facoltativa, mentre lo Stato spende in interventi di carattere sociale appena l’1,56% del suo bilancio.
Il lascito del conflitto sarà un esteso di sistema previdenziale diretto soprattutto agli invalidi e ai reduci di guerra, che però non servirà a evitare il malcontento diffuso che costituirà una delle basi dell’ascesa del fascismo. Il quale userà le politiche previdenziali e assistenziali – i cui benefici sono sistematicamente esagerati dalla propaganda – per estendere il proprio controllo su larghe fasce della popolazione e allo stesso tempo giustificare una serie di provvedimenti liberticidi. Uno scambio tra diritti sociali e politici che continua a sedurre ancora oggi, dopo un ventennio di stagnazione e di crisi economica, diffondendosi sul web sull’onda delle mirabolanti quanto presunte conquiste sociali del fascismo.
In realtà si tratta di un falso: il nerbo dei nostri attuali diritti viene messo a punto durante la Repubblica, la quale fin dall’art. 3 della nuova Costituzione dichiara di voler andare oltre una concezione esclusivamente formale del principio di uguaglianza di fronte alla legge e si pone l’obiettivo di ‘rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale’ che ‘limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini’. Vero è che il nuovo sistema eredita molte caratteristiche e storture del vecchio: dalla gestione burocratica e clientelare alla struttura basata sui trasferimenti monetari piuttosto che sulla fornitura di servizi, dalle scarse tutele per i disoccupati alla selva di trattamenti differenziati, fino a uno sviluppo condotto a colpi di leggi e leggine, basato su pressioni contingenti piuttosto che su una visione organica della società e delle sue esigenze. In particolare l’incidenza positiva dei provvedimenti si rivelerà nel corso degli anni limitata da due elementi di fondo: la confusione tra previdenza e assistenza e gli scarsi investimenti sulle famiglie, utilizzate come sistema di welfare alternativo basato sul lavoro domestico femminile non retribuito.
“ Gli anni ‘70, spesso descritti in termini di crisi e di violenza politica, sono stati anche un grande decennio di riforme: forse il più denso della storia repubblicana
Sta di fatto che, nonostante i limiti e le contraddizioni, l’Italia nel dopoguerra riduce e poi praticamente annulla il gap con altri Paesi europei in termini di investimenti sociali, e soprattutto nel 1978 mette a segno quella che forse è la maggiore conquista degli ultimi decenni: la creazione di un sistema sanitario nazionale di impronta universalista. “Quella che abbiamo raccontato non è solo una storia di fallimenti: da essa emergono anche numero slanci riformatori e innovatori – ha spiegato durante il webinar di presentazione del volume Ilaria Pavan, docente di storia contemporanea presso la Scuola Normale Superiore di Pisa –. Un percorso in qualche modo fatto anche di fini raggiunti e di obiettivi conseguiti da parte delle élites riformiste di questo Paese”. Un quadro che prende forma soprattutto negli anni ‘70: “Un periodo che dalla storiografia italiana più recente è descritto in termini di crisi e di violenza politica, ma che è stato anche un grande decennio di riforme, forse il più denso della storia repubblicana”.
Un’analisi confermata dall’altra autrice Chiara Giorgi, docente alla Sapienza di Roma: “Negli anni ‘60 e ’70 c’è una crescita della spesa sociale che alla fine del decennio porta l’Italia a convergere con i livelli degli altri Paesi europei, in particolare Francia e Germania. La realizzazione nel 1978 di un servizio sanitario nazionale finanziato con la fiscalità generale è forse la riforma più importante dell’Italia repubblicana. Con essa diviene centrale il diritto alla salute: un aspetto che oggi si rivela essenziale alla luce della pandemia, che ci ha indicato la necessità di un rinnovamento del welfare sanitario fondato sulla prevenzione oltre che sul potenziamento dei servizi di base”.
Un modello che, come è noto, entra sempre più in crisi dalla fine degli anni ’80, preso nella tenaglia tra il succedersi delle crisi economiche e finanziarie e le accresciute esigenze di una popolazione sempre più anziana. Ed è qui che il libro termina la sua disamina, fedele alla definizione hobsbawmiana di secolo breve. Con il fallimento del socialismo reale infatti cade anche un vincolo esterno fondamentale per lo sviluppo dei diritti sociali nelle democrazie dell’Europa occidentale: quello di avere a due passi un sistema alternativo a quello liberale e liberista. Con il tramonto di questa sfida l’Europa tenta di reagire alla perdita della propria centralità rafforzando la sua unione, basata però sulla moneta e sulla condivisione dei vincoli di bilancio. Per i diritti e una fiscalità comune stiamo ancora aspettando, e anzi globalizzazione e allargamento ad est si sono dimostrate altrettante occasioni di dumping sociale. Dell’età dei diritti rimangono molte conquiste, tuttavia sottoposte a costante erosione, ma anche un enorme debito pubblico.
Oggi, in un mondo ferito dal Coronavirus, si torna a guardare alle politiche di inclusione piuttosto che al mercato, come mette anche in luce il tema scelto quest’anno dal festival dell’economia di Trento, dedicato al “ritorno dello Stato”. Dalla società sale una richiesta di crescita e di lavoro, ma anche di uguaglianza: dopo anni ideologicamente dominati dal neoliberismo le politiche sociali sono tornate al centro del dibattito persino negli Stati Uniti. Se si tratti di una svolta positiva o di un’illusione sarà la storia a dirlo: intanto è utile riflettere sul cammino svolto.