Conclusa la COP30: la strada per tornare a Parigi e rispettare l’accordo sul clima è ardua
Dal World Energy Outlook dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) all’Emissions Gap Report dell’Unep, il programma ambientale dell’Onu, tutti i futuri scenari emissivi della società e termodinamici del pianeta restituiscono, anche nella migliore delle ipotesi, un mondo più caldo di 1,5°C rispetto all’era preindustriale.
Il grado e mezzo è la soglia che la comunità scientifica ci avverte di non superare, perché le conseguenze sarebbero una serie di reazioni di rinforzo reciproco (feedback) che rischiano di accelerare e aggravare gli impatti del cambiamento climatico. L’accordo di Parigi firmato alla COP21 del 2015 era riuscito a mettere d’accordo i Paesi delle Nazioni Unite a darsi da fare per non doversi trovare ad affrontare questo azzardo climatico.
Per quanto riguarda il settore energetico, il maggiore responsabile delle emissioni di gas serra, la lista delle cose da fare è stata individuata ad esempio dal rapporto Net Zero della IEA: dal 2020 non si sarebbe dovuto inaugurare più nessun nuovo pozzo petrolifero, miniera di carbone o giacimento di gas. Le emissioni globali avrebbero dovuto iniziare a calare per dimezzarsi al 2030 e azzerarsi al 2050. Come sappiamo, le cose sono andate diversamente.
“Ora, nel 2025, dobbiamo ammettere il fallimento” scrive un gruppo di ricercatori in un articolo commento pubblicato in un database online (Zenodo), durante la prima settimana della COP30 di Belém. L’intervento è firmato anche da Johan Rockström, direttore del Potsdam Institute for Climate Impact Research e tra i più rilevanti scienziati del clima. “Le emissioni globali di gas serra continuano ad aumentare. Di conseguenza, nel prossimo decennio il riscaldamento globale a lungo termine supererà quasi inevitabilmente 1,5°C”.
Non si tratta però di una mera constatazione dell’inazione di questi anni, anzi: il sottotitolo è “una riflessione basata sulla scienza su dove ci troviamo e sulla strada che ci attende”, il titolo è ancora più eloquente: The road (back) to Paris, la strada per tornare a Parigi, all’accordo internazionale sul clima.
L’overshoot, ossia il superamento del grado e mezzo, non è necessariamente un destino irreversibile. “Se prendiamo le decisioni giuste da qui in avanti, possiamo ancora cambiare rotta e riportare le temperature sotto 1,5°C entro la fine di questo secolo. Un futuro del genere è ancora alla nostra portata, ma sarà estremamente impegnativo. Richiede sia una profonda e rapida riduzione delle emissioni globali sia un massiccio incremento delle tecnologie e delle pratiche di rimozione dell’anidride carbonica (CDR)”.
Scientists at Planetary Science Pavilion on #COP30:
Most of the 1.5°C CO₂ budget is gone. 2025 emissions still rising. ~4 years of budget left. We need 5% cuts yearly & roadmap to phase out fossil fuels. Science must stay in the text, not be scrubbed.https://t.co/WXj3WOC5XR pic.twitter.com/oTKSbgocCJ— Potsdam Institute for Climate Impact Research PIK (@PIK_Climate) November 15, 2025
Come tornare all’obiettivo dell’accordo di Parigi
Rockström e colleghi ricordano che superando il grado e mezzo molti pezzi del sistema climatico terrestre potrebbero superare i tipping points, ossia i punti di non ritorno. Le calotte glaciali di Groenlandia e Antartide occidentali potrebbero innescare un lungo processo di scioglimento inarrestabile, lo stesso vale per il disgelo del permafrost. Le barriere coralline tropicali andrebbero incontro al collasso, aggravando la perdita di biodiversità marina. Quella terrestre invece viene spinta anche dalla deforestazione, che sconvolge i sistemi idrologici delle foreste: l’Amazzonia rischierebbe di trasformarsi lentamente in savana. Gli scenari più catastrofici portano a un arresto della corrente atlantica AMOC (Atlantic Meridional Oceanic Circulation) che è responsabile della regolazione climatica sia dell’America sia dell’Europa: le conseguenze di una tale eventualità, che si fa più probabile con l’aumento della temperatura, non sono nemmeno del tutto mappate.
Per questo, sottolineano i ricercatori, “minore sarà l’overshoot, minore sarà la pressione esercitata sui sistemi della Terra e maggiori saranno le possibilità di tornare sotto 1,5°C – ogni decimo di grado conta”. E aggiungono: “Il miglior e unico strumento per limitare l’overshoot è una riduzione immediata e significativa delle emissioni”.
Il primo passaggio obbligato, come gli scienziati ripetono da decenni, è attuare la transizione a fonti di energia pulita e farlo molto più in fretta di quanto non abbiamo fatto finora: il ritmo da tenere deve essere una riduzione di almeno il 5% delle emissioni globali ogni anno. Tuttavia, questo da solo non basterà.
Proprio perché abbiamo già perso 5 anni di riduzione delle emissioni, dovremo anche rimuovere anidride carbonica già presente in atmosfera. Dovremo farlo utilizzando metodi per così dire naturali, sfruttando l’assorbimento di cosiddetti carbon sink (pozzi di carbonio) non solo come le foreste, ma anche come le aree umide o le torbiere. Inoltre, “questo deve comportare la trasformazione del sistema alimentare globale, dall’essere fonte di emissioni a diventare un assorbimento netto di carbonio entro i prossimi 10–20 anni” sottolineano i ricercatori, che fanno anche dei conti precisi su quanta CO2 dovremo rimuovere dall’atmosfera.
“Se intraprendiamo un percorso altamente ambizioso verso le zero emissioni nette, il picco del riscaldamento globale potrebbe essere limitato a circa 1,7°C rispetto al livello preindustriale. Tornare sotto 1,5°C richiederebbe quindi la rimozione cumulativa di almeno 400 miliardi di tonnellate di anidride carbonica – l’equivalente di 10 anni delle attuali emissioni globali”.
Ma anche la rimozione del carbonio va fatta in fretta, perché ogni ritardo costa: “Ogni ritardo di 5 anni nel dimezzare le emissioni globali di CO₂ – ad esempio entro il 2040 anziché il 2035 – potrebbe aggiungere altre 200 miliardi di tonnellate di emissioni di CO₂ e 0,1°C di riscaldamento”.
Dal 2020 al 2025 abbiamo già accumulato 5 anni di ritardo, che quindi ci hanno già fatto guadagnare un decimo di grado e più lavoro da fare in futuro per rimuovere dall’atmosfera i gas serra che abbiamo rilasciato. Naturalmente, questo ritardo ha un costo anche economico, nell’ordine delle migliaia di miliardi di dollari: un debito che le generazioni future si troveranno alla nascita.
A tutto questo va aggiunto un ulteriore fattore di incertezza: non abbiamo garanzie sul fatto che le tecnologie di rimozione del carbonio possano funzionare su una scala così ampia. Sappiamo invece che esistono dei limiti alle quantità di anidride carbonica assorbita che possiamo immagazzinare nei depositi terrestri attraverso strumenti come la CCS (Carbon Capture and Storage) o la DAC (Direct Air Capture), che oltre tutto non hanno ancora dimostrato una sufficiente maturità tecnologica.
In tutto questo non dobbiamo dimenticare l’altro lato della medaglia della lotta al cambiamento climatico: “La migliore difesa consiste anche nel perseguire la massima ambizione possibile in materia di adattamento, mettendo le comunità vulnerabili nella posizione più forte possibile per resistere ai cambiamenti” concludono i ricercatori.